Eh si, capita proprio a fagiolo l’uscita imminente nelle sale italiane del film comico-politico di Roberto Andò “Viva la libertà”.
Eh si, ci voleva proprio per alleggerire l’ammorbante atmosfera da campagna elettorale, che ci obbliga, nolenti, a sorbirci ancora ed ancora il parapiglia fra i vari onorevoli “ominicchi” (per dirla alla Sciascia) pronti ad emularsi a vicenda pur di mostrare il proprio carisma. Carisma?
Ed ecco l’idea dell’apologia politica di Andò. Ad una decina di giorni dal voto, il 14 febbraio, esce il suo film, tratto da un suo scritto “Il trono vuoto” (vincitore del premio Campiello 2012), prodotto da Angelo Barbagallo e scritto a quattro mani con Angelo Pasquini, già dissacratore della politica italiana con “Il portaborse”.
La storia è bizzarra e curiosa (forse rappresenterà il desiderio di tanti elettori di una parte politica, orfana di inventiva?).
I protagonisti di questa storia sono due gemelli: il primo è segretario di un importante partito di sinistra (Bersani? D’Alema?), da anni all’opposizione, segretario depresso per gli esiti negativi dell’ennesimo sondaggio, confermanti la propria impopolarità; il secondo è un geniale filosofo, allegro e creativo, ma affetto da disturbi mentali. Il primo fratello, non riuscendo più a comunicare con i propri elettori, scoraggiato, fugge in Francia da un’amica di gioventù; il secondo, strano ma carismatico, viene assunto dal portaborse del politico a sostituire il fratello per porre rimedio in un partito allo sconquasso.
In un gioco di specchi, come in ogni narrazione sulle duplici dinamiche gemellari, l’intellettuale non entra unicamente nel ruolo del politico, anche nella sua vita e nel rapporto con sua moglie in un continuo e snervante confronto. Mentre l’arido politico, in compagnia della vecchia amica, cerca di recuperare se stesso in un ruolo non dissimile da quello che ha sempre interpretato, cioè l’attore.
Protagonista di questo doppio ruolo è Toni Servillo, credo perfetto come sempre, poiché non è nuovo al ruolo del politico (già con Martone, Sorrentino e Bellocchio) e perché è un attore di teatro e, in quanto tale, come lui stesso ha dichiarato in un’intervista: “interpretare un doppio personaggio, secondo la migliore tradizione teatrale, è per un attore un’occasione ghiottissima. Mi sono sentito come un topo nel formaggio".
Bene, ci crediamo e già pregustiamo la sua performance.
Sarà interessante seguirlo in questo sdoppiamento di personalità: il gemello pazzo, carismatico perché emotivamente libero dagli obblighi, cui deve invece sottoporsi il politico, vuoto perché vittima delle stesse regole sociali e politiche autoimposte.
Ecco il motivo del titolo “Viva la libertà”, Servillo si augura che il film possa divertire la classe intellettuale e politica italiana, ma anche: ”suggerisse loro che l’idea di essere superiori occorre avere la forza di dimostrarla”.
Oltre a Servillo c’è un cast di tutto rispetto: Valerio Mastandrea, nel ruolo azzeccatissimo del portaborse, Michela Cescon, Valeria Bruni-Tedeschi, Anna Bonaiuto.
E’il regista stesso, tuttavia, il miglior promoter del film suddetto, poiché ne parla con un entusiasmo coinvolgente: emozionandosi all’anteprima nazionale alla Casa del Cinema di Roma, ha dichiarato che la sua pellicola non è una denuncia, bensì un atto di speranza, il desiderio di cambiamento, l’espressione di come dovrebbe essere l’anima della Sinistra.
Non sapendo quanto riscontro la pellicola abbia con la realtà, aspettiamone l’uscita con la concreta speranza di goderci un buon prodotto (gli ingredienti sono ottimi). Purtroppo l’uscita del 14 febbraio è prevista in (solo) 100 sale (e…siamo alle solite) e molti rimarranno a bocca asciutta.
Non può che suscitare reazioni viscerali contrastanti il cineasta che ha fatto della passione, soprattutto di quella per il cinema, il motore della sua vita.
Pedro Almodòvar è stato in gioventù un regista dallo spirito eclettico ed inquieto, capace di riflettere se stesso nei suoi film, in modo caotico, con scarsa disciplina, esprimendo una morale sua, affatto convenzionale. Crescendo, con lui è cresciuto anche il suo cinema e si è come raffinato, meglio affinato.
Lo stesso regista, negli anni ’90, ripeteva spesso di voler passare di moda e di voler diventare un classico.
Beh, indiscutibilmente sembra esserci riuscito, se si analizzano le sue creazioni dell’ultimo ventennio, a partire da quello che è stato considerato, non solo dalla critica, anche dal pubblico, l’apice della sua carriera, sto parlando del periodo produttivo di
“Tutto su mia madre” e di “Parla con lei”. Entrambi le opere pluripremiate ai festival internazionali più autorevoli.
Chi si ricorda o chi ha seguito il giovane Pedro? Quel giovane scapestrato che, tra gli anni ’70 e ’80, ha fatto del gusto kitsch la propria peculiarità, l’elemento identificante, arricchendolo con lo humor gretto ma ricco d’immaginazione dell’underground madrileno? Questo, probabilmente, è l’Almodòvar meno popolare, più dileggiato per la gestualità irriverente, il sesso spudoratamente esibito, il rock, i colori eccentrici in un tutt’uno di pessimo gusto. Parlo del regista di “Pepi, Luci, Bom, e le altre ragazze del mucchio” o di “Labirinto di passioni” e “L'indiscreto fascino del peccato”, ancora di “Che ho fatto io per meritare questo?” ( capolavoro d’originalità) fino ad arrivare a “Matador” e “La legge del desiderio”. Probabilmente l’Almodòvar che ha provocato le critiche più controverse (a quanti stava sull’anima questo giovane regista - dissacratore dei valori più solidi della società filocattolica spagnola), ma anche il più autentico.
L’uscita, nel 1988, di “Donne sull'orlo di una crisi di nervi”, sua settima fatica, segna un radicale ampliamento della popolarità del regista castigliano, la sua opera sconfina al di là della Spagna e la critica internazionale incomincia ad occuparsi di lui. In "Donne sull'orlo di una crisi di nervi" c'è ancora, tuttavia, quel gusto per l'assurdo e quel tocco ironico tipico dei primi film in super8, e anche la trama presenta analogie con i cortometraggi sperimentali.
Già con il bellissimo “Il fiore del mio segreto” s’intravede il passaggio alla maturità, o meglio ad una visione di sé, attraverso le sue opere, più misurata. Sembra spenta la vena libertaria della giovinezza, espressa tramite ogni possibile eccesso iconico, senza alcuna mediazione. Non sono offuscate, però, le note dissacratorie del suo pensiero, che per fortuna permangono quasi a sugellare la propria unicità.
Con la maturità e la responsabilità, derivante dal riconoscimento a livello mondiale, il nostro Pedro acquisisce una più marcata sensibilità e diventa regista adulto, stilisticamente inimitabile: riesce a dosare la propria passionalità, raffina le scelte tecniche e fa centro, come dicevo prima, con i due film che maggiormente lo rendono popolare e lo elevano al gotha della cinematografia mondiale. Beh, è ovvio che la libertà acquisita dalla riconosciuta consacrazione gli offre il varo per progetti più personali come il bellissimo “Volver”, un giro vorticoso nell’infanzia della Mancha, la sensibilità come omaggio nei confronti dell’universo femminile. Il momento in cui il regista riceve più ammirazione, dal pubblico soprattutto, che conquista universalmente.
Con gli “Gli abbracci spezzati” e “La pelle che abito”, le due ultime sue opere, il suo cinema si è fatto ancora più serioso ed autoriale, rispetto alle grottesche commedie dei primi anni, commedie che molti suoi fan iniziano a rimpiangere. Eppure l’osservazione attenta delle ultime sue opere rende evidente quanto sia cresciuto Almodòvar, di quanto si sia raffinato, attraverso le immagini curate nei dettagli con maniacale perizia, dona loro significato e forza espressiva, oggi più di ieri.
Ma, come ad ogni cosa, la maturità gli ha "tolto" la freschezza e la follia; I lavori della maturità sono stati senz’altro più apprezzati forse perché, pur trattando tematiche scottanti e delicate, la sfacciataggine dei primi racconti lascia spazio ad una narrazione più pacata e coinvolgente: lo spettatore ha tempo di riflettere, di godere del personale citazionismo, di cui le opere almodòvariane sono sempre più impregnate.
Chi ha avuto modo di apprezzare l’ultima fase di Almodóvar stenterà a credere che sia lo stesso regista della sua prima fase underground, creatore di un universo coloratissimo e kitsch, pervaso dalla sua grande vena di follia. Chi, al contrario, segue Pedro dall’inizio, percepirà l’assenza di tutto ciò, non riconoscendolo più nel suo raffinato distacco dalle storie, più freddo e analitico nell’esprimere la psicologia dei suoi nuovi personaggi, privi della potenza dei primi.
Probabilmente se n’è accorto anche il regista, dopo “Los abrazos rotos” e "La piel que habito" , pare che nel suo nuovo film abbandoni temporaneamente il melodramma, per tornare alla commedia ambientata a Madrid e ricca di dialoghi paradossali e brillanti come agli esordi.
Noi fedeli fan ci speriamo e lo attendiamo al prossimo festival di Cannes.
Nell’episodio finale della fortunata serie Dr. House, intitolato “Everybody dies” sulla falsariga di una famosa frase del protagonista, ovvero “Everybody lies”, succede di tutto: molte convinzioni vengono riconsiderate tramite la fulminea ricomparsa di tutti i personaggi della serie, come da copione. Ciò che colpisce, però , è l’ultima scena che, sul motivo Enjoy Yourself, vede Gregory House e l’amico James Wilson correre sulle proprie moto lungo la strada che li condurrà verso un nuovo destino, non a caso insieme.
Di otto stagioni, alcune delle quali indimenticabili, resta il sapore di questo legame amicale, quello fra i due medici, unica autentica e costante relazione affettiva del nostro eroe.
Sul personaggio di Gregory House e sulle persone che gli ruotano intorno ci sarebbe da scrivere pagine e pagine, ma ciò che rimane maggiormente impresso in chi ha amato la serie televisiva, è il rapporto insolito che si snoda nei vari episodi, tra House e Wilson.
Un’amicizia maschile, schietta, spietata, cinica; anche giocosa, ironica, grottesca.
Il protagonista indiscusso e personaggio eccezionale, Gregory House, ritrova consapevolmente nell’amico oncologo la propria coscienza: Wilson è sempre pronto a dare consigli, pur sapendo in partenza che non saranno ascoltati, è pronto ad agire per il bene dell’amico, rispettando regole e promesse, continuamente disattese da House. E il dottor Wilson, dal suo canto, riconosce, ammira e invidia la genialità dell’amico, con il quale cerca d’identificarsi in un perenne gioco competitivo di intuizioni, deduzioni e trovate superbe.
“Dimmi cosa preferisci : un dottore che ti tiene la mano mentre muori o uno che ti ignora mentre migliori?”
In questa frase, che il nostro dottore pronuncia durante un colloquio con un paziente, stanno le fondamenta della sua etica, un’etica discutibile per i più. D’altronde la condotta del dottor House vìola elementari regole di convivenza, senza contare il regolamento all’interno dell’ospedale in cui lavora e il rispetto tra colleghi ed amici. Nonostante i raggiri, gli inganni, gli scherzi che mette continuamente in opera, soprattutto a danno dell’amico Wilson, il Dr House possiede suoi principi, non necessariamente principi morali accettabili, talvolta addirittura folli, ma sono principi che seguono la consequenzialità, ovvero il risultato.
Non si confonda, però, la logica di House con il banale luogo comune “ il fine giustifica i mezzi”, non è così semplice, se, anzi, così fosse, probabilmente i suoi collaboratori, persino Wilson, l’avrebbero subito abbandonato ai propri deliri.
No, no. Il principio consequenzialista di House presuppone che il criterio per valutare la correttezza di un’azione stia nelle sue conseguenze e la sua giustificazione stia nel convincersi(re) che una certa azione porterà alle conseguenze giuste, cioè al bene stabilito ( solitamente quello del paziente). Ed è qui che s’insinua l’amico Wilson, considerato da molti l’anti-house, il quale invece è strettamente legato a principi deontologici, cioè ad un sistema etico basato sui doveri, che condizionano le scelte. Talvolta i due differenti approcci collimano in un’unica soluzione, più spesso no, da qui nascono i ripetuti confronti tra i due amici.
Apparentemente House ne risulta sempre il vincitore, tuttavia ad un’analisi più attenta, emerge sempre più chiara e forte la ragione di Wilson, anche se involontariamente. James Wilson è l’unico in grado di controllare e guidare Gregory ed entrambi ne sono consapevoli, nonostante spesso l’oncologo appaia succube del narcisismo del diagnosta.
Insomma si respingono e si attraggono contemporaneamente e vicendevolmente, attingendo uno dall’altro e riflettendosi l’uno nell’altro,si, sono inscindibili.
Un’amicizia esemplare la loro, un rapporto faticoso ma fecondo, mai banale, sorprendente, ironico.
Come non invidiare un’ amicizia così completa e bizzarra, diventata già leggenda nella storia delle serie-tv!
Quando in Italia non c’era ancora sentore di Halloween, neanche lontanamente intendo, la maggior parte della gente non ne conosceva l’esistenza. Non era stata ancora forse neanche pensata l’omonima saga horror hollywoodiana, che in seguito invase l’Italia con successo sempre crescente, rendendo popolare la festività celtica.
Beh, dicevo, quando non esistevano feste horror con zucche, teschi, streghe, “dolcetto o scherzetto”, la festività di Ognissanti qui da noi era una “cosa” seria, serissima: niente giochi, risate ancor meno. Era il momento della ricorrenza più visceralmente triste dell’anno.
I giorni a cavallo dell’ 1 Novembre si trascorrevano in giro per cimiteri: tutti i camposanti in cui ci fosse la salma di un parente, di un amico o conoscente erano visitati; si organizzavano i tour sepolcrali fin dall’estate, perché spesso ci si doveva spostare in macchina o in treno per raggiungere i cimiteri più lontani, anche in altre regioni, lontane dalla propria.
Quando, dunque, in Italia non era ancora stata importata la festa di Halloween, si pensi per un momento a quale tormento dovevano sottostare quei bambini sfigati, nati a cavallo di quei giorni: trascorrere il proprio compleanno a zonzo per cimiteri con i propri genitori e parenti; atteggiamento forzatamente compunto ed espressione contrita e malinconica. E non c’era speranza neppure per i giorni successivi, l’impronta malinconica s’imprimeva nel profondo e lo sforzo amorevole di mamma e papà per creare l’opportuna atmosfera di compleanno restava comunque un tentativo vano. Perché da bambini il concetto di morte è innaturale, quasi irreale, ma l’afflizione che lo sottintende la si percepisce intensamente. Da bambini, purtroppo, non si possiede ancora l’ironia come strumento di protezione nei confronti del “brutto” della vita.
Tuttavia, io bambina mi consolavo guardando tutto ciò che mamma Rai ci propinava e proprio nella stagione suddetta, una sorprendente rivelazione mi giunse con la visione di un “vecchio documento RAI” , trasmesso all’interno di qualche trasmissione d’archivio.
Il filmato riprendeva un’ intervista al “Principe” Antonio De Curtis, in arte TOTÒ, che oltre essere attore cinematografico e teatrale indimenticabile, fu anche autore di poesie lievi, ironiche.
Nel filmato d’archivio, l’attore, al termine dell’intervista, declamò la sua più celebre poesia: “'A livella” , quasi un breve testo teatrale d’autentica napoletanità, semplice scritto che parla della morte in modo umoristico e senza paura.
Il testo racconta di un signore che, suo malgrado, alla festività dei Santi-Morti, resta rinchiuso nel cimitero durante la doverosa visita. Assiste ad un grottesco colloquio fra due fantasmi: un marchese e un netturbino. Il marchese si lamenta della vicinanza delle due tombe, poiché non è stata rispettata la differenza di ceto; il netturbino, alquanto scocciato, gli risponde che, indipendentemente da ciò che si era in vita, col sopraggiungere della morte si diventa tutti uguali.
La morte sublimata a “LIVELLA” la cui forza rende tutti uguali. La morte come principio di uguaglianza universalmente realizzato.
“A morte ‘o ssaje ched”è? …è una livella”
Già allora adoravo Totò, di cui non perdevo un film; naturalmente rimasi piacevolmente sorpresa nel sentire “canzonare” così lievemente un mio fardello e proprio nel periodo mesto del compleanno!
Che consolazione sentire parlare della morte senza timore, in modo leggero fino a sfiorare l’umorismo: una liberazione, finalmente qualcuno aveva sdrammatizzato!
Ero piccola e non capivo tutto del testo in dialetto napoletano, ma l’eloquente mimica di Totò è d’immediata comprensione; benché non possedessi ancora la capacità ironica di afferrare ogni sfumatura del messaggio dell’autore-attore, ne colsi tuttavia la sostanza e sorrisi compiaciuta.