Alla fine è arrivato, quasi come un parente che aspetti da tempo ma che per ragioni sconosciute non si presenta alla tua porta bussando rumorosamente, ma oggi è qui. Ebbene, il giorno 14 Febbraio del 2014, durante una conferenza stampa all' Human Rights Campaign's Time to Thrive, l'attrice canadese Ellen Page dichiara al mondo la sua omosessualità. Inutile dire che i messaggi di rispetto da parte dei fan sono stati molteplici, ancora più numerosi sono stati i messaggi di auguri da parte delle figure più note dello Star System.
Insomma, tutti contenti? Indubbiamente sì, ma onestamente c'è anche un qualcosa che lascia alcuni poveri mortali sorpresi, e che addirittura getta un'ombra minacciosa su quelle che sono (o che dovrebbero essere) le buone intenzioni di una star, che esce allo scoperto dopo tanto speculare.
Non è questa la sede giusta per dibattere circa i contenuti di tale dichiarazione che danno speranza a chi si trova nelle medesime condizioni, ma caricano di responsabilità un personaggio che per certi versi è molto amato nel panorama cinematografico.
Purtroppo ciò che resta ai comuni mortali è la mera chiacchiera da bar, ovvero l'illazione che alla fine non aggiunge nulla di nuovo. I fatti sono questi e non si cambiano, ma francamente è opportuno, per correttezza, analizzare alcuni aspetti di quella che è una mossa coraggiosa ma per certi versi infelice.
Quando arriva questa dichiarazione? Ma il giorno di San Valentino ovviamente, il giorno dell'amore, degli innamorati. Sembra sia il giorno perfetto, ma i tempi sono ritardatari, l'anno (il 2014) cozza un po' con quella che è la realtà dei fatti. Dal 2009 si sospetta una presunta omosessualità dell'attrice e la stessa sembra non curarsene per niente: infatti non ha problemi a baciare Drew Barrymore, e non ha problemi a farsi fotografare in giro insieme ad altre attrici gay dichiarate. Nulla di male, anzi è una cosa che aggiunge dignità e correttezza ad un personaggio che divide in maniera esemplare vita privata e vita pubblica. Neanche le sue presunte relazioni con attori del calibro di Ben Foster o Alexander Skarsgård scalfiscono l'indole di un'attrice che ha deciso di vivere le sue relazioni lontano dal gossip becero, che il mondo di Hollywood impone come un qualcosa da dare in pasto al pubblico pagante. Ed è stato questo per molti anni il vero punto di forza di Ellen Page, ovvero la sua totale riservatezza circa la sua vita privata, forse perché capisce che il mondo la apprezza per le sue grandissime doti, e non perché compare sui titoloni luminosi di Vanity Fair. La Page è sempre stata, agli occhi di molti, la classica ragazza della porta accanto che, diventata famosa, mantiene la sua attitudine acqua e sapone, nonostante sia in costante contatto con un mondo fatto di soldi e successo.
Oggi quell'equilibrio si è spezzato, ovvero ha creato un nuovo corso e si sta apprestando a vivere una nuova vita. Sia chiaro, Ellen Page non è la prima e non sarà nemmeno l'ultima a dichiarare al mondo la propria omosessualità: già la famosissima Jodie Foster (attrice che ha vinto 2 Oscar, nonché protagonista indiscussa di diversi capolavori del cinema) l'aveva fatto in tempi non sospetti. Quello che più fa salire un atroce dubbio e che spinge la gente (ovvero i poveri mortali a cui si è fatto riferimento sopra) a non festeggiare una notizia come questa, è la domanda : come mai proprio oggi?
In questi ultimi 4 anni l'attrice non ha vissuto momenti felici nell'ottica artistica: dopo il pluripremiato Inception si contano solo produzioni minori che, pur avendo un livello artistico dignitoso, non hanno avuto lo stesso appeal di un main stream. Cominciando da Super, che ha avuto una fase di pre-produzione oltraggiata dal costante confronto con il più famoso Kick Ass, fino al contenitore di clichè To Rome with love. Nel 2013, a parte il videogame Beyond: 2 Anime (che è un prodotto destinato ai videogiocatori più che agli amanti del cinema), ci son stati altri due punti bassi della carriera dell'attrice: il maltrattato The East e lo sconosciutissimo Touchy feely. In pratica, per dirla nel classico gergo da bar, "non se l'è passata bene ultimamente", almeno sotto l'aspetto della notorietà.
Il 2014 invece si apre con quello che (forse) diventerà un kolossal : "X-Men - Days of Future Past". E, dulcis in fundo, una pellicola dove la Page vestirà proprio i panni di una ragazza lesbica, quindi capita proprio a fagiolo. Insomma, pare che la ruota ricominci a girare nel verso giusto, però ancora una volte pare che la Tiny Canadian non sarà la protagonista in mezzo a quel calderone di star all'ultimo grido (almeno per quanto riguarda il film sugli X-Men). Bene, dopo questi piccoli appunti, arriviamo alla dichiarazione : "Sono qui, oggi, perché sono gay".
La verità, che tutti già sapevano, arriva in un momento particolare nella carriera dell'attrice, e questo, ad essere cattivi (da parte dei cinici) e ad essere preoccupati (da parte dei fan che la stimano), suona come un tentativo di rilancio. Sì è vero, questa è la più classica e becera delle insinuazioni, ma è opportuno fare una netta distinzione tra l'insinuazione di un "cattivo" e quella di un "preoccupato". Questo articolo si schiera ovviamente sulle rive della seconda sponda, ovvero quella dei preoccupati, quella di chi vorrebbe che questa dichiarazione sia veramente la liberazione da un fardello, e non un tentativo di appiccicarsi addosso un'etichetta "comoda" (per quanto questa parola possa essere efficace in un mondo che, fortunatamente, sta abbattendo i muri del pregiudizio), in un 2014 che non sono gli anni '70 e che accetta il coming out come un gesto di coraggio.
Ovviamente, altri 2 punti su cui dibattere sono: "...perché forse posso fare la differenza. Per aiutare gli altri ad avere una vita più semplice e più serena. A prescindere da ciò, ne sento l'obbligo personale e la responsabilità sociale" - ed inoltre - "...sono stanca di nascondermi, stanca di mentire attraverso l'omissione"
Perché questi due punti possono essere soggetto di dibattito? Perché ovviamente sono i due punti cruciali. Sul primo, la responsabilità di cui prima si parlava è enorme e allo stesso tempo pericolosa. Ellen Page vuole fare la differenza, ma la cosa che ci si chiede è "quale differenza"? Se diventerà ambasciatrice dei diritti degli omosessuali allora si può parlare di differenza, e chi è "preoccupato" si augura vivamente che una decisione del genere venga presa da lei stessa, perché adesso è ora di passare ai fatti. L'ultimo punto, invece, è quello che lascia più perplessi: di fronte a noi c'è una giovane spaventata, che ha paura, che è stanca di mentire. E' da ammirare, se non fosse per il fatto che chi ha avuto modo di seguirla ha visto in lei sempre una certa dignità ed un forte coraggio che va a sbattere contro questa paura tanto conclamata; come già detto stiamo parlando di un'attrice che non ha mai avuto problemi a dire "Non bacio Leo Di Caprio, preferisco Drew Barrymore", quindi questa "paura" è la vera novità di questa dichiarazione. Le ombre a cui si faceva riferimento prima, vengono gettate in base a questi tre punti fondamentali, che sono il succo di questo coming out.
Ovviamente, in chiusura, è opportuno dire che questi piccoli appunti che hanno un leggero velo polemico sono dettati dal timore che sia tutta una manovra fatta ad arte, e ciò che ci si augura è che invece siano frutto della sincerità e dell'onestà di un'attrice che non è mai stata messa in discussione sotto il profilo umano. Ciò che molti sperano è che oggi Ellen Page continui ad essere libera dagli schemi del gossip, libera dai giudizi negativi e libera dai suoi fantasmi personali, che ovviamente nessuno conosce a parte lei. Ciò che la gente e i fan si augurano, omosessuali o no, è che la differenza possa farla per davvero, che il suo modo vincente di affrontare il mondo possa davvero varcare le frontiere dell'impossibile. Questo è l'augurio più grande ed è quello che tutti sperano. Ellen Page oggi si è liberata da un fardello ma dovrà portare su di sè la croce di migliaia di persone che pendono dalle sue labbra e dalle sue decisioni: la cosa che più sta a cuore è che riesca a portare a termine questa missione che lei stessa ha scelto di affrontare volontariamente. Ed in questo frangente, mettendo da parte i dubbi che questo articolo ha, volontariamente, sollevato più per salvaguardare che per criticare, ci si augura che la persona e attrice Ellen Page possa oggi continuare la sua carriera con più leggerezza e più consapevolezza della propria forza e dei propri mezzi. Un grosso in bocca al lupo è doveroso ma sembrerebbe il classico congedo di rito. La cosa più opportuna da fare è pregare col cuore in mano, affinché questa dichiarazione sia un gesto che apra nuovi orizzonti nella vita e nella carriera di un'attrice che si spera non deluda mai nessuno.
Storicamente l'Academy ha la tendenza a premiare la stessa opera per i premi più importanti, cioè l'Oscar al miglior film e alla miglior regia sono spesso andati ad un unico film. Non sono mancate eccezioni, tuttavia, e l'ultimo caso di premio "disgiunto" risale al 2006, quando l'oscar al miglior film andò a Crash di Paul Haggis, mentre quello alla miglior regia ad Ang Lee per Brokeback Mountain. Prima del 2006 era accaduto due volte, se consideriamo solo il primo decennio di questo secolo: nel 2001 con "Il Gladiatore" (film) e Soderbergh (regista di "Traffic") e nel 2003 con Chicago (film) e Polanski ( regia per Il pianista). Dopo il 2006, non più, avendo l'Academy ripreso la tendenza ad attribuire le principali statuette alla stessa opera.
Potrebbe essere l'anno buono per riproporre un premio disgiunto?
Vediamo le rose dei candidati:
MIGLIOR FILM
"Zero Dark Thirty"
"Amour"
"Vita di Pi"
"Lincoln"
"Django Unchained"
"Argo"
"Beasts of the Southern Wild"
"Silver Linings Playbook"
"Les Misérables"
MIGLIOR REGIA
Michael Haneke per "Amour"
Benh Zeitlin per "Beasts of Southern Wild"
Ang Lee per "Vita di Pi"
Steven Spielberg per "Lincoln"
David O. Russell per "Silver Linings Playbook"
Se il premio rimanesse congiunto bisognerebbe quindi escludere a priori Django Unchained, Argo, Les Miserables e Zero dark thirty.
C'è lo Spielberg di Lincoln che di oscar però ne ha già vinti. Ang Lee con Vita di Pi è sulla falsariga di Spielberg, non tanto per i numeri quanto per l'aver ha già vinto l'oscar come miglior regista e come miglior film, sia pure straniero, con La tigre e il dragone.
Da tenere conto che solo Eastwood ha saputo fare per due volte l'accoppiata film/regia dagli anni novanta ad oggi (Gli spietati e Million dollar baby). E potevano essere tre, se Gran torino non fosse stato escluso dalle cinquine dopo aver fatto incetta ai Golden Globe.
In gara anche gli outsider. Haneke su tutti. Il cineasta austriaco si trova nelle stesse condizioni di Benigni con La vita è bella come nomination, perlomeno quelle più importanti. Difficile quindi che torni a mani vuote e L'oscar come miglior film straniero dovrebbe essere in teoria una formalità. Meno facile il discorso delle categorie assolute, perché premiare Amour significherebbe sfatare un tabù, l'ultimo dell'Academy, cioè quello di premiare come miglior film una pellicola straniera. The artist l'ha sfatato in parte, essendo un film muto, ma per Haneke la storia è ben diversa: un film straniero, non parlato in lingua inglese; una vittoria del genere sarebbe un miracolo e in fondo queste nomination sono una sorta di riparazione al fatto che un capolavoro come Il nastro bianco rimase scandalosamente a bocca asciutta.
Il lato positivo e Re della terra selvaggia sono delle vere incognite, e costituirebbero una gran bella sorpresa in caso di vittoria.
Certamente nel caso di due pellicole differenti per miglior film e regia i giochi si complicherebbero ulteriormente, perché le carte andrebbero a mischiarsi con combinazioni imprevedibili. Ma per vostra fortuna io qui mi fermo, ma se volete esprimere la vostra, fate pure.
Partirà a Novembre il primo ciak di "Venus in Fur", la venere in pelliccia, il nuovo film annunciato da Roman Polanski. La protagonista sarà la moglie Emmanuelle Seigner con cui torna a lavorare dopo "Roman Polanski". La trama sembra già ricordare una sorta di Luna di Fiele 2, sempre con le dovute differenze: l'erotismo al centro della vicenda, la Seigner come protagonista, tratti di commedia nera; inoltre Polanski pare sempre più propenso a girare sceneggiature teatrali: "Venus in Fur" è stato un successo a Broadway cosi come "Carnage" derivava da una piece teatrale. Inutile stare a rimarcare la trama che sarà presumibilmente una rilettura del libro di Masoch.
Mentre da un lato accade questo, sull'altro versante, quello personale, Polanski continua a non vedersela proprio bene: è certo che ormai Samantha Geimer, colei che fu la vittima dello stupro negli anni '70 da parte del regista polacco, scriverà un libro autobiografico in cui già dal titolo avrà ampio risalto la questione della violenza sessuale e, manco a dirlo, Polanski in primis: " The Girl: Emerging from the Shadow of Roman Polanski" sarà il titolo. è paradossale e cinico pensare che, in fondo, la vita di Roman Polanski si sia ridotta a questo disturbo bipolare, un fossato enorme dove vediamo da una parte il regista impeccabile nonché uno dei migliori sulla piazza, dall'altra il violentatore senza pietà che adesso, a quasi 80 anni suonati, sta subendo processi mediatici, giuridici e "psicologici" da parte di mezzo mondo a quarant'anni dalla vicenda. Polanski scappò, non è un innocente, è sacrosanto ricordarlo; resta la perplessità sul perché Samantha Geimer, che disse di averlo "perdonato e dimenticato", torni ancora su una vicenda su cui ha parlato poco e sempre in maniera molto pacata e lontana dalla spettacolarizzazione. Certo lei è l'unica che avrebbe il diritto di farlo, a differenza di una modella sconosciuta che per i suoi cinque minuti di notorietà annunciò in pompa magna un'autobiografia dove un capitolo intero sarebbe stato dedicato alle molestie subite da ragazzina da Roman Polanski. Perché inevitabilmente tutti hanno da sempre tentato di cavalcare l'onda mediatica di una storia piena di risvolti non facili, mille sfumature, dove sembrava che i ruoli vittima/carnefice fossero ben definiti. A 35 anni di distanza dalla violenza sulla ragazzina, adesso possiamo anche noi fare i cattivi come nella migliore tradizione cinematografica polanskiana e vedere come i ruoli si siano ribaltati sotto molte prospettive: non che la Geimer sia una carnefice, ma forse... è Polanski ad essere diventato a suo modo una vittima? è una black comedy la sua vita, se la vogliamo vedere cosi, cinica e ambigua al punto giusto: tanto che ormai dare un giudizio su ciò che sta accadendo diventa impossibile. Possiamo solo restare a guardare. L'assillo è: schierarci dalla sua parte o contro di lui è lecito? Dal bambino che perde la madre e scampa ai campi di concentramento, al vedovo e quasi padre che viene privato di moglie incinta dalla setta di Manson, fino alla violenza sessuale su una tredicenne e la grande fuga... e una vicenda che si riaccende in Svizzera dopo tre decadi di quasi silenzio e si protrae tra nuove confessioni e pubbliche scuse. Questo accade solo nei film alla Roman Polanski.
Quando in Italia non c’era ancora sentore di Halloween, neanche lontanamente intendo, la maggior parte della gente non ne conosceva l’esistenza. Non era stata ancora forse neanche pensata l’omonima saga horror hollywoodiana, che in seguito invase l’Italia con successo sempre crescente, rendendo popolare la festività celtica.
Beh, dicevo, quando non esistevano feste horror con zucche, teschi, streghe, “dolcetto o scherzetto”, la festività di Ognissanti qui da noi era una “cosa” seria, serissima: niente giochi, risate ancor meno. Era il momento della ricorrenza più visceralmente triste dell’anno.
I giorni a cavallo dell’ 1 Novembre si trascorrevano in giro per cimiteri: tutti i camposanti in cui ci fosse la salma di un parente, di un amico o conoscente erano visitati; si organizzavano i tour sepolcrali fin dall’estate, perché spesso ci si doveva spostare in macchina o in treno per raggiungere i cimiteri più lontani, anche in altre regioni, lontane dalla propria.
Quando, dunque, in Italia non era ancora stata importata la festa di Halloween, si pensi per un momento a quale tormento dovevano sottostare quei bambini sfigati, nati a cavallo di quei giorni: trascorrere il proprio compleanno a zonzo per cimiteri con i propri genitori e parenti; atteggiamento forzatamente compunto ed espressione contrita e malinconica. E non c’era speranza neppure per i giorni successivi, l’impronta malinconica s’imprimeva nel profondo e lo sforzo amorevole di mamma e papà per creare l’opportuna atmosfera di compleanno restava comunque un tentativo vano. Perché da bambini il concetto di morte è innaturale, quasi irreale, ma l’afflizione che lo sottintende la si percepisce intensamente. Da bambini, purtroppo, non si possiede ancora l’ironia come strumento di protezione nei confronti del “brutto” della vita.
Tuttavia, io bambina mi consolavo guardando tutto ciò che mamma Rai ci propinava e proprio nella stagione suddetta, una sorprendente rivelazione mi giunse con la visione di un “vecchio documento RAI” , trasmesso all’interno di qualche trasmissione d’archivio.
Il filmato riprendeva un’ intervista al “Principe” Antonio De Curtis, in arte TOTÒ, che oltre essere attore cinematografico e teatrale indimenticabile, fu anche autore di poesie lievi, ironiche.
Nel filmato d’archivio, l’attore, al termine dell’intervista, declamò la sua più celebre poesia: “'A livella” , quasi un breve testo teatrale d’autentica napoletanità, semplice scritto che parla della morte in modo umoristico e senza paura.
Il testo racconta di un signore che, suo malgrado, alla festività dei Santi-Morti, resta rinchiuso nel cimitero durante la doverosa visita. Assiste ad un grottesco colloquio fra due fantasmi: un marchese e un netturbino. Il marchese si lamenta della vicinanza delle due tombe, poiché non è stata rispettata la differenza di ceto; il netturbino, alquanto scocciato, gli risponde che, indipendentemente da ciò che si era in vita, col sopraggiungere della morte si diventa tutti uguali.
La morte sublimata a “LIVELLA” la cui forza rende tutti uguali. La morte come principio di uguaglianza universalmente realizzato.
“A morte ‘o ssaje ched”è? …è una livella”
Già allora adoravo Totò, di cui non perdevo un film; naturalmente rimasi piacevolmente sorpresa nel sentire “canzonare” così lievemente un mio fardello e proprio nel periodo mesto del compleanno!
Che consolazione sentire parlare della morte senza timore, in modo leggero fino a sfiorare l’umorismo: una liberazione, finalmente qualcuno aveva sdrammatizzato!
Ero piccola e non capivo tutto del testo in dialetto napoletano, ma l’eloquente mimica di Totò è d’immediata comprensione; benché non possedessi ancora la capacità ironica di afferrare ogni sfumatura del messaggio dell’autore-attore, ne colsi tuttavia la sostanza e sorrisi compiaciuta.
Qui in Italia siamo molto orgogliosi del nostro cinema di genere. Nella fattispecie di quello anni '70 - primi '80, anni in cui ci si entusiasmava per gli effetti speciali comprati in cartoleria e per gli zombi che combattevano contro gli squali. Giuro che esiste un film che si chiama "Il lupo mannaro contro la camorra", e il dottor Freudstein non me lo sono inventato io. Dagli inizi dei '90 la cosa è andata vieppiù scemando, e nessuno ne ha più sentito parlare. Seguono, in disordine alfabetico: Nirvana, Grunge, Berlusconi, No-Global, G8, Bill gates, "X-Files".
Poi, la rivalutazione. Nessuno sa bene come e perché sia iniziata, ma se non facevi l'espertone di cinema di genere italiano non eri nessuno. Sarà una cosa fisiologica, e, a prescindere dall'epoca, qualsiasi ventennio immediatamente precedente pare inequivocabilmente più mirabile rispetto al presente. Sarà. La cosa ha avuto i suoi risvolti anche nella labile mente del sottoscritto, e che io sia stramaledetto se per un breve periodo non ho realmente considerato Di Leo un regista migliore di Tarantino. Il problema è quando il cinema di genere diventa un genere a sé, ancora più compresso, sottoinsieme del suo stesso insieme, paradigma autoreferenziale che si morde la coda e te la ricaga uguale; stessa puzza, stesso colore, stesso aroma. L'esilarante risultato di questa magniloquente cagata sono i film dei Manetti, di Zampaglione. Ecco, guardate "Shadow" e provate a non diventare nazisti. Impossibile. Per dire, quando ho visto "Piano 17" dei Manetti Bros, ero già a pagina 215 del “Mein Kampf e stavo quasi per infilare il gatto nel microonde.
Se quindi smettiamo di far finta di vivere nei meravigliosi seventies e ci rendiamo conto che abbiamo spedito una sonda su Marte, per dire, in un colpo solo chiudiamo con Zampaglione e debelliamo il nazismo dal mondo. Gulp. Tarantino e Rodriguez rivisitano, i nostri copiano.
Adesso faccio il radicalscìc, impazzisco e sostengo che l'unica manifestazione di cinema di genere in assoluto più genuina che abbiamo è il cinepanettone. C'è un che di proustiano nel CP; attraverso forme e stilemi da anni ottanta si agitano contenuti contemporanei in cui è quasi impossibile non riconoscere l'aria che respiriamo. Sì vabbè, il turpiloquio. Perché voi siete tutti Lord inglesi.
Secca ammetterlo, ma l'Italia somiglia di più a quella narrata da Neri Parenti che non a quella di Sorrentino.
Mettiamola così; se l'Italia ci desse solo cinepanettoni sarebbe una tragedia. Ma se non ce ne desse manco uno, sarebbe peggio.