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Sang-hoon riscuote debiti per conto del suo amico Man-sik. La sua modalità comunicativa è la violenza, unico canale attraverso il quale entra in contatto col prossimo. Mentre consuma la sua vita picchiando indiscriminatamente amici e nemici, cerca di mantenere il rapporto col nipote Hyung-in, figlio della sorellastra, col quale passa il tempo che riesce a sottrarre al lavoro. Un giorno sulla traiettoria di un suo sputo rivolto al mondo si trova a passare Yeong-heui, giovane liceale il cui rapporto col prossimo rispecchia quello di lui. Tra i due nascerà un'amicizia che sopravviverà nonostante le condizioni impossibili in cui i due sono costretti a vivere.
Ddong pa-ri vuol dire letteralmente "mosche della merda". Yang Ik-june lo rivela in conferenza stampa a Rotterdam, dove vince il Tiger Award per la sua opera prima. Non avendo un idea su come intitolare il film per il mercato internazionale, Yang Ik-june si era affidato al suggerimento di un amico che conosce l'inglese, rinominando "Breathless" il suo notevolissimo esordio alla regia.
Curiosamente entrambi i nomi sono adatti a questa opera viscerale e serratissima, che vince numerosi altri riconoscimenti e si colloca tra i migliori lavori coreani dell'ultimo anno.
Yang Ik-june dirige e interpreta una storia senza speranza nè redenzione, che parla della realtà delle bande di strada, in un contesto di violenza ineludibile e mai neanche messa in discussione, pena l'annichilimento di ogni prospettiva di sopravvivenza.
Il giovane Sang-hoon è figlio di una situazione che vedremo essere comune alla maggior parte delle persone che vivono la sua stessa realtà. Anche la liceale Yeong-heui vive nello stesso clima di violenza che ha generato Sang-hoon e il loro rapporto è silenzioso e conflittuale, come solo sanno essere gli scambi tra persone simili, che mai ammetterebbero di desiderare una condivisione, se non dei sentimenti, almeno delle esperienze che li hanno portati ad essere quello che sono diventati.
I due non si parleranno quasi mai, le parolacce e le aggressioni verbali sostituiranno ogni forma di dialogo, e gli unici momenti di vera condivisione saranno affidati al silenzio.
Le storie familiari che fanno da sfondo al racconto vengono tutte mostrate in flashback, regalando allo spettatore una colpevole occhiata al mondo di strada che ha originato le derive attuali. Tutti gli attori del dramma condividono un silenzio circa i veri sentimenti che li animano, e fingono una superiorità e una durezza, che gli consentono di sopravvivere all'interno di un mondo che non hanno scelto, ma che contribuiscono a mantenere in vita con le loro strategie.
Il racconto parte serrato e violento, come a definire da subito che è della vita di strada che stiamo parlando, e che le cose là possono diventare davvero difficili. Prima ancora dei titoli di testa assistiamo ad un sopruso: Sang-hoon si inserisce in un violento litigio di coppia e picchia per primo lui e poi lei, chiedendole di reagire.
Ed è così che ci troviamo scaraventati senza troppi complimenti davanti ad una finestra, che faticheremo assai a richiudere, su un universo che altri registi prima di lui avevano solo suggerito, ma che Yang Ik-june decide di mostrare fino in fondo, infischiandosene dell'effetto e decidendo per una narrazione iperrealistica. La modalità di relazione tra i personaggi è la stessa che il regista sceglie di usare con lo spettatore: un bel pugno nello stomaco col fine di avere subito la completa attenzione dell'altro. E se la cosa sembra funzionare per i protagonisti, funzionerà assai meglio con lo spettatore il quale, completamente cullato dalla fuggevole illusione di assistere ad una storia di fantasia, si trova svegliato di colpo dalla doccia fredda di un cinema duro e perfettamente lucido e da una storia cruda di quelle che non si vedevano ormai dai tempi degli esordi di Kim Ki-duk. Il tutto procede con una cattiveria senza inganni e senza nessuna speranza di sconti, pari solo a quella della vita reale. Mentre l'uso della camera a mano e del digitale accentuano l'impressione di realismo di fronte al quale lo spettatore può solo applaudire, sia al coraggio che alla forza necessari per decidere di non voltare la faccia e raccontare la verità così come la si è vista, e senza l'illusione di poter cambiare qualcosa.
Questa è la vita oggi in in alcune parti del mondo, e vedere le cose come stanno può solo accrescere la conoscenza e l'angoscia di fronte all'impotenza, ma il tutto è comunque assai lontano dalla possibilità di cambiare le cose.
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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 28/04/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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