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"Abduction, Confinement, Torture, Termination" (rapimento, segregazione, tortura, terminazione), con queste parole si conclude il trailer originale dell'ultimo film diretto da Roland Joffé. E con queste parole erano contraddistinti i quattro pannelli della campagna pubblicitaria della pellicola, che furono affissi a Los Angeles generando così tante polemiche da convincere sia il produttore Mark Damon (per la After Dark Films) sia la Lions Gate (in veste di distributore) a ritirarli.
Rivisitate per il lancio italiano, dopo il clamoroso insuccesso del film negli Stati Uniti, le parole della pubblicità nostrale sono: "Sesso, Omicidi, Tortura" nel trailer e "Prigionia, Tortura, Morte" in alcune locandine.
"Captivity" racconta la storia di Jennifer Tree (Elisha Cuthbert), modella e Cover Girl di successo, che viene rapita, rinchiusa in una prigione e sottoposta ad una serie di torture psicologiche e fisiche di crescente crudeltà e sadismo.
Una trama tutt'altro che originale e che si presenta come un incauto miscuglio di pellicole quali "Saw", "Hostel" e "Il Pasto Umano", senza scordarsi del più recente "Vacancy". E se i modelli di riferimento dovrebbero già essere definiti mediocri, essi almeno sono stati campioni d'incassi.
"Captivity", invece, si presenta anche come un clamoroso flop (costato 17 milioni di dollari, negli Stati Uniti ha incassato poco più di 4 milioni di dollari).
In tutto questo non ci sarebbe niente di particolarmente strano se ci trovassimo di fronte a un filmetto realizzato a costi bassissimi e diretto da un esordiente che ha ancora bisogno di farsi le ossa e che sfrutta un filone che sta riscotendo ampi consensi di pubblico. Tuttavia, questo non è il caso di "Captivity". Il film è diretto da un regista cosiddetto "impegnato": il britannico Roland Joffé, che in passato ha realizzato pellicole di buona qualità, come "Urla del Silenzio" ("The Killing Field" , 1984, il suo esordio cinematografico), "The Mission" (1986), "La Città della Gioia" ("City of Joy", 1992), "Vatel" (2000).
Inoltre, "Captivity" è stato scritto dal bravo Larry Cohen, di cui ricordiamo lavori quali "Io, La Giuria" ("I, the Giury", 1982), "Stuff, il Gelato che Uccide" ("The Stuff", 1985) di cui è anche regista, la serie di "Maniac Cop" (1988, 1990, 1993), "In Linea con l'Assassino" ("Phone Boot", 2002), "Cellular" (2004).
Queste credenziale potrebbero far sperare in un film di alta qualità che, pur inserendosi nel filone sopraccitato, sia capace di elevarsi per contenuti artistici, metaforici e sociali. Ad esempio il film "The Stuff" di Cohen era sì una pellicola horror, ma, oltre alla sua indubbia originalità ed ai toni ironici e farseschi, essa presentava molte peculiarità interessanti, fra cui l'accusa contro il sistema di alimentazione americano, contro la struttura familiare, contro il potere della pubblicità.
E in realtà delle pretese sociologiche "Captivity" le avrebbe, ma queste vanno a perdersi nei meandri di una storia pasticciata, banale e sconclusionata. Di questo parleremo più avanti.
La pellicola può sostanzialmente essere divisa in due parti nettamente distinte e in contrapposizione fra loro. La prima è piuttosto breve, rispetto alla seconda, ma di buona qualità; la seconda è talmente pessima da risultare imbarazzante e da smantellare qualsiasi valenza positiva fosse scaturita dalla parte precedente.
L'incipit ci mostra un uomo torturato sadicamente ed ucciso brutalmente. Un inizio inquietante ed efficace, carico di promesse che saranno parzialmente mantenute nella prima mezz'ora di spettacolo per poi scemare nel nulla, fino ad essere completamente disattese.
Dopo l'incipit, entra in scena la nostra protagonista. Qualcuno la spia, la segue, la filma con una telecamera, la droga e la rapisce. In questi pochi minuti iniziali la regia di Joffé è elegante e raffinata. Essa si concentra sui dettagli e sui particolari. Le labbra della protagonista, mentre vengono tinte col rossetto, dominano lo schermo proprio come i cartelloni pubblicitari, che la raffigurano, dominano la città.
Una regia che mette in evidenza il divario fra la forma e la sostanza, fra l'apparenza e l'essenza, fra l'astratto ed il concreto, fra l'effimero e il necessario.
"Che cosa è reale?"
"Quello che si può toccare!".
I primi minuti di prigionia sono molto ben costruiti. L'adrenalina sale nel crescendo rossiniano di torture psicologiche e fisiche, che ci vengono mostrate. Claustrofobia, senso d'impotenza, paura, la consapevolezza di essere spogliato della propria libertà e della propria dignità, la consapevolezza di essere un giocattolo in mano al tuo torturatore, di produrre il di lui piacere attraverso la tua sofferenza, di essere come un bambino sottoposto a delle prove. Tutto questo non solo viene trasmesso efficacemente allo spettatore, ma viene anche presentato con una forza inesorabile e con un ritmo narrativo incalzante e veloce. Lo schema, secondo cui ad ogni disubbidienza, ad ogni rifiuto o a qualsiasi tentativo di fuga segue una punizione più o meno efferata, è semplice ma efficace e viene mostrato senza alcuna pietà né per le vittime né per lo spettatore. Abbondano i particolari sadici e truculenti.
Il pubblico, durante la visone di tali sequenze, dimentica di aver già assistito a qualcosa di simile nei citati "Hostel" e "Saw". La regia è solida ed incalzante, l'impatto cromatico è potente e gli effetti sonori sono funzionali. Sembra quasi di poter respirare il terrore della protagonista e si vive il suo medesimo senso d'impotenza. Ottima la sequenza della doccia acida costruita sapientemente dal regista sfruttando due piani temporali differenti: quello che sta vivendo la protagonista e quello vissuto da un'altra vittima, la cui agonia è stata filmata e viene mostrata alla nostra Jennifer per accrescere il suo terrore, assistendo a quello che le sta per accadere.
Non è da poco neppure la sequenza in cui il torturatore obbliga la ragazza disubbidiente, con tanto d'imbuto infilato a forza in bocca, a bere un frullato di occhi, di orecchi e di frattaglie umane. Questa serie di torture, cronologicamente assai concentrate, e l'annientamento psicologico, che queste sono atte a produrre, creano nello spettatore l'aspettativa di un crescendo di violenze e di dettagli truculenti. Aspettative che verranno disattese, proprio così come le promesse, fatte durante questa prima mezz'ora di pellicola, non saranno mantenute.
Tutta questa prima parte è permeata di mistero e di un'apparente gratuità delle violenze perpetrate. Questa ignoranza contribuisce a costruire quel senso di opprimente claustrofobia, che avvolge tanto la protagonista quanto lo spettatore. Inoltre la regia sembra essere finalizzata allo studio della paura e di come questa condizioni inesorabilmente i comportamenti dell'essere umano strappandogli quella facciata sociale fatta di mera apparenza e costringendolo a fare i conti con la propria natura più intima, a mettersi a nudo e a riscoprire il lato più animale, dominato dagli istinti, fra cui domina quello di sopravvivenza.
Inoltre, da un profilo più meramente testuale, sembra che la sceneggiatura voglia colpire e demolire l'immagine della bellezza perfetta, ma intangibile e quindi non reale. Una bellezza algida e sterile, inventata dalla pubblicità e posta come meta ultima, ma irraggiungibile per i comuni mortali. E non solo! Attraverso la proiezione delle interviste fatte, precedentemente al suo rapimento, a Jennifer si parla di beltà come una chiave universale in grado di aprire qualsiasi porta. Anche questa ottica sembra essere presa di mira dallo sceneggiatore, che sembrerebbe voler dimostrare l'esatto contrario. Ma anche in questo caso ci troviamo di fronte a delle promesse non mantenute.
E così si passa alla seconda e desolante parte del film. La regia perde qualsiasi fascino, diventando formale e didascalica. Tutta le atmosfere create precedentemente scemano nel nulla. La macchina da presa si limita a seguire i personaggi nelle loro improbabili vicende.
Non si assiste più a niente di particolarmente truculento, e più volte si cade nel ridicolo profondo. Il pubblico potrà assistere anche a un atto sessuale che definire grottesco sarebbe un eufemismo. Nessun mistero resta senza risposta, ogni enigma (se mai enigmi ci siano stati davvero) viene svelato, scivolando in un lungo epilogo rivelatore che smantella, istante dopo istante, tutte le aspettative che lo spettatore poteva essersi formato durante la prima parte del film. Non c'è più nessuna adrenalina né alcuna tensione. Il tutto assume una dimensione non solo normale, ma banale, scontata, già vista e, soprattutto, inutile e profondamente stupida.
Avevamo parlato di indagine sulla paura e sulla riscoperta della natura animale dell'essere umano. Era una falsa pista!
Abbiamo detto che si attacca il sistema pubblicitario che trasforma la donna in oggetto? Questo non solo viene smentito, ma il film alla fine arriva a dire che la bellezza è davvero tutto. Essa è la sola fonte di salvezza, che permetterà alla nostra eroina di cavarsela in una situazione in realtà senza via d'uscita.
E non solo!
"Captivity" negli Stati Uniti è stato accusato di misoginia e di promuovere la violenza contro le donne. Alla fine è vero il contrario.
Questa pellicola scivola nei più banali cliché, più che femministi, antimaschio. Infatti, non c'è una sola figura maschile che si salvi.
Si passa dal bruto, al sadico, al pervertito, al cocco di mamma complessato, allo stupido, all'inetto. Si ritirano fuori gli stereotipi secondo cui ogni uomo vuole relegare la donna al ruolo di serva, sia essa una schiava sessuale o una donna delle pulizie. Si assiste alla più volgare destrutturazione della figura maschile che raggiunge la sua apoteosi con una bella fucilata, e si tratta di un fucile a pompa i cui proiettili prima spariscono dal caricatore per poi riapparire magicamente, sparata dalla nostra eroina dritta nei genitali del suo sequestratore. Inoltre, pochi istanti prima si assiste ad un altra scena emblematica in cui un detersivo spray si trasforma in arma, andando a colpire gli occhi del bruto torturatore, e senza tener conto che la nostra eroina aveva a portata di mano la pistola di uno (forse il più idiota) dei due poliziotti morti. E così lo strumento della casalinga, simbolo della repressione imposta alla donna da parte del macho brutto e cattivo, diventa mezzo salvifico.
Inoltre si assiste anche alla destrutturazione della donna che non sia una top model di successo. E questo perché? Perché i soli altri modelli femminili, sono una madre pervertita e depravata, e delle vittime incapaci di sedurre il proprio carnefice. In particolar modo, con la figura della madre depravata, che genera mostri, si attacca l'antitesi di tutto ciò che la nostra eroina, bella ma tanto vuotina, rappresenta. Infatti la madre degenere sembra quasi essere il ritratto, in negativo, di Jennifer e assurge al ruolo di vera colpevole di tutto quello che sta accadendo alla povera Cover Girl.
Sembrerebbe una sorta di contrapposizione fra la donna casalinga che, dedicandosi alla famiglia scivola nella perversione, e la donna in carriera. Con la più completa esaltazione di quest'ultima figura e l'assoluta demonizzazione della prima.
In altre parole, pur volendo asserire il contrario, il film dichiara palesemente che la bellezza è tutto, che essa apre tutte le porte e che può salvarti la vita, anche se non hai nessun'altra qualità. Non si criticherebbe così duramente il messaggio, poiché ciascun autore ha il diritto di lanciare il messaggio che più gli aggrada, se non fosse che gli autori hanno affermato di voler trasmettere il massaggio esattamente opposto.
Altro apice del ridicolo è il fatto che la nostra eroina uccida ben tre uomini su quattro e che due di questi astrattamente avrebbero dovuto essere già morti. Contro ogni forzatura narrativa, regia e sceneggiatura non hanno voluto risparmiare lo spettatore neppure da questa ennesima caduta nel kitsch più estremo.
A conti fatti non c'è nessun approfondimento psicologico dei protagonisti, non c'è nessuna indagine sociologica e, soprattutto, non c'è niente di innovativo né di originale.
Dispiace davvero che un regista come Joffé sia potuto cadere in un simile calderone di pacchianerie e di banalità. E dispiace anche che una pellicola, che parte piuttosto bene, si dimostri inconcludente e pasticciata.
Se poi andiamo a guardare quanto affermato dalla pubblicità del film, si noterà che la sola parola costante e sempre presente è "Tortura". E anche in questo caso, ad eccezione della parte iniziale del film dove il sadismo non manca, ci troviamo di fronte ad una parziale bugia. La tortura principale resta quella per lo spettatore di dover assistere a circa cinquantacinque minuti (pochi, ma lunghissimi) di fesserie, mentre le torture promesse si assaggiano soltanto e l'aspettativa del loro progressivo crescendo viene frustrata. Si pensi che anche la sopraccitata sequenza del frullato di frattaglie è stata aggiunta solo in un secondo momento. Complessivamente il gore presente in "Captivity" non raggiunge neppure lontanamente quello delle sue pellicole di riferimento, come ad esempio il terzo capitolo della serie di "Saw".
Per quanto riguarda il cast artistico troviamo l'ex ragazza della porta accanto, Elisha Cuthbert perfettamente a proprio agio nella parte. La sua qualità principale deve esser la bellezza, e questa davvero non le manca.
Per quanto concerne gli altri interpreti, essi sono sine infamia et sine lodo, completamente fungibili.
Concludendo Roland Joffé ha confezionato un prodotto di consumo, che non attrae, nonostante la campagna pubblicitaria scandalistica, e che non convince, anche se cerca disperatamente di darsi un tono di originalità senza riuscirci.
"Captivity" è una delusione sotto qualsiasi profilo, sia esso artistico, sadico, sociologico, orrifico, psicologico o anche di puro intrattenimento.
"Perché le cose più brutte succedono sempre alle persone più buone?"
Perché così le altre possono continuare a proporci senza ritegno la visione di siffatte pellicole.
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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 11/09/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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