Voto Visitatori: | 6,98 / 10 (21 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 8,00 / 10 | ||
Considerato dalla critica il migliore film di Almodòvar degli anni Ottanta, "Che ho fatto io per meritare questo?" è un piccolo capolavoro di originalità ed estro creativo. E' il quarto film del regista e in esso si fondono con ironia dramma e commedia, realismo e surrealismo, denuncia ed eccesso naif in un'esplosione di colori, di musica,di kitsch, di sottile citazionismo, tipica almodòvariana.
Stranamente questa è anche una delle sue opere meno conosciute, ma sicuramente uno dei suoi film più complessi, al quale molti altri futuri si sono richiamati (tanto per citare i più celebri: "Donne sull'orlo di una crisi di nervi" e "Volver").
Siccome per Almodòvar la scelta dell'attrice protagonista è sempre stata determinante, non poteva non privilegiare, per questo suo film, quella che negli anni Ottanta rappresentava la sua unica e autentica musa: Carmen Maura. Solo lei, capace di indossare qualsiasi ruolo cucitole addosso dal proprio mentore, avrebbe potuto far orbitare intorno a sé l'intera storia, che grava infatti quasi completamente sulla capacità della protagonista.
Il racconto della squallida vita della casalinga Gloria (Carmen Maura, appunto) è ambientato in un contesto sociale fortemente caratterizzato dal regista: il proletariato della periferia di Madrid nell'era del consumismo, descritto in modo cinico, a tratti spogliato di quello humor grottesco che sovente alleggerisce il dramma. La narrazione s'incupisce soprattutto quando vuole sottolineare la difficoltà di sopravvivenza e la quotidiana lotta per soddisfare bisogni anche primari come il cibo. La situazione precaria, il bisogno impellente condizionano immancabilmente i rapporti affettivi, quali ne siano i vincoli: coniugali, filiali,fraterni, amicali.
Anche qui, come in tutti i film di Almodòvar, alla traccia principale s'intersecano varie sottotracce, perciò risulta poco agevole narrarne la trama.
In poche parole la storia è quella di Gloria, casalinga costretta a lavorare come donna delle pulizie per far quadrare il bilancio familiare. Vive con il marito gretto e ignorante, la suocera e i due figli maschi (uno gay, l'altro drogato e spacciatore) in un appartamentino angusto, loculo di un casermone alla periferia di Madrid. Nello stesso stabile vivono due donne, dirimpettaie della famigla protagonista, l'una prostituta sognatrice, l'altra madre acida che odia la figlia, una bambina dai poteri telecinetici.
Gloria non sopporta più la sua vita grama, neanche i farmaci l'aiutano più a tirare avanti, quando un giorno casualmente intravede un percorso diverso.
Nella trama i temi cari al regista si susseguono tutti, dall'omosessualità alle tossicodipendenze, passando per il bisogno d'amore, argomento principe del suo universo poetico. In apparenza quest'ultimo, qui, pare meno approfondito, in realtà permane da sottofondo allo squallore esistenziale prepotentemente evidenziato dal racconto: è il bisogno di affetto autentico che i personaggi inseguono, per superare le proprie insoddisfazioni di una vita precaria in tutto. Bisogno che si manifesta nella ricerca di complicità (il nipote con la nonna, Gloria con la vicina ) e nel sogno di una fuga da una realtà troppo amara verso un "altrove" che li riscatti dalla frustrazione del presente (il marito con l'ex datrice di lavoro tedesca, la prostituta a Las Vegas, la suocera al paese natìo in campagna).
Il rapporto pessimo tra Gloria e il marito è rappresentato con naturale crudezza, non c'è comunicazione alcuna tra i due: lei chiede continuamente soldi per le spese più urgenti; lui la ignora o la umilia ed anche l'intimità tra i due si riduce ad un breve sfogo ormonale, sempre insoddisfacente per lei.
La totale assenza di comunicazione all'interno della casa è sarcasticamente evidenziata dall'uso del televisore, oggetto cardine dell'incomunicabilità familiare, quasi sempre presente nei film almodòvariani. La vena creativa del cineasta spagnolo fa risaltare l'oggetto in questione con una personale trovata: il regista inventa uno spot in cui si pone protagonista, un cameo inaspettato che ha il compito di offrirci una digressione grottesca, per allentare la tensione drammatica in corso.
Non è unicamente il televisore ad appartenere al mondo degli oggetti domestici di Almodòvar, il regista ce ne mostra numerosi, tutti rotanti intorno alla quotidianità della protagonista, che risulta in tal modo "robotizzata" e ridotta lei stessa ad elettrodomestico. Vediamo il suo volto incorniciato dal forno oppure dalla lavatrice, come fosse parte di uno spot televisivo; in realtà le immagini ci trasmettono l'angoscia e l'alienazione di Gloria, sempre ripresa in piani ravvicinati mentre lava i pavimenti o cucina nello spazio claustrofobico ed oppressivo del suo appartamento.
In "Che Che ho fatto io per meritare questo?", differentemente dai precedenti lavori, il regista focalizza l'attenzione sui bisogni dei personaggi, bisogni totalmente condizionati dai soldi. Anche in questo caso Almodòvar ricorre alla metafora per rappresentare la relatività dei desideri: il simbolo è un ramarro dal nome inequivocabile di "Dinero".
La lucertola, trovata da nonna e nipote e custodito in casa, si aggira per il piccolo appartamento, testimone inconsapevole dei drammi familiari e vera e propria ossessione per Gloria.
E il ramarro sarà anche osservatore casuale dell'evento, il cui epilogo, in una circostanza grottesca, restituirà la protagonista a se stessa, rendendola se non libera, almeno più autonoma ; d'altra parte la filmografia del regista è piena di situazioni iperboliche che egli riesce sapientemente a far rientrare nella "normalità".
Bisogna aggiungere che nel racconto affiora l'empatia del cineasta per i ceti poveri (da cui proviene), la si percepisce nel modo in cui non cerca di sublimarla, bensì ne mette in luce lo squallore con il cinismo di un Bunuel, dalla lezione del quale apprende perfino a satireggiare gli pseudointellettuali, qui rappresentati dalla coppia di scrittori e dalla cantante tedesca.
Ma non si esaurisce con Bunuel la mania citazionista di Almodòvar, che sfiora il neorealismo del cinema italiano del dopopoguerra, tocca Fassbinder, Godard, accenna persino all'horror stile anni Ottanta e lambisce con un accenno la musica tedesca degli anni Trenta con l'omaggio a Zara Leander e alla Dietrich.
Per finire è necessario ricordare l'incantevole dissolvenza dell'ultima sequenza, costruita su inquadrature di varia lunghezza (dal campo medio al lunghissimo), in cui il balcone dell'appartamento di Gloria diviene man mano più piccolo, risucchiato infine dall'alienante quartiere della Conceptìon, voluto da Franco nel periodo del boom economico degli anni Sessanta a testimoniare uno squallore molto poco rassicurante.
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Recensione a cura di Pasionaria - aggiornata al 31/03/2011 15.35.00
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