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L'ex presidente Ben Bella, padre del socialismo algerino, fondatore del FLN ed anima della resistenza contro il dominio coloniale francese, promuoveva la sua rivoluzione con uno spietato anatema, dicendo a muso duro ai nemici dell'esagono: "Voi ci avete colonizzato con le vostre armi...E noi vi conquisteremo coi ventri delle nostre donne!". La sua lontana profezia è oggi sotto gli occhi di tutti, con la crescente immigrazione araba nei Paesi occidentali, l'esportazione della cultura islamica, il fiorire delle moschee e l'incremento demografico delle nostre città, coi tanti problemi che ne conseguono in termini di integrazione, a livello culturale e di occupazione; discorso questo che in realtà potrebbe estendersi all'immigrazione extracomunitaria in genere. E in effetti un film come "Cous Cous", oltre che nelle banlieue parigine, poteva girarsi a Tor di Quinto a Roma, come a Torino S.Salvario o in tante zone della campagna meridionale, dove magrebini e marocchini fanno parte integrante della popolazione.
Una giusta lettura del film "Cous Cous" non può dunque prescindere da una interpretazione storico-sociologica di questo genere: nei sobborghi popolari della città costiera di Sète, in uno squallido quartierone prefabbricato, si svolge la vita di una famiglia di poveri immigrati, mantenuti con dura fatica del capofamiglia che, lavorando da 40 anni in un cantiere marino, cerca di traghettare verso un maggiore benessere la nuova generazione. Ma lo fa in tempi difficili come quelli attuali, in cui lo spettro del precariato, della disoccupazione e del licenziamento è continuamente in agguato; da cui il dramma del povero protagonista che, lasciato a casa dall'azienda perché vecchio, morirà rincorrendo affannosamente la teppaglia del quartiere per recuperare il motorino rubato. Anche l'idea estrosa di "inventarsi" un ristorante di cous cous a bordo di una vecchia bagnarola ancorata nel porto, va valutata nell'ottica molto attuale della cosiddetta "nuova imprenditoria", sovente inutile, pretestuosa e poco redditizia; sufficiente solamente a "truccare le carte" delle indagini statistiche di regime sull'occupazione. Storia sociale, dunque, ma non solo.
Il film del bravissimo franco-tunisino Kechiche si presta altrettanto bene ad una seconda chiave di lettura molto più ampia, come metafora globale dell'esistenza, in cui il capo famiglia passa la vita a produrre risorse per tutti e poi, fatalmente, conclude il suo ciclo biologico, lasciando il testimone ai suoi figli. Mentre, per contrapposto, la femmina più giovane del gruppo scopre istintivamente il potere della propria seduttività, che la renderà madre e nutrice, riproducendo la vita.
Così facendo farà girare la testa a tutti gli uomini, come succede nel film nella scena principe della danza del ventre, in cui la pancia già tonda della precoce adolescente va letta simbolicamente come profezia di maternità, in una sorta di moderna annunciazione.
Intorno ruotano esempi frappanti di ordinaria umanità, fotografati impietosamente con ossessivi primi piani, che evidenziano l'ipocrisia e la supponenza dei burocrati "bianco-europei", oltre alla pochezza e alla volgarità della famiglia tunisina. E qui occorre aprire una doverosa parentesi sull'isterismo dominante di certe figure femminili aggressive, bercianti, pettegole, sempre recriminatorie, che insoddisfatte della propria vita stigmatizzano continuamente gli uomini, considerati responsabili delle loro mancate fortune. Un'immagine realistica, non di maniera, tipica forse del mondo arabo, ma altrettanto frequente anche nel nostro meridione, ove la donna, proprio perché "culturalmente " in minoranza nella sfera pubblica, si vendica astiosamente nel privato, tra le mura di casa; dove invece gli uomini, smessi finalmente i panni fittizi del dominatore, cercherebbero quiete.
Che piaccia o meno, se ne può comunque trarre una conclusione per certi aspetti positiva: che di fronte ad una società tanto rigida e spietata, solo la famiglia di sangue resta àncora di salvezza, capace di ricompattarsi in situazioni di comune emergenza...Come succedeva agli immigrati meridionali nel Nord del miracolo economico.
Profondi, dunque, i temi trattati dal regista tunisino. Col respiro classico del romanzo verista di taglio ottocentesco, che intorno al ritratto dei singoli personaggi mirava a disegnare non solo un'intera epoca, ma il destino globale ed essenziale dell'umano (v.i Rougon-Maquards di Zoliana memoria.)
Vero questo, si potrebbe eccepire su alcuni aspetti tecnico-formali del film, come i primi piani ossessivamente ravvicinati e le carrellate accelerate, sovente troppo mosse, delle riprese a braccio, con telecamera manuale. Un'ingenuità "sospetta" di difficile decodificazione: esprit naïf o semplice incapacità tecnica?
Inutile invece lamentare la lentezza esasperante del ritmo narrativo, infarcito di ripetizioni, perchè tipico della cultura araba, in cui dialoghi, scene e vicende si sviluppano con la reiterazione continua del motivo centrale, con nenie musicali ripetute ossessivamente, capaci però di ingenerare quella ineffabile atmosfera definita nella cultura araba come "Tarab": una sorta di spinta emozionale collettiva che lega inesorabilmente il pubblico all'artista, come in effetti nelle scene trascinanti della danza del ventre della giovane maliarda.
Di qui, spettacolo nello spettacolo, la splendida raffigurazione del gruppo di anziani musicisti all'inaugurazione del locale "Cous Cous di pesce", che sembra scaturire direttamente dalle pagine di "Ti ho amato per la tua voce", il libro sulla vita di Umm Kalthum, la mitica "sirena musicale" di tutto il mondo arabo.
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 22/01/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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