Recensione elephant regia di Gus Van Sant USA 2003
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Recensione elephant (2003)

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Voto Recensore:   10,00 / 10  10,00
Palma d'oroMiglior regia (Gus Van Sant)
VINCITORE DI 2 PREMI AL FESTIVAL DI CANNES:
Palma d'oro, Miglior regia (Gus Van Sant)
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locandina del film ELEPHANT

Immagine tratta dal film ELEPHANT

Immagine tratta dal film ELEPHANT

Immagine tratta dal film ELEPHANT

Immagine tratta dal film ELEPHANT

Immagine tratta dal film ELEPHANT
 

I genitori non hanno più il controllo. Sbandano anche quando la strada è diritta. Vuoti e sfocati, come i corridoi scolastici percorsi dalla loro prole.
L'assenza è così palese che sono loro ad essere al servizio dei figli, quei discendenti altrettanto disorientati, costretti ad amministrare le "virtù" loro malgrado. Questi ragazzi tirano su col naso e camminano solitari con in mano fucili e bombe.
Come siamo arrivati a tutto questo? Bisogna sbrigarsi a trovare una risposta: le nubi si muovono in fretta, e si fa presto ad oscurare un cielo limpido con nembi grigio scuro, a passare dal giorno alla notte...

Suddiviso in capitoli che portano il nome dei ragazzi protagonisti, "Elephant" è un ritratto adolescenziale scritto, montato e diretto da Gus Van Sant, regista esperto delle problematiche di giovani che si avvicinano all'età adulta e alla vita in generale. Solamente ispirato alla tragedia nel liceo di Columbine, a Littleton, in Colorado, il 20 aprile del 1999, Van Sant si smarca abilmente dai fatti di cronaca cambiando i nomi dei veri studenti coinvolti e ambientando le riprese in un giorno chiaramente autunnale, prendendo in considerazione adolescenti crudeli ma bene inseriti, figli di una società benestante e tediata.
Tuttavia la capacità creativa dell'autore non si ferma a questa area esclusiva; non c'è mai, da parte del regista, l'intenzione di ancorarsi a una traccia calcolata. Con la macchina da presa sta addosso a questi giovani, li bracca alle spalle, li pedina frontalmente, li accompagna affiancandoli e spesso li lascia andare per un po', distanti, osservando da lontano le andature, i suoni dello scalpiccio. Ci fa percepire il clima umido che popolano, l'aria sudata di palestre e spogliatoi, le voci concitate di brevi partite a football, i suoni di un pianoforte o di una chitarra, le voci impilate di una mensa, la campanella che trilla come se scandisse un'ora d'orologio qualsiasi piuttosto che un comando. Compie lenti giri di valzer a corteggiare un'età fondamentale, nella quale non si può essere abbandonati.
Perché, oltre all'insegnamento scolastico, c'è anche quello civico e sentimentale, che non può ridursi a un dito infilato in bocca e a un sorriso provocante e scaltro.

Gus osserva i movimenti degli studenti da un'angolazione riservata, soprattutto durante la sparatoria, come a voler celare l'impossibile descrizione di un fatto realmente accaduto e limitandosi a un reportage immaginario. La preferenza verso un cinema più ampliato, dal lento respiro, dal debole svolgersi del piano sequenza non è una sterzata in direzione di un linguaggio dispotico e incomprensibile. Semplicemente, come poche volte accade di assistere al cinema, la forma si è mutata in messaggio di verosimiglianza. L'ellisse narrativa custodisce il grande vuoto della mediocre uniformità quotidiana. Dimensione visionaria geniale, irraggiungibile essenza pura in celluloide. Senza la vanità di aver compreso tutto; più modestamente mostrando i tempi in apparenza morti della consuetudine, altrimenti schivati.

Al fianco di studenti disinvolti ce ne sono altri con evidenti problemi di autostima. Nel loro abbigliamento da ginnastica accollato e dietro un paio di occhiali concentrati sulla gestione dei libri della biblioteca, alberga la goffaggine, la paura del proprio odore, l'inno prematuramente accelerato al pudore, in modo da tener celata la vergogna nel mostrare la fisicità.
C'è aria di anoressia mentale, di rigurgito formativo, di mancanza di una gioia consapevole che vira verso una trascurabilità alienata/alienante, che invece dovrebbe entrare a contatto col mondo reale delle cose. Se non fosse che il privilegio di una finta stabilità cancella ogni incentivo.

Dotato di una sceneggiatura autosufficiente, che vive di un criterio basato sull'estro del momento, "Elephant" spesso si fa' carico di soluzioni di scrittura apparentemente incoerenti. Il tema affrontato in una discussione scolastica ("Si può riconoscere un gay da come cammina?") si risolve in un movimento circolare della MdP (della serie: puoi girarci intorno quanto vuoi, trattasi sempre di un argomento futile che non ha una risposta).
Qualcuno avrà pensato a un espediente autobiografico (i gay che parlano sempre di se'). Macché. La vita è fissata a un pettegolezzo perenne, che decora anche le discussioni dei ragazzi e dei docenti. La lucidità di Van Sant è così sviluppata che, con questa riunione-colloquio, non fa altro che definire un'irreale controversia (ci stanno anche i montoni omosessuali!), politicamente corretta, per gettare una base con l'intento di sminuire il peso della scena della doccia pre-strage, durante la quale assistiamo a un bacio tra i due assassini.
Niente di omosessuale, nessun richiamo alla "deviata" natura erotica dei due carnefici/vittime. Solo il bisogno di un accenno a un atto intimo e confidenziale prima della fine collettiva, la consapevolezza di un essere umano uguale a un altro disposto a uccidere per noia e appagamento.

C'è molto Kubrick in quest'opera così curata: dalla tecnica delle inquadrature (l'uso della steadicam) ai dialoghi (l' "Alex +" di "Elephant" beve latte in una sorta di antidoto allo sballo della droga, data la natura innocua e materna della sostanza, e armonizza la voce per una conta infantile, prima di compiere l'ultimo deturpamento della carne all'interno della cella frigorifera), dalla scelta delle musiche (tracce classiche da Beethoven) alla ricostruzione scenografica (le sembianze pulite e sterili dei corridoi scolastici, agghiaccianti quasi come i passaggi dell'Overlook Hotel).
C'era bisogno di qualcuno che provasse a prendere il posto di uno dei più grandi maestri di cinema mai esistiti. Per fortuna il Festival di Cannes se ne è accorto attribuendogli una più che meritata Palma d'Oro, al Miglior Film e alla Migliore Regia. Una doppietta eloquente, che dice molto sul valore artistico della pellicola.

Frammento sociologico chiuso in una camera oscura, il film mostra il suo altissimo profilo simbolico quando si muove tra i disegni grossolani e angoscianti che risaltano sulle pareti della stanza di Alex. Tra gli altri, si distingue per un attimo lo schizzo di un elefante, animale che incarna il problema che dovrebbe essere evidente e che nessuno vede, il quale pare spostarsi da lì, passare dal soggiorno (un gioviale corriere che consegna un pacco), e approdare in cucina, dove i genitori vengono inquadrati solo a metà (!), si lamentano dei mancati risultati sportivi del figlio, continuamente denigrato, e dispensano ovvi consigli che di solito non escono dai confini di un'età fanciullesca.
L'adolescente si ritrova da una parte un apparato flebile come la scuola-labirinto, ghetto geometricamente perfetto, e dall'altra la famiglia stanca o distante, della quale trova un'imitazione sostitutiva nel gruppo di amici.
La collettività è fredda ed esclusiva, quando non punitiva, e il mondo degli adulti ha i lineamenti di un nume che non indugia a distruggere i suoi stessi figli. La società dell'opulenza è giunta alla fine, fatta fuori dal suo complicato sistema di agi, insozzati da succhi di frutta fuoriusciti dai comodi brick da portare sempre con se, dallo sciroppo d'acero precipitato da pancakes cucinati troppo in fretta per essere buoni.
È il cosmo fintamente riconciliato della città che ora collassa, si sfalda e defluisce davanti ai nostri occhi. Chi è rimasto in piedi dopo la sparatoria di questo folle videogioco che è la vita, è un sopravvissuto alla facilità di esistere. In questa confraternita supercustodita, tutelata e viziata, non abbiamo più la coscienza di cosa sia la morte, impercettibile e lontana ossessione. E quasi non ci stupiamo quando parte il seriale e vanaglorioso massacro.

Nell'America descritta da Van Sant, il campo d'azione non è uniforme come vorrebbero i poteri forti e il Sistema Istituzionale. La trovata del regista è quella di una messa in scena di una scuola-metropoli vacillante tra realtà e fantasia, tra difficoltà quotidiane e frammenti poetici, popolata da spettatori inconsapevoli di essere anche attori. La capitale così costruita è architettonicamente recintata e ideologicamente ristretta dal perbenismo, dal moralismo, dalla finzione, da un'armonia solo incipriata.
E la politica non ha saputo affrontare nel modo giusto le questioni sollevate dal folle gesto compiuto alla Columbine High School: puntando il dito a casaccio sul controllo della vendita delle armi da fuoco, sul teppismo giovanile nelle scuole, sull'influenza di film e videogiochi violenti, sulla mancanza di poliziotti nelle aree didattiche, sulla piaga del razzismo e l'assunzione di antidepressivi (!), in larga parte le istituzioni hanno continuato a ignorare progetti di vera ricostruzione di un'identità civica, di spinte psicologiche per una comprensione del senso della vita, di un insegnamento sessuale che disciplini l'equilibrio sentimentale e il controllo della frustrazione. È una considerazione logica, quasi matematica, che non da' scampo. Esattamente come i tragitti dei ragazzi: intricati, intensificati dalla moltiplicazione dei punti di vista con cui le stesse azioni vengono filmate in momenti diversi del film, ad attenderli c'è un destino di morte inevitabile, un meeting temporale fatidico.

Mentre l'elefante è sempre lì. E non intende muoversi.

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Recensione a cura di pompiere - aggiornata al 20/01/2012 16.57.00

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