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Stanley Kubrick e la sua gioia, il suo senso di pieno, definitivo appagamento dopo il parto (lungo e travagliato) di "Eyes Wide Shut". Stanley Kubrick e l'abbraccio improvviso, sonnolento della morte, sopraggiunta a poche settimane dalla fine delle riprese. Non poteva esservi destino più poetico e drammatico per un regista che della poesia del dramma (e del dramma della poesia) aveva vissuto per 50 anni, da quando cioè, poco più che ventenne, aveva iniziato la formidabile scalata al successo e all'immortalità dell'artista. Stanley Kubrick era una uomo che non sapeva vivere senza avere sempre qualcosa su cui riflettere, su cui indagare. E il suo gusto per lo studio, l'introspezione dell'animo umano (unitamente a una grande conoscenza e sensibilità artistica) lo aveva condotto a girare lungometraggi di grande valenza contenutistica e di superlativa ricercatezza formale. Ultimo capolavoro, datato 1986, il pluriosannato "Full Metal Jacket", ovvero la follia umana precipitata nello zoo a stelle e strisce di un campo d'addestramento dei marines.
Stanley Kubrick, ci confida sua moglie Christiane, aveva un chiodo fisso, un problema che non era ancora riuscito a trasformare in opera d'arte, da illusionista della pellicola qual era: le angosce e i segreti di un "normale" rapporto di coppia. "Io e Stanley avevamo parlato tanto di questa cosa: vedevamo continuamente nascere, e poi apparentemente morire, problemi e incomprensioni all'interno di coppie sposate e non. Voglio dire, avevamo molti amici che attraversavano periodi devastanti: mariti e mogli si lasciavano, divorziavano per poi ricongiungersi o, in altri casi, cominciare una nuova vita. Stanley era attratto dalle ragioni che spingono un uomo e una donna a interrompere una relazione sentimentale, salvo poi lasciare aperto uno spiraglio alla riconciliazione. Le ragioni più intime e profonde, intendo, quelle di cui agli amici spesso non si può e non si vuole parlare..."
E' così che Christiane Kubrick racconta la genesi di "Eyes Wide Shut": la folgorazione, per il marito Stanley, arrivò dalla lettura di un romanzo breve di Arthur Schnitzler dal titolo "Doppio Sogno" ("Traumnovelle"). Il libro, intenso e sofferto, racconta i tormenti di Fridolin e Albertine, due giovani viennesi sposati e felici che precipitano in una crisi sessuale ed esistenziale sospesa fra sogno e realtà. Schnitzler, nella sua prosa agile e cinematografica, rievoca lo spettro di una Vienna addormentata, surreale a far da cornice alla tumultuosa vicenda di Fridolin e Albertine. Parallelamente, forte della proprie velleità psicoanalitiche, ostenta grande sicurezza e profondità concettuale nella descrizione soprattutto del sogno di Albertine, proiettandoci veramente nei più bui recessi della mente di questa benestante, rassicurante ragazza sposata.
Stanley Kubrick impiegò oltre due anni per trasformare questo racconto teso e disturbante in un capolavoro del grande schermo. Diede fondo a tutta la sua inventiva, scatenò il suo talento visionario. Il risultato? Una pellicola carica di fascino simbolico, un film spietato (ma allo stesso tempo, per dirla con Nicole Kidman, "molto ottimista") che sputa sangue e dolore. Sofferto forse più dello stesso racconto di Schnitzler.
L'elemento onirico è la chiave di lettura tanto del libro quanto del film: Fridolin e Albertine, trasformati da Kubrick in Bill Harford (Tom Cruise) e Alice Harford (Nicole Kidman), vivono realmente (a New York e non a Vienna) un sogno contaminato dalla realtà, e una realtà contaminata dal sogno. La loro (apparentemente) serena vita coniugale viene improvvisamente violentata dalle rivelazioni di Alice, che 24 ore dopo una festa tentatrice a casa di un lussurioso amico di famiglia (Victor Ziegler, calzato da Sydney Pollack) confessa a Bill una sua vecchia fantasia (dunque un "sogno"!) sessuale. Apriti cielo: il marito perfettino, abitudinario e "innocente" non riesce a levarsi dalla mente l'immagine di sua moglie spogliata da quel fantastico marinaio, intravisto un anno prima, di cui lei gli ha appena parlato.
Allo spettatore viene da domandarsi il perché di una simile, destabilizzante confessione da parte di Alice. Non è difficile, in realtà, intuire la sua annoiata e malcelata frustrazione nei confronti di Bill, colpevole di darla troppo per scontata: "Come sto, Bill, sono carina?" - "Sei bellissima, amore" - "Ma come fai a dirlo, se non mi hai neanche guardata?" - "Non ne ho bisogno, cara; tu sei sempre bellissima"; "Perché dici che non sei mai stato geloso di me, Bill?" - "Forse perché sei mia moglie, forse perché sei la madre di mia figlia... Forse perché penso che non mi tradiresti mai..." - "Tu sei un uomo molto, molto sicuro di te stesso, non è vero Bill?" - "No. Io sono sicuro di te!"
La rivelazione di Alice turba il marito, disorienta Bill a tal punto da proiettarlo in una dimensione "irreale", quasi ipnotica: la ricerca impulsiva, e poi pentita (vedi il caso della prostituta Domino), del piacere sarà per lui, al contempo, reazione alle parole di Alice e ritrovata necessità di emozioni, risveglio dal torpore silenzioso di una vita coniugale appagante, forse, soltanto nella sua stabilità familiare.
Comincia così a sciogliersi l'enigma del titolo di questa geniale pellicola: "Occhi Spalancati Chiusi". Gli occhi chiusi sono quelli di Bill, che non "vede", o non vuole vedere, il soporifero senso di routine che sta pervadendo, e contaminando, la sua relazione con Alice. Gli occhi spalancati sono quelli di Alice, che invece intuisce con largo anticipo la gravità della situazione, sperimentando sulla sua pelle la noia e l'esasperazione di una moglie poco stimolata, se non intellettualmente almeno sessualmente, dal marito. Guarda caso, nella scena in cui Alice e Bill, nudi, si baciano e si accarezzano è soltanto Alice a guardare sé stessa nello specchio posto davanti a loro (il suo, metaforicamente, è il coraggio di guardare in faccia la realtà), non Bill: è Alice ad avere gli occhi aperti, a dimostrare una maggiore consapevolezza dello stato in cui versa il rapporto con Bill.
Gli occhi chiusi, per contro, sono proprio quelli di Alice, che in fondo i suoi tradimenti continua sempre a sognarli, senza mai passare ai fatti. In tal senso, dunque, gli occhi spalancati sono quelli di Bill, il quale in seguito allo sfogo di Alice sulle fantasie sessuali si rifugia (sospeso fra volontà personale e stimolazioni esterne) in una serie di avventure che definire "improbabili" sarebbe perfino riduttivo. E' qui, infatti, che comincia il sogno ad occhi aperti di Bill, è qui che comincia la sua impulsiva ricerca di piacere, il ruggito del suo "Es" a metà strada fra trasgressione e rimorso. E' qui che comincia a scatenarsi il talento visionario di Stanley Kubrick.
Subito dopo il dialogo-shock con Alice a proposito di quel marinaio tanto anelato da lei soltanto un anno prima, casualmente il dottor Bill Harford viene chiamato urgentemente a casa di una sua paziente. Deve constatare il decesso del padre di tale Marion la quale, proprio quella notte e davanti al cadavere del padre, si getta fra le braccia dell'esterrefatto dottor Bill per sputargli in faccia il suo inconfessabile amore per lui.
E due, dottor Bill Harford: il sesso femminile, nel giro di poche ore, pare improvvisamente mostrarsi a te in una prospettiva ben diversa da quella che ti eri abituato a considerare...
Ma l'incredibile notte del personaggio di Tom Cruise non è ancora iniziata: dalle dieci alle quattro di notte ci sarà spazio per una capatina (senza consumazione) a casa di una prostituta che lo adesca per strada, una rimpatriata con l'amico pianista Nick Nightingale al locale "Sonata Jazz", una surreale puntata notturna al negozio di costumi gestito da un inquietante omaccione dall'accento russo (con annessa scoperta, nel retro del negozio, di un'orgia in corso fra la figlioletta del negoziante e due orribili orientali pervertiti) e infine... dulcis in fundo... un'indimenticabile esperienza nella "casa del sesso", fra fanciulle e gentiluomini mascherati, rituali iniziatici officiati da improbabili santoni e canti gregoriani in versione dark.
Piuttosto inverosimile, che tutte queste circostanze si concentrino nel breve volgere di una nottata... Ancora più inverosimile che Bill Harford si muova in una New York di cartapesta, plastificata, "fasulla" ("quella sembra New York ma non è New York; è una città sconosciuta che si traveste da New York. Nessuno nella Grande Mela ha mai visto quei negozi e quelle strade", commenta Martin Scorsese), così come viene difficile credere che il caro dottore abbia un portafoglio così generoso da permettersi di pagare la prostituta per "il disturbo", affittare un costume pagando 200 dollari in più per l'orario inusuale, prendere taxi a tutto spiano e offrire pure una lauta mancia al tassista che lo accompagna fino alla "casa del sesso".
Infine, come si spiega il fatto che Cruise/Harford, pur mascherato, venga chiaramente riconosciuto nella villa delle meraviglie da due maschere sinistre che si voltano verso di lui?
Tutti questi elementi, naturalmente, accrescono il senso di mistero che avvolge la notte bestiale di Bill Harford e contribuiscono in maniera decisiva a relegarla in una dimensione puramente onirica; sono "indizi di inverosimiglianza" che ne denunciano la natura simbolica, surreale. Bill Harford sta vivendo un vero e proprio sogno ad occhi aperti; eppure, stando a quanto ci racconta Kubrick, sperimenta situazioni reali. Nonostante il regista stesso si adoperi per conferire a ogni singolo elemento scenico la fragilità ipnotica dell'illusione. Semplicemente straordinarie, in tal senso, le carrellate lentissime all'interno della villa del sesso (che passano in rassegna le ragazze nude pronte a consegnarsi agli scalpitanti uomini mascherati), esaltate dalle musiche cupe e distorte rimbombanti nel salone: ricordano, per perfezione stilistica ed espressività musicale, i fotogrammi iniziali di "Arancia Meccanica". Ma straordinario, all'interno della villa, è ogni dettaglio della scenografia kubrickiana, straniante e allucinata nei colori (il rosso che risalta sul bianco delle pareti e sul nero dei costumi, il carnevale inquietante ricreato dalle rutilanti maschere degli incappucciati) e nelle atmosfere.
Mentre Bill Harford vive queste "inverosimili" esperienze, Alice che fa? Sogna, e non sogna farfalle e petali di rosa: come confiderà al marito alle quattro e mezzo di quella notte, quando lui finalmente rincaserà, a frullarle in testa sono immagini terribili. Sesso, sesso e sesso: sesso con tanti uomini, sesso per deridere lui, Bill, sesso per godere con gli altri e non con lui.
Già, ma sono solo sogni, fatti a "occhi chiusi". Mentre Bill è reduce da (tentativi di) tradimenti "reali", abbozzati a "occhi aperti".
Sono solo sogni, dunque, quelli della ragazza. Come i sogni di Alice, Alice nel Paese delle Meraviglie. Credevate che Kubrick avesse scelto il nome a caso, per il personaggio di Nicole Kidman? Ma la scelta non è casuale nemmeno per Bill; Bill, un nome qualunque, insipido, per un personaggio insicuro, mediocre, passivo. Un personaggio in balia degli eventi, che ha la mania di ripetere quasi sempre le risposte che gli altri danno a ogni sua domanda, denotando la sua insicurezza di fondo, il suo perenne bisogno di ricevere delle conferme. E che dire di Helena, la piccola figlia di Bill e Alice? Dopotutto vive un ruolo scomodo, ma allo stesso tempo influenza moltissimo le scelte dei due protagonisti. Si potrebbe affermare che li unisce (esigenza di mantenere l'unità familiare nonostante le avventure reali e sognate) e li divide. Helena come... Elena di Troia, casus belli?
Il resto del film si consuma fra le angosce di Bill, tormentato dal dubbio di aver contribuito indirettamente all'uccisione di una donna, e gli sviluppi drammatici della sua storia con Alice.
Alla fine Bill le confesserà tutto, dalla visita alla prostituta all'orgia mascherata e... il film si chiude, pur sofferente, con il finale imbevuto di "ottimismo" sottolineato dalla Kidman.
Come riassumere in poche parole l'ultimo, imponente masterpiece kubrickiano? Un viaggio coraggioso, affascinante nei tabù di una giovane coppia. Come il regista aveva anticipato alla moglie Christiane. Una rappresentazione puramente simbolica, e artisticamente superba, del conflitto fra l'uomo e il suo oggetto d'amore.
Del libro di Schnitzler Kubrick assorbe, sublimandolo nella pellicola, il senso di angoscia, di inconsistenza della realtà. Tutto è potenzialmente vuoto, intangibile, esistente solo nella sua dimensione onirica in "Eyes Wide Shut"; in "Doppio Sogno", d'altronde, l'autore scrive: "Fridolin si trovò in una stradina in cui si aggiravano solo alcune squallide prostitute. Che atmosfera spettrale, pensò. Anche gli studenti dai berretti blu divennero improvvisamente spettrali nel ricordo, così pure Marianne, il fidanzato, lo zio e la zia. Anche Albertine, che gli apparve immersa in un sonno profondo, le mani incrociate dietro la nuca, (...) tutti si erano trasformati ai suoi occhi in figure assolutamente spettrali." Fridolin, esattamente come Bill, è catapultato in un sogno, sospeso fra senso di realtà e flusso di pensiero, fra concreto e visione, fluttuante nella levità del subconscio.
Menzione finale per i due attori protagonisti: strepitosa la Kidman, maschera di dolore, di ironia, di disincanto e di fragilità. Bravo Tom Cruise, anche se ogni tanto sembra rifugiarsi nella recitazione impostata, forse perché spaventato dalla complessità del personaggio. Bill Harford, soprattutto durante la sua notte di (impossibile) follia, avrebbe richiesto una maggiore espressività e versatilità.
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Recensione a cura di Matteo Bordiga - aggiornata al 16/01/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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