Recensione hostel regia di Eli Roth USA 2005
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Recensione hostel (2005)

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locandina del film HOSTEL

Immagine tratta dal film HOSTEL

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Immagine tratta dal film HOSTEL
 

Questa è la premessa: "Non ho voluto fare un film violento fine a se stesso. Volevo che la gente venisse fuori dicendo - sì, è davvero fottutamente malato -, ma doveva comunque avere la R per essere distribuito. Non c'era bisogno di fare un "Ichi the killer 2". Quello è territorio di Miike, è bene lasciarlo a lui. Volevo una cosa influenzata dal cinema orientale, ma che restasse profondamente americana".

Bene; Eli Roth è la dimostrazione vivente di come un uomo sia in grado di fare sparate al di sopra di qualsiasi controllo umano. Tutti i principi contenuti nella dichiarazione che avete appena letto sono stati brillantemente condotti a fallimento con ampio successo, e perdonate la frase ossimorica.
I nomi c'erano tutti; Eli Roth è un regista che con un solo film alle spalle ("Cabin Fever") è riuscito a guadagnarsi un certo rispetto, non si sa bene come. E poi c'è Tarantino alla produzione, nome che sempre di meno è una garanzia. Non solo i nomi, ma anche le cifre c'erano: girato con quasi 5 milioni di dollari (ma nell'horror è un male avere a disposizione tutti quei soldi, e comunque a giudicare dal risultato è certo che Roth se ne sia intascati perlomeno la metà) e con ben 680 litri di sangue da spargere a destra e a sinistra. Gulp, sulla carta le premesse c'eran tutte.
E le prime recensioni erano tutte più che positive; i giudici del Toronto Film Festival avevano detto del film che era "il più terrificante degli ultimi 10 anni", e non è colpa di nessuno se i giudici di codesto festival hanno in casa solo "Notting Hill", "Big Fish" e "Neverland".
Poi il film è uscito, e i toni hanno iniziato a smorzarsi, costringendo vari critici a fare parziali (in qualche caso totali) dietro-front.

Ma andiamo con ordine, e diamo un'occhiata alla trama. Josh e Paxton, 2 americani, si concedono prima del rush finale delle rispettive tesi universitarie una vacanza nella permissiva Europa, dove tutto è concesso e dove donne e droghe sono all'ordine del giorno (che strano, noi europei fuggiamo da qui per cercare le stesse cose in America - sì, vabbè, abbiamo Amsterdam, ma quello è un discorso a parte).
I 2 vengono condotti, assieme ad un amico islandese raccattato per strada (davvero simpatico, bisogna ammetterlo) in un ostello di Bratislava, in cui pare che le donne la diano come un prete dà l'ostia. Detto fatto; i 3 arrivano all'ostello e tutto va come da copione.
Ma ben presto qualcosa va storto, e ad uno ad uno i ragazzi iniziano a sparire.
La causa è da ricercare nelle frequentazioni dell'ostello, dove personaggi non proprio con la coscienza pulita fanno da tramite ad un'organizzazione che concede, dietro pagamento, il piacere di uccidere una vittima prescelta da un catalogo. Per una persona locale il prezzo è relativamente basso, ma gli americani costano di più.
Per non rovinare il finale (e non è che ci sia qualcosa di ulteriormente rovinabile, in verità) diciamo solo che qualcuno ci resta, qualcuno decide di restarci a un passo dalla libertà e qualcuno se ne torna a casa piuttosto incazzato.

Insomma, l'avrete capito già da soli: la trama non è tutta questa cosa originale, tutt'altro. Non siamo certo fra i ricercatori dell'originalità a tutti i costi, che quando è perseguita con fare capzioso e artificiale risulta più fastidiosa che altro, non riuscendo a celare l'affettazione con cui è concepita.
Ma un discostarsi dal solito schemino a) gruppo di amici che incidentalmente b) finisce in un luogo in cui vengono sistematicamente fatti a pezzi, epperò c) uno di loro si trasforma in una bestia e d) li fa fuori tutti lo si potrebbe pure pretendere, che diamine!
La variante è quella del gruppo di ragazzi a cui si ferma la macchina (e fatele controllare...) in prossimità della villa in cui risiede la famiglia cannibale di turno.
C'è un gran ridere intorno allo stereotipo del film orientale, ovvero la ricorrente donna con capelli corvini che coprono il viso, e che secondo molti acuti osservatori renderebbero gli horror orientali tutti identici. Ma questa stessa categoria (purtroppo larga) di personaggi non si avvede che l'horror occidentale è ben più stereotipato, incapace di staccarsi dalla formuletta vincente, incapace di decollare. E quando lo fa, non viene apprezzato ("Session 9", "Allucinazione perversa").
Lo stesso frecedente film di Roth era una sorta di plagio a "La Casa", ma allora si pensava che la cosa fosse un omaggio voluto. Oggi, dopo "Hostel", si può ben ritenere che più che cialtroneria in quel film non c'era.

Ma una trama scanzonata e non particolarmente brillante può essere rivitalizzata da una buona regia e da una discreta recitazione, cose che purtroppo qui latinano parecchio. Ci sono le belle donnine desnude, pettorute e disponibili, ma ci sono altri film che soddisfano questo tipo di bisogni. E soprattutto c'è il grande assente: lo splatter estremo con cui questo film è stato presentato.
Probabilmente "Hostel" è un'eccellente vittima dell'hype; le roboanti dichiarazioni di Roth e Tarantino, la presenza di quet'ultimo e le eccellenti recensioni (di chi non aveva nemmeno visto il film, ma si fidava del passaparola tutto interno alla produzione, non degli spettatori) hanno gonfiato il film non poco, e non c'era fan dell'horror che non si aspettasse perlomeno una sorta di chiave di volta dell'horror occidentale. Purtoppo l'unica frase che esce alla fine della proiezione è "tutto qui"?
I dichiarati 680 litri di sangue sono in realtà 680 centilitri, e già è un'approssimazione per eccesso.
Siete alla ricerca di sequenza disturbanti, scene esplicite, smembramenti e prelibatezze di vario tipo? Rivolgetevi ovunque ma non ad "Hostel". In fin dei conti questo film, come giustamente dichiarava Roth, va distribuito, e si sa come vanno le cose da noi: ci si scandalizza per un "Saw", figuriamoci per uno splatter modello anni'70.

Il film gioca con lo spettatore, gli presenta mirabolanti strumenti di tortura, esalta il simbolo della sedia della vittima come luogo destinato al martirio, ma poi la telecamera, giunti al "dunque", si gira dall'altra parte e inquadra le mura ben fornite di armi. Quando va bene, c'è un po'di sangue che schizza.
A volte Roth "osa" e pare andare oltre, ma ci fa solo una magra figura, vedi la scena dell'occhio penzolante dell'orientale. E' un bellissimo effetto speciale comprato in cartoleria, e la ragazza pare abbia un hamburger spiaccicato in faccia. Alla fine la suddetta ragazza si lancia contro un treno, e almeno lì, giunti alla fine del film, si spera di vedere qualcosa. Ma no, anche qui abbiamo una splendida galleria di passanti un po'schizzati di sangue in faccia.
Una scena del genere l'abbiamo vista con ben altri esiti nell'incipit di "Suicide Club". E qui sta il punto; nella dichiarazione iniziale leggiamo come Roth sia desideroso di confrontarsi con lo splatter orientale. E questo è uno dei punti mirabilmente falliti con pieno successo.

E' probabile che la maggior parte dei lettori di questo articolo conosca l'horror orientale solo attraverso le sue manifestazioni più commerciali, ad esempio con "Ring", "Two Sisters", "Ju on".
Ma questi film non rappresentano che la punta di un iceberg, una punta dalle ridotte dimensioni. Il mercato dell'horror orientale (Cina/Giappone) è talmente vasto ed estremo che il tipico spettatore occidentale difficilmente potrebbe solo sospettarne l'esistenza.
Quando lì si gira uno splatter non si scherza e non si fanno sconti; se dubitate provate a dare un'occhiata a film come "Untold Story", "Men Behind the Sun", il ciclo dei guinea pig, "Naked Blood". Ma ce ne sarebbero centinaia di titoli da citare. Ebbene, basterebbe un solo fotogramma di uno qualsiasi di codesti film per far tornare Roth dalla mamma a giocare con i pupazzeti.
"Hostel" può risultare spletter a chi ha trovato pesante da digerire un "Saw" qualsiasi, ma per chi mastica normalmente flm estremi orientali, beh, è come vedere una puntata di Holly e Benji.
Ma anche senza andare troppo lontano, basta un Fulci o un Deodato qualsiasi.
Andiamo ancora di più sil commerciale: basta un Peter jackson per superare in splatter "Hostel".

E nella sua dichiarazione Roth cita anche Miike Takashi, sostenendo che non era sua intenzione fare un "ichi the killer 2". Strana affermazione per chi desidera girare un film rivoltante: è come se avesse detto di voler girare un porno senza nudi. Chi non ha visto "Ichi the Killer" si affretti, è un film che rende "Kill Bill" una pellicola da boy scout. Ed è risibile ache l'uscita "[...]E'territorio di Miike, è bene lasciarlo a lui". Beh, caro Eli, che dire. Miike ti ringrazia, non avrebbe saputo come fare con un temibile concorrente come te.
"Volevo che la gente venisse fuori dicendo - sì, è davvero fottutamente malato": altro esempio di dichiarazione andata a farsi benedire. Alla scandalosa mancanza dell'elemento ultrasplatter promesso, si aggiunge una totale assenza del "fattore angoscia". "Hostel" è un film in cui l'unico motivo di tensione è dato dal fatto di sapere se tale ragazzo X riuscirà a farsi la tale ragazza Y.
Il film non è malato, non è marcio, non è inquietante. Non è fastidioso.
Le torture, oltre ad essere praticamente assenti, sono dilettantesche e risibili. Mai s'è visto in un horror un uso così pessimo della motosega, usata qui per tagliare le unghie al personaggio principale, per poi finire protagonista di una fastidiosa citazione di "Non aprite quella porta" (la motosega sulle gambe...). Per dire, non c'è un grammo della tensione della sequenza di "Scarface", dove il medesimo strumento fa davvero paura.
O non c'è un grammo della cattiveria della scena finale di "Last House on Dead End Street", in cui una poveraccia è fatta lentamente a pezzi e fatta rinvenire ogni volta facendole respirare dei sali.
Questa è un'idea indubbiamente malata, ma queste idee non le trovate di "Hostel", ne troverete altre fatte ad hoc per far dire "che schifo" ai veri neofiti dello splatter.

In effetti non è confortante per un film sanguinolento iniziare a fallire proprio quando le prime goccie di sangue iniziano ad affiorare; va tutto bene nella prima mezz'ora, in cui Roth dimostra di essere più a suo agio nel girare un "American Pie" qualsiasi piuttosto che un horror.
Il che ci fa giungere alla conclusione che solo un punto della dichiarazione di Roth sia stato effettivamente rispettato: "...ma che restasse profondamente americana".
Esatto, "Hostel" è americano al 100%, e non si discosta affatto dal cinema horror che il nuovo continente ci sta proponendo, con fare sempre più cialtrone e stanco. Esempi illustri sono i vari remake di "Non aprite quella porta" (dichiarati e non), "Saw", e compagnia bella.

Resta la curiosità di cercare di capire cosa sarebbe stato di hostel senza la presentazione in pompa magna di cui ha goduto. Probabilmente sarebbe passato sotto silenzio, avrebbe avuto i suoi estimatori e la cosa sarebbe finita lì. Ma il meccanismo pubbicitario, falso e tendenzioso è stato davvero imponente ed esagerato (tanto da scomodare i nostri telegiornali), e a promesse esorbitanti devono poi corrispondere anche i fatti. Perchè quando Tarantino dice di "Hostel" che è "una delle storie più malate che abbia visto" non si prende solo la responsabilità di tale ridicola affermazione, ma mette in cattiva luce se stesso e rischia di far eclissare il suo astro.
Va bene che a questo tipo di dichiarazioni siamo abituati, ma qui siamo a livello di Stephen King che dice di Barker "ormai è più bravo di me", oppure di Raimi che afferma che "Frailty" dell'amico Paxton sia il film più spaventoso dai tempi di "Shining". Frasi che mettono in cattiva luce non solo i dichiaranti, ma l'oggetto stesso della dichiarazione con relativo autore.
Ultimissima cosa: Roth ha affermato anche di essersi ispirato in particolare ad "Audition", sempre di Miike (che tra l'altro appare in un inutile cammeo).
Se qualcuno ha capito dove e come mi contatti in privato, grazie.

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Recensione a cura di cash - aggiornata al 27/02/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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