Recensione il buono, il matto, il cattivo regia di Kim Jee-woon Corea del Sud 2008
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Recensione il buono, il matto, il cattivo (2008)

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locandina del film IL BUONO, IL MATTO, IL CATTIVO

Immagine tratta dal film IL BUONO, IL MATTO, IL CATTIVO

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Nella Manciuria degli anni '30, una leggendaria mappa del tesoro viene venduta all'armata di occupazione giapponese da un'organizzazione criminale coreana. Il capo dell'organizzazione, stuzzicato dal miraggio del doppio guadagno, assolda il killer Park Chang-yi (The Bad) perché la recuperi subito dopo lo scambio. Contemporaneamente, il Movimento per l'Indipendenza della Corea (all'epoca colonia del Giappone) assume il bounty-killer Park Do-won (The Good) perché si impadronisca del prezioso oggetto; Do-won accetta ben volentieri, anche perché prevede di incassare la sostanziosa taglia sulla testa di Chang-yi. Ma i loro piani verranno mandati a monte dall'inaspettato arrivo di Yun Tae-gu (The Weird), il quale rapina il treno su cui viaggia la mappa, se ne impadronisce e fugge nel deserto, convinto che l'oggetto lo condurrà a un tesoro nascosto risalente alla dinastia Qing.

Pubblicizzato come il "primo western coreano" (cosa non vera) e come "il film coreano più costoso di tutti i tempi" (17 milioni di dollari), l'ultima opera di Kim Jee-won ha fatto sfracelli al botteghino, incassandone più di 44. Ha inoltre fatto piazza pulita al 29° Blue Dragon Film Awards, portandosi a casa quattro premi (Miglior Regia, Scenografia, Fotografia e Premio del Pubblico) e, in sovrappiù, un premio per la Miglior Regia al 41° Festival di Sitges. Ma fu vera gloria?

Dichiaratamente ispirato a "Il Buono, il Brutto e il Cattivo", da cui riprende l'incipit con la presentazione dei personaggi e l'estenuante duello finale, lascia da parte il gusto un po' greve dell'epica di Sergio Leone e scantona verso il divertito trastullo orchestrato con classe sopraffina, pura energia cinematica in movimento e piacere orgasmico della visione.
Messa in scena lussureggiante, cromatismi abbaglianti, e, soprattutto, sequenze d'azione allo stato dell'arte: dalla stupefacente rapina al treno, dove avviene la prima collisione tra i tre protagonisti, alla sparatoria in un mercato affollato fino alla straordinaria caccia nel deserto, dove si incontrano e si combattono i banditi, l'esercito giapponese e i coreani, è un susseguirsi di scene in cui Kim definisce un nuovo standard, difficilmente superabile, per il film d'azione.

La mappa del tesoro è il classico McGuffin di cui parlava Hitchcock, un labile pretesto per portare avanti la storia, tra intermezzi picareschi, biliose crudeltà e adrenaliniche accelerazioni. Il deserto della Manciuria diventa uno spazio finzionale, un contenitore dove si inseguono e si scontrano tre figure iconiche che, in quanto tali, non necessitano di un particolare approfondimento in fase di sceneggiatura. Gli attori si adeguano: Chang-yi, il Lee Byeong-heon di "A Bittersweet Life", è un sublime dandy psicotico, con la mentalità del gangster contemporaneo, mentre il Tae-gu dell'immenso Song Kang-ho ("The Host", "Sympathy for Mr.Vengeance") è un adorabile cialtrone, illuso e confusionario, oltre che il vero motore del gigantesco Luna Park che è "The Good, The Bad, The Weird". Sontuosissimi i set di Jo Hwa-seong, mentre i costumi di Gweon Yu-jin corteggiano con intelligenza l'atemporalità.

Smaltito l'entusiasmo iniziale ci si rende conto che non tutto funziona a meraviglia, a partire da un'inconsulta rivelazione finale sul passato di Tae-gu, e che, rispetto alle precedenti opere di Kim Jee-won, il film sconta la sua natura eminentemente ludica e la volontà di ribadire la supremazia dello stile. E di stile Kim ne ha senz'altro da vendere, tanto da portarlo ai primi posti in un'ideale classifica dei registi coreani contemporanei, ma è uno stile che porta all'assoluta perfezione l'esistente senza innovare, appagato dalle proprie inarrivabili vertigini estetiche ma immune sia alle folgorazioni di Park Chan-wook che alla densità di Bong Joon-hoo. Se poi vogliamo parlare di western dall'Asia, il folle "Sukiyaki Western Django" di Miike Takashi è forse più vitale e contraddittorio, meno inattaccabile ma anche più stimolante e viscerale.

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Recensione a cura di Nicola Picchi - aggiornata al 09/06/2009

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