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Ancora frastornati dall'attenzione mediatica, con contorno di polemiche, che hanno accompagnato la pubblicazione del libro "Il sangue dei vinti" di Giampaolo Pansa, ecco puntuale apparire la sua trasposizione cinematografica per il grande e, successivamente, piccolo schermo.
In quel suo libro Pansa si appropria di un cavallo di battaglia delle destre, tentando una improbabile e faziosa revisione storica dei fatti seguiti l'8 settembre del 1943, facendo sue le tesi antiresistenziali della pubblicistica fascista, spacciandole come verità assolute e dogmi di fede che sviliscono e criminalizzano il sacrificio e il valore di quanti si batterono e persero la vita per liberare il Paese dalla dittatura nazifascista.
Un'operazione, la sua, che non rispetta la memoria di quanti sono morti per consentire a lui, e a quanti come lui, di avere la libertà di poter scrivere i suoi annuali almanacchi antiresistenziali, ma che non glorifica nemmeno i caduti di coloro che scelsero di stare tra quelli che la storia ha giudicato dalla parte sbagliata.
Nel suo libro Pansa rivendica il diritto di dire la sua verità per dipingere, quando va bene, con un linguaggio falso e capzioso, sempre e solo i partigiani come dei volgari banditi (la voce ricorre spesso nel libro, come nel film); se invece va male, sono visti come delle belve sanguinarie, tutti dediti a compiere spietate vendette, regolare vecchi conti in sospeso, uccidere senza pietà, stuprare donne innocenti, torturare antichi avversari politici.
E con la scusa di dar voce agli sconfitti, finisce per legittimare le presunte ragioni di questi e delegittimare le ragioni dell'antifascismo, che rimane, pur sempre, il valore fondante su cui poggia la nostra Costituzione.
Certo nessuno nega che anche i partigiani non abbiano commesso dei crimini, anche ignobili, ma il problema è un altro, ed è che i partigiani sono arrivati dopo il 1940; prima ci sono stati i crimini degli "altri", atroci e brutali, che hanno portato anche agli eccessi dei partigiani.
Pansa si dimentica di dire le nefandezze compiute dagli "altri" in Abissinia ed Etiopia, in Cirenaica ed in Tripolitania, in Grecia e in Iugoslavia, in Spagna e persino nell'Unione Sovietica, emerse e documentate con anni di colpevole ritardo.
Si dimentica di coloro che persero la vita per le rappresaglie nazifasciste seguite al fallito attentato al Generale Graziani; di quanti morirono alle Fosse Ardeatine, a Sant'Anna di Stazzema e in tutti gli innumerevoli luoghi che furono teatro di massacri nazifascisti; di quanti persero la vita o furono privati della libertà personale per aver osteggiato il fascismo o per non averne condiviso le idee.
Si dimentica di dire che a vincere non furono solo i partigiani, ma la vecchia Democrazia Cristiana che per '40 ha governato l'Italia, che a vincere furono i banchieri e il grande capitale, che a vincere fu persino il Vaticano, che ha evitato il giudizio della storia per aver benedetto l'avventura di Mussolini e di non aver fatto sentire alta la sua voce di dissenso per le barbarie che si perpetravano in Germania.
Da un libro così scandalosamente fazioso ed anche pericolosamente diseducativo, ecco puntuale venir fuori l'omonimo film, che oltre che essere altrettanto fazioso e diseducativo, è soprattutto decisamente brutto, rozzo e manipolatore, ad opera del regista Michele Soavi, più avvezzo a dirigere banalissime fiction televisive che opere per il grande schermo.
Un film che di quelle fiction conserva intatte tutte le pecche e tutti i peggiori difetti, e che solo la RAI di Del Noce, Saccà e Berlusconi poteva produrre.
E già, perchè tra il cattivo gusto da fotoromanzo e l'involontario umorismo da soap-opera sudamericana, il film è francamente imbarazzante, sciatto e tirato via e, nonostante gli sforzi degli sceneggiatori per allontanare il sospetto di revisionismo storico, finirà per diventare la bandiera di quanti vogliono screditare il valore della Resistenza e l'operato dei partigiani, frutto di una classe politica che non riesce a nascondere (nonostante i doppipetto) le sue evidenti simpatie e non sa dimenticare il passato.
Ma al di là del messaggio politico che vorrebbe accreditare, il film affoga veramente è nelle insistite, logore, balorde metafore: il nontiscordardime trovato dal commissario, in cappotto di cammello, tra l'erba delle fosse comuni dove è sepolta la sorella; la sventagliata di mitra che divide in due l'Italia rappresentata su una carta geografica; i morti a bizzeffe, i legami di sangue divisi dalla guerra, i vecchi genitori (con il padre mutilato ed eroe della "grande guerra") che si sparano per non cadere nelle mani dei feroci partigiani, la bambina e il cavallo bianco emergenti dalle polveri sollevate dai bombardamenti di S. Lorenzo, la partigiana puttana che uccide la propria gemella fascista e ne prende il suo posto, la fanatica repubblichina che uccide il fratello partigiano.
Ci si chiede veramente come si possa girare un film così manicheo: povero di idee, con dialoghi assurdi e totalmente privi di plausibilità, con motteggi pomposi e al limite del ridicolo ("le bombe sono tutte uguali ma gli uomini che le buttano sono diversi", tanto per dirne una) e una recitazione imbarazzante che fa degli attori dei burattini telecomandati (e stupisce come un attore come Michele Placido possa aver accettato un ruolo simile).
Dispiace solo sapere che le facili discussioni sulla rozzezza del film riusciranno ad oscurare quelle ben più importanti sulla disonestà intellettuale del messaggio che il film (e il libro da cui è tratto) cerca di accreditare; a dimostrazione che la storia può essere manipolata da chi la racconta e da chi la scrive. Dispiace dover raccontare qualcosa della trama di un pessimo film che non fa onore alla cinematografia italiana.
Siamo a Roma, il 19 luglio del 1943. In un lungo e insistito prologo assistiamo al bombardamento alleato sul quartiere dello scalo ferroviario di San Lorenzo, senza nessuna spiegazione sui motivi di quel bombardamento.
Tra le molte vittime seguite ai crolli degli edifici, il Commissario Dogliani scopre il cadavere di una giovane prostituta, Costantina, uccisa in realtà da un colpo di pistola che le ha sfigurato il volto.
Chiusa dentro un armadio il Commissario scopre inoltre una bambina, figlia della prostituta, che riesce a salvare giusto in tempo prima che il palazzo crolli completamente, facendo scomparire il cadavere e rendendo difficoltose le indagini, che il Commissario intraprende per una sorta di tacito impegno preso con la bambina, che nel frattempo viene affidata alle cure di Anna, la sorella gemella della prostituta, che fa l'attrice e se la intende con un gerarca fascista.
Nel corso dello stesso bombardamento rimane ucciso anche il marito di Lucia, la sorella del Commissario, a Roma in viaggio di nozze (in tempo di guerra).
Quando Lucia rientra nella casa paterna, di lei si prende cura l'altro fratello del Commissario, Ettore.
Nel corso delle indagini Dogliani scopre che la donna uccisa aveva un convivente, un portantino dell'ospedale, tale Foresi, con precedenti penali e un sospetto di sovversivismo.
Arriva il 25 luglio, c'è l'arresto di Mussolini e Badoglio che prende la guida del governo per dichiarare che la guerra continua.
Intanto l'intensificarsi della guerra al nord, incide sugli equilibri interni della famiglia del Commissario, che torna in Piemonte nella casa dei genitori e trova la sorella che si è indurita e cova rancore verso gli alleati, tanto che una mattina lascia la casa dei genitori e si arruola tra i repubblichini di Salò.
Dogliani, nel tentativo di ritrovare Lucia, chiede aiuto al fratello Ettore, che milita con i partigiani, ma quando torna a casa scopre che il vecchio genitore, per non cadere vittima delle "belve partigiane" ha sparato alla moglie e poi si è suicidato, mentre i "banditi" gli sfondano la porta.
Dogliani intanto riprende a cercare Lucia perchè la vuole salvare ad ogni costo; la trova presso un distaccamento della camice nere, ma lei non vuol saperne di tornare a casa.
Mentre parla con Lucia, Dogliani vede arrivare Anna con la bambina, la figlia di Costantina. È stata catturata dai tedeschi mentre faceva la staffetta per i partigiani.
Dogliani riesce a farle fuggire e insieme si rifugiano in una baita di montagna, dove Anna gli racconta la sua verità sulla morte della sorella: dice che in seguito ad una violenta lite, a causa del suo amante gerarca, è partito un colpo accidentale che ha ucciso Costantina.
Dogliani non le crede perchè nel frattempo ha capito che in realtà la morta non è Costantina ma Anna, l'attrice.
Costantina, vista la rassomiglianza, ne ha assunto l'identità per stare accanto a Nardi e poterlo spiare.
Arriviamo così al 25 aprile, giorno dell'insurrezione: i partigiani scendono dalle montagne ed è una macelleria.
Un fascista si spara alla testa gridando "a noi!", altri fascisti si suicidano in massa, che pare la strage della setta del «Tempio del Popolo», di Jonestown, le imboscate dei partigiani non rispettano la tregua e nemmeno la "bandiera bianca".
I tedeschi si arrendono, tranne il gruppo di Lucia, che dalla cima di un campanile fa la cecchina sparando sui passanti.
Tra i colpiti c'è anche Ettore, che muore tra le braccia di Dogliani.
Quando il gruppo dei nazifascisti viene snidato, Dogliani vede portare via Lucia che canta a sguarciagola. Sa che la portano a morire.
Nel vano tentativo di salvarla incontra Anna e Foresi, il portantino, che gli danno una indicazione vaga.
Quando arriva sul luogo indicato non trova nessuno, tranne i le tracce di una recente fucilazione.
Arriviamo così ai giorni nostri: vediamo Dogliani in macchina con Elisa, la figlia di Costantina, diventata adulta e professoressa.
Viaggiano verso il nord, verso una destinazione che Dogliani non conosce ma dove Elisa intende portarlo ad ogni costo.
Credete sia un racconto confusionario?
No! Il film è proprio così: abusa dell'intelligenza degli spettatori e li stordisce con due ore di dialoghi verbosi ed enfatici ed incongruenze metaforiche logore e banali
Vuoto, retorico e falso, sia dal punto di vista contenutistico che formale, il film (così come il libro) è un esempio lampante di come si possa impunemente manipolare la storia e, mettendosi in sintonia con i bassi istinti di una maggioranza politica, affaristica e inaffidabile, seguire la direzione del vento che soffia con la certezza di lauti diritti d'autore e grossi vantaggi carrieristici, anche a costo di rinunciare a quelle idee alle quali si è sempre giurato di credere.
Giustamente rifiutato a Venezia, il film è stato accolto nella semiautarchica edizione alemanniana del festival di Roma, dove è stato presentato come "evento speciale", apprezzato solo da alcuni nostalgici della Repubblica di Salò e dal solo Pansa che, convinto di aver contribuito alla nascita di un grande capolavoro, con rara modestia, avrebbe preferito vederlo inserito nella sezione in concorso, fingendo di ignorare che alcun giudice avrebbe mai potuto votare un prodotto così scadente.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 25/05/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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