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Howard Philip Lovecraft, il solitario di Providence, come recita una delle tante definizioni del grande scrittore americano, non ha mai avuto un rapporto "produttivo" con il cinema. Non ha avuto le fortune di uno Stephen King, le cui opere sono state letteralmente saccheggiate sia dal cinema che dalla televisione, aumentando a dismisura la popolarità dello scrittore del Maine, oltre naturalmente la proprie risorse finanziarie.
Non ha avuto registi che hanno utilizzato i suoi racconti per creare dei veri propri cicli di film come Edgar Allan Poe e il binomio con Roger Corman.
Lovecraft può essere quasi accomunato, riguardo la "fortuna" cinematografica, a Philip Dick che è stato scoperto con "Blade Runner", ma purtroppo questa sua scoperta è coincisa con la sua morte.
Lovecraft e il cinema sono tutt'ora due mondi molto distanti tra loro e la messa in scena di pellicole che derivano dalle sue opere sono di quantità risibile rispetto agli esempi precedenti. Ad eccezione di "La città dei mostri" di Roger Corman e qualche altro horror di qualità spesso non eccelsa, Lovecraft appare ancora oggi un autore i cui scritti sono di difficile traduzione per il grande schermo.
Vero è tuttavia che le opere di Lovecraft sono presenti in pellicole che, pur non trattando di suoi racconti, li evocano per atmosfere, personaggi e citazioni, rimandandoli più o meno direttamente, segno questo che lo scrittore ha comunque lasciato un impronta profonda nella storia della letteratura americana ed in particolare, quando si parla di horror o fantascienza, Lovecraft diventa un imprescindibile punto di riferimento.
Nel suo saggio "L'orrore soprannaturale nella letteratura" Lovecraft affermava che "Il sentimento più antico e profondo radicato nell'uomo è la paura, e il genere più antico e forte di paura è la paura dell'ignoto". Una paura difficile da filmare o rappresentare, che nasce da uno stato interiore intriso di paranoia che sconfina nell'onirico dove il limite tra il reale e ciò che non lo è si fa sempre più sottile, spesso indistinguibile.
Lo stesso scrittore ha più volte ammesso il suo debito verso Edgar Allan Poe ma, a differenza di quest'ultimo, l'orrore di Lovecraft poggia su basi quasi primordiali, su un qualcosa di preesistente la stessa razza umana e quindi sul "Mito". Una caratteristica epica che non si esaurisce nell'arco di un semplice racconto, ma che continua creando tutto il ciclo di Cthulhu.
"In the mouth of madness", pur non essendo tratto da un racconto di Lovecraft, fa tuttavia di quest'ultimo il referente principale fin dal titolo, di poco dissimile dal titolo del suo racconto "At the mountain of madness" ("Le montagne della follia").
Atri rimandi li possiamo trovare agli scritti di Philip Dick - soprattutto per ciò che riguarda il discorso sulla distinguibilità della realtà e sulla vicinanza di mondi paralleli - e Richard Matheson che si esplica soprattutto nel finale.
L'investigatore assicurativo John Trent viene incaricato da un'importante Casa Editrice, la Arcane, di ritrovare lo scrittore Sutter Cane, nuovo fenomeno di massa nel mondo della letteratura horror (una sorta di Stephen King). Il suo ultimo Best Seller è infatti appena uscito e sta già facendo accorrere nelle librerie orde di fans in delirio, ma di Cane non sembra esserci più traccia, scomparso nel nulla proprio mentre stava completando una sua nuova opera, "In the mouth of madness" che, nelle intenzioni dello scrittore, sarebbe dovuta essere il suo capolavoro assoluto, contenente incubi mai letti su carta stampata.
Accompagnato da Linda Styles, segretaria della Casa Editrice, Trent si mette quindi in viaggio verso una sperduta cittadina, Hobb's End, in cui si crede che lo scrittore si sia rifugiato. John Trent, solitamente abile nello scoprire le truffe verso le assicurazioni, uomo che vive e pensa in maniera razionale e abituato a ragionare su canoni consolidati, viene messo in scacco dalla rappresentazione del confine tra la realtà e l'immaginazione o, sarebbe meglio dire (per usare le parole del Dottor O'Blivion del "Videodrome" di David Cronenberg), "la percezione che abbiamo della realtà".
Una realtà che sotto gli occhi del protagonista si evolve verso il completo disfacimento per precipitare verso l'incubo lovecraftiano popolato di mostri indescrivibili e culla di un orrore ancestrale, antico quanto il Male stesso.
Tutto quindi diventa relativo, normalità e follia possono ribaltarsi facilmente i ruoli. Ciò che creava una distinzione netta fra reale e irreale all'inizio - e che dava ragione al pensiero di John Trent -viene ribaltato dallo scrittore-demiurgo Sutter Cane, i cui libri operano una trasformazione inevitabile della realtà, grazie al successo popolare delle proprie opere: "I miei libri sono tradotti in 18 lingue, sono più quelli che credono alla mia opera rispetto a quelli che credono nella Bibbia".
Il punto di vista di Cane diventa il punto di vista dell'umanità, della massa, e se tutti condividono un comune concetto di realtà tranne una persona, allora quella persona diventa automaticamente un folle.
Spazio e tempo subiscono un corto circuito che ha in Hobb's end il suo punto zero, luogo dove il reale e l'immaginario si incontrano, e luogo dove inizia quella trasformazione della realtà finora conosciuta nella realtà immaginata da Sutter Cane, il quale a sua volta diventa egli stesso il corpo- scrittura che lacerandosi libera le creature indescrivibili che invaderanno e contageranno il mondo. Ciò che era stato (forse) impedito nelle lande desolate del polo antartico de "La Cosa" e sventato dalla rottura dello specchio ne "il Signore del male", ne "Il seme della follia" sarà dunque inevitabile.
Il personaggio di Sutter Cane presenta caratteristiche simili al Richard Upton Pickman del racconto di Lovecraft "I modelli di Pickman", un pittore che viene lodato per il suo talento nel riuscire a dipingere paesaggi infernali popolati da demoni chiamati ghoul che si cibano di cadaveri. Alla fine però si scoprirà che questi "modelli" non erano frutto della sua fantasia malata bensì ritratti dal vero, resi tangibili dalla sua sensibilità unica nel riuscire a vederli.
Tutti i tentativi di John Trent e Linda Styles, la segretaria della casa editrice Arcane che lo accompagna, saranno vani. Loro stessi sono nient'altro che personaggi del nuovo libro di Cane, "In the mouth of madness", con ruoli definiti a cui non possono sfuggire perchè Cane ormai è diventato un Dio che muove a piacimento le sue pedine.
Trent quindi sarà il messaggero, tramite il manoscritto di Cane, del nuovo Verbo, della nuova dottrina che cambierà radicalmente l'umanità.
Questa è una delle pellicole più ambiziose di John Carpenter e uno dei migliori horror degli ultimi trent'anni, che si colloca in un periodo dove anche George Romero con "La metà oscura" e David Cronenberg con "Il pasto nudo", seppur con percorsi differenti, collocano la parola scritta al centro delle loro pellicole.
In Carpenter la scrittura non è un mezzo per poter rimodellare la realtà conosciuta ma lo strumento della sovrapposizione di una realtà completamente nuova; quindi - come nella dinamica del racconto "I modelli di Pickman" di Lovecraft - non il parto della fantasia dello scrittore bensì il tramite attraverso cui si rivela una realtà parallela alla nostra. Se agli occhi di John Trent (e ai nostri occhi) Cane appare come un Dio che manovra ogni cosa, per le creature lovecraftiane è solo un semplice strumento per penetrare nel nostro mondo.
In questa catena l'ultimo anello, il lettore del libro di Cane, è un soggetto completamente passivo privo di qualsiasi capacità dialettica e critica verso ciò che sta leggendo, in quanto accetta supinamente ciò che è stato predeterminato in precedenza senza porsi la minima domanda. Di conseguenza, per similitudine, le creature mostruose di Cane sono come gli imprenditori alieni di "Essi vivono": sono presenti fra di noi ma non riusciamo a percepirli, possiedono la loro stessa logica predatoria, imponendo modelli sui consumatori senza margini di intervento di quest'ultimi, creando quindi un circuito chiuso e autoreferenziale.
Ottima la regia di Carpenter che riesce a dare corpo alle atmosfere di Lovecraft, impresa mai riuscita prima con efficacia da nessun cineasta: dai rapidi flash onirici della parte iniziale del film fino all'inesorabile percorso verso l'incubo di Hobb's end (tutta la sequenza prima dell'arrivo nella città sulla strada completamente buia è un altro grande pezzo di bravura, perfetta per tensione e angoscia emotiva) dove la componente irreale diventa pressoché preponderante, in cui tempo e spazio perdono il loro significato e dove le azioni vengono reiterate ripetutamente senza via di scampo per il protagonista (nella sequenza in cui Trent si trova di fronte ad una folla pronta a linciarlo).
Giusta la scelta, contrariamente a quella fatta per "La Cosa", di non mostrare apertamente le creature: pochi fotogrammi rapidissimi, tanti bastano per renderle inquietanti ed evitare accuratamente qualsiasi effetto involontariamente ridicolo; del resto lo stesso scrittore di Providence definiva i suoi mostri "indescrivibili".
Altrettanto eccellente è l'interpretazione di Sam Neill, prototipo dell'uomo razionale la cui protervia iniziale viene progressivamente smantellata dagli incubi di Sutter Cane (ottima anche la presenza scenica carismatica di Jurgen Prochnow nei panni dello scrittore) fino all'apocalittico finale dove, con ancora indosso la divisa del manicomio, assiste al "suo" (e al nostro) film.
"We are not living inside a Sutter Cane's story"
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Recensione a cura di The Gaunt - aggiornata al 21/10/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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