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Tra le grandi passioni di John Carpenter, fin dalla tenera età, i b- movies di fantascienza ed il suo grande amore per Howard Hawks, quest'ultimo sempre evocato in tutti i suoi film.
Dopo lo straordinario successo di "Fuga da New York", Carpenter si imbarca nel remake di un classico del cinema di fantascienza: "La Cosa da un altro mondo" di Christian Nyby, con Howard Hawks all'epoca nelle vesti di produttore. Per Carpenter, quindi, l'occasione ideale per coniugare due suoi grandi amori cinematografici: Howard Hawks ed i b-Movies di fantascienza anni '50.
Tratto dal racconto di John W. Campbell Jr., "Who goes there?", Carpenter si mantiene più fedele al racconto originale di quanto avesse fatto la coppia Hawks-Nyby nel 1951, soprattutto nel tratteggiare la figura della "cosa", creatura mutante ed indefinibile, rispetto alla figura umanoide (ed identificabile) del film originale.
In un certo senso può essere considerato più un seguito che un remake.
Il monito del giornalista Ned Scott che chiudeva il film "La cosa da un altro mondo" di Hawks-Nyby ("Attenzione al cielo. Dovunque, scrutate il cielo!"), viene "recepito" trent'anni dopo, dal disco volante che atterrerà sulla superficie antartica.
Pur amando profondamente Hawks, Carpenter con "La Cosa" dirige un film diametralmente opposto a molte tematiche del suo mentore.
L'alieno nel film di Nyby è visibile e riconoscibile; funge da catalizzatore e trait d'union nel gruppo disomogeneo di individui che fanno fronte comune per sconfiggere il nemico. Il maccartismo di quegli anni sta prendendo rapidamente piede e l'alieno può essere facilmente interpretato come il simbolo del comunismo da combattere e distruggere.
In Carpenter il nemico non è altrettanto identificabile; la metafora politica, legata alla figura dell'alieno, è assente.
Nel gruppo di ricercatori della base antartica, legato soltanto da generici rapporti professionali, senza particolari vincoli di amicizia, la presenza sfuggente dell'alieno fa emergere dubbi, paure e incertezze fino a sfociare nella paranoia. Nel microcosmo della base antartica nessuno si ritiene più al sicuro, tutte le certezze e punti di riferimento vengono distrutti sistematicamente dalla cosa: il tuo vicino può essere un potenziale nemico da annientare in nome dell'unico scopo possibile: la sopravvivenza.
Carpenter ci mostra fino in fondo le capacità multiformi della cosa, le sue trasformazioni, le sue metamorfosi continue, celando tuttavia la sua vera forma; gli effetti speciali di Rob Bottin sono stupefacenti e all'avanguardia per l'epoca. Insieme alla trasformazione di David Naughton ne "Un lupo mannaro americano a Londra" raggiungono un picco qualitativo elevatissimo, prima che l'era digitale dei computer togliesse artigianalità a questo settore.
L'Antartico, landa desolata per eccellenza, diviene quindi terreno di scontro per la sopravvivenza dell'umanità.
La fotografia magnifica di Dean Cundey dona al territorio bianco e accecante una parvenza straniante tale da renderlo "alieno" agli stessi umani e fonte di sopravvivenza per la cosa stessa: grazie all'ibernazione, il continente polare è stata la sua culla per migliaia di anni.
Di fronte alla disgregazione progressiva del gruppo, l'unico personaggio a reagire è MacReady, che con il suo disincanto così tanto vicino allo Snake Plissken di 1997, non si rassegna alla morte. Prende le redini del gioco, cerca attivamente di costruire una speranza non solo per lui, ma anche per gli altri, che a loro volta lo seguono, lo temono, fino a tradirlo; unico personaggio capace di reagire, ma contemporaneamente unico personaggio ad essere tratteggiato con una certa profondità da Carpenter. Gli altri componenti del gruppo, interpretato da attori di seconda linea, seppur eccellenti, come Keith David nella parte di Childs (presente anche nel successivo "Essi vivono"), Donald Moffat (Cary), Charles Hallahan (Norris), Wilford Brimley (Blair) hanno in comune una caratterizzazione scarna del rispettivo personaggio. Lo scopo di Carpenter è chiaro: un eccessivo approfondimento avrebbe sottratto suspense all'intero film, rendendo più identificabile la condizione, all'interno dello stesso personaggio, di "contagiato" o "sano". Così facendo, la tensione non solo rimane a livelli elevatissimi come nelle sequenze del "massaggio cardiaco" e "la prova del sangue", ma continua fino all'angoscioso e magnifico finale "aperto".
Malgrado la sua scarsa aderenza al film di Nyby, Carpenter omaggia quella pellicola in due momenti: con la fuga di Palmer contagiato, avvolto dalla fiamme, verso l'esterno della base come James Arness nell'originale e con i videotape dei norvegesi quando con delle cariche esplosive dissotterrano il disco volante dell'alieno. Non mancano altresì riferimenti alla pittura espressionista di Munch con i volti congelati in maschere di terrore nei cadaveri trovati nella base norvegese ed anche riferimenti cinematografici all'"Invasione degli ultracorpi" di Siegel e relativo remake di Kaufmann (l'urlo del contagiato Bennings) sulla fenomenologia del contagio. Ma soprattutto cominciano a visualizzarsi quelle forti assonanze verso H. P. Lovecraft, sia come ambientazione della storia (l'Antartide de "Le montagne della follia"), sia come tipologia dell'orrore, un orrore antico fuori dalla sfera umana, che si manifesterà più chiaramente in pellicole come "Il signore del male" ed "Il seme della follia" e, in misura minore, "Essi vivono, in cui però prevale l'aspetto politico-sociale dell'America.
Le musiche di Ennio Morricone sono un altro elemento determinante per la riuscita di questo film; un Morricone molto carpenteriano, apparentemente spersonalizzato data la diversità di stile rispetto ad altre pellicole. La sua colonna sonora, con quel ritmo martellante ed ossessivo, carica ulteriormente di suggestioni angosciose il senso di ansia e di morte che regna nel film.
Con questa pellicola il pessimismo di Carpenter raggiunge il suo culmine: dalla New York, metropoli in disfacimento tratteggiata in 1997 fino alle terre desolate del Polo Sud dove in una base di poche persone assistiamo alla distruzione dell'umanità operata da un alieno che ci mostra impietosamente ciò che siamo, spazzando via in un solo colpo tutto l'idealismo della fantascienza anni '50 così tanto amata dal regista.
"Nobody trusts anybody now"
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Recensione a cura di The Gaunt - aggiornata al 07/11/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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