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A novant'anni suonati Mario Monicelli, uno dei padri della commedia all'italiana (suoi, tra gli altri, "I soliti ignoti"e "L'armata Brancaleone"), torna alla regia riportando sul grande schermo i ricordi della sua generazione impegnata nella guerra, ispirandosi al libro di Mario Tobino "Il deserto della Libia".
Girato quasi completamente nei luoghi originali, "Le rose del deserto" vuol essere un omaggio malinconico alla gioventù lontana del regista ed una denuncia vergata con il solito piglio ironico.
Coadiuvato da uno stuolo di discreti caratteristi, da Alessandro Haber, il cui ruolo risulta qui cruciale ai fini della storia anche se non altrettanto incisivo, al giovane Giorgio Pasotti a Michele Placido, l'intreccio scorre via in maniera non sempre limpidissima però, generando a tratti noia nello spettatore.
La vicenda in sé è interessante: un drappello di soldati di stanza nel deserto descritti con le classiche tipologie (il romano "caciarone", l'intellettuale, il romantico, l'indolente, il veneto lavoratore, il sardo un po' cocciuto), in una sorta di remake de "La grande guerra", in cui al centro della trama era l'umanità dei soldati e di straforo gli episodi bellici; manca però purtroppo ai protagonisti lo spessore scenico e recitativo degli interpreti del precedente film bellico firmato quasi quaranta anni prima sempre da Monicelli. Gli episodi hanno poco mordente, la recitazione è superficiale, televisiva o da sit-com e non basta Placido con la sua verve a salvare la barca.
Se ne "La grande guerra" un ampio spazio era dedicato alla protagonista femminile, la grande Silvana Mangano, questa pellicola è decisamente una storia declinata al maschile, quasi una rivalsa per il regista de "Speriamo che sia femmina", girato circa venti anni prima. La protagonista femminile appare per poche sia pur determinanti inquadrature e pronuncia poche battute, le donne sono solo un sogno, un ricordo per restare vivi o per spegnersi (come accade ad Haber).
La denuncia del regista si accanisce contro la guerra perché il reparto protagonista della storia è un distaccamento sanitario dedito quindi a una sorta di "missione umanitaria" (termine abusato ai nostri giorni per giustificare i soldati italiani sparsi nel mondo) che poi si trova suo malgrado coinvolto nel conflitto reale, ma c'è soprattutto una denuncia verso il potere rappresentato dai goffi generali, grotteschi nell'aspetto e nei loro discorsi. Monicelli quindi parte dal ricordo per affrontare tout court i mali del nostro paese, i difetti grossi, urlando quasi che il marcio parte dalle istituzioni perché i piccoli uomini sono vittime, come il soldato sardo Sanna, episodio questo preso da un racconto di Giancarlo Fusco sulla guerra d'Albania.
Peccato per le sbavature che corrono il rischio di affossare il film, film che va visto, non perché ultimo ruggito inascoltato di un leone ma perché parla di storia ed attualità insieme e nasconde tanta saggezza e tanta inquietudine in ogni sequenza; basta solo avere la pazienza di cercare.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 13/08/2007
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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