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Il regista Ryan Murphy con il film "Mangia, prega, ama" è al suo secondo lungometraggio. Ryan inizia la sua attività artistica come collaboratore della televisione, esordendo con dei lavori di sceneggiatura: scrive alcuni vicende dei telefilm "Popular" e di "Nip/Tuck" di cui è il creatore.
Debutta sul grande schermo realizzando "Correndo con le forbici in mano" (2006) con Annette Bening, Alec Baldwin, Brian Cox e Joseph Fiennes, un film drammatico con un inizio di dieci minuti ritenuto dalla critica cinematografica di grande interesse, per alcuni sfolgorante, e una trama ricca di tematiche interessanti; la pellicola viene però bocciata dalla stessa critica perché ritenuta troppo banale, zeppa di luoghi comuni sulla famiglia e su una certa America degli anni '70.
Con "Mangia, prega, ama" Ryan non va molto al di là del suo mediocre ultimo film, ma si può senz'altro dire che alcune cose funzionino meglio: ad esempio la fotografia cromatica del film, che colpisce per la grande raffinatezza significante dei suoi colori, molto costruiti ma anche ben ricercati e selezionati, comunque sempre coerentemente in funzione di un contesto scenico ben specifico, fermamente ricercato e voluto.
I colori sono presenti in una forma di grammatica visiva, in un'espressione linguistica particolare, e situati un po' dappertutto, dai vestiti dei numerosi personaggi ai ricchissimi interni, dai dettagli caratteristici di alcune città internazionali alle liturgie delle chiese di differente estrazione dogmatica, dalle stagioni al tipo di azione in corso, e comunicano realtà emozionali di diversa natura psicologica, culturale, etnica; sono capaci da soli di sostenere lunghi tratti della narrazione filmica per altri versi troppo ordinaria e scontata, oscurando addirittura, a volte, le conversazioni più stereotipate di Julia Roberts, come quelle sostenute all'estero con la gente del posto assimilando del luogo espressioni linguistiche banali, grossolane e un po' volgari.
Il film è tratto dal libro bestseller "Mangia, prega, ama. Una donna cerca la felicità" di Elisabeth Gilbert.
Liz Gilbert è anche il nome del personaggio protagonista del film, interpretato da una Julia Roberts non proprio in gran forma, dallo sguardo un po' irrigidito, teso, modulato da un riso e da un'allegria forzati, troppo recitati. L'attrice appare un po' spenta, carente di quella famosa esuberanza che la portava ad identificarsi, a volte del tutto, con numerosi personaggi da lei interpretati.
Nel passato Julia Roberts ha conquistato un pubblico molto vasto perché lasciava trapelare qua e là forme di passione reali per certi ruoli, acquisendo la caratteristica di diventare una star particolarmente vicina al suo pubblico, capace di penetrare, cosa rara, la parete divisoria della finzione filmica per entrare, attraverso l'apertura negli spettatori di un immaginario molto verosimile ai suoi film, nella sala della proiezione cinematografica e dialogare con il suo pubblico in un gioco di rimbalzi tra realtà immaginata e sogno, tenuti insieme dal suo carisma di star un po' familiare.
In questo film Julia Roberts appare professionalmente un po' provata dagli anni e forse da un cinema povero di idee, ripetitivo, quasi sempre da cassetta, incapace ormai di trasmettere la vera vita racchiusa in un romanzo, sia un bestseller sia semplicemente un libro che ispira delle idee filmiche.
Un cinema postmoderno che le sta procurando una sorta di disillusione, mettendo a nudo la sua comprensibile incapacità di adattarsi al ritmo e alla cultura di quel cinema. Una crisi per certi aspetti poetica, tipica nei veterani del cinema che hanno dai 40 ai 50 anni (la Roberts ne ha 43), una disillusione più comunicativa che etica, in un mondo del cinema che sfrutta la sua notorietà ma di cui lei non comprende più il linguaggio segreto, quello più professionale del presente, un cinema che la sta abbandonando gradualmente perché inidonea a ruoli assolutamente nuovi.
La Roberts intuisce ciò ma non può dirlo, e risulta psicologicamente abbattuta; il suo entusiasmo recitativo dei bei tempi si smorza irreparabilmente, inesorabilmente; prova ne sia questo film, forse a vantaggio di una sua più seria ricerca di valori autentici sia nella comunicazione che nel perfezionamento o aggiornamento professionale.
Come l'autrice del libro la protagonista del film si chiama Liz, è una bella donna sui 40 anni, elegante, benestante e colta, giornalista di successo, divorziata da tempo da un marito, Steven (Billy Crudup), ancora innamorato di lei. La donna improvvisamente precipita in un baratro psichico, con una forte incapacità a sostenere il ritmo quotidiano della vita, cade in una paurosa crisi di identità, e si accorge a un certo punto di percepire la città in cui vive, New York, come un blocco tutto omogeneo, immobile, fatto di pensieri e azioni, completamente straniante, che sovrasta la sua personalità più creativa, opprimendola, un mondo metropolitano affastellato da modi di vivere conformistici, da fotocopia, accomunati da principi e regole fallimentari o tediose, convenzionali o troppo condizionanti la libertà di espressione più profonda.
Liz decide allora di fare dei viaggi per il mondo, pensando che solo così avrebbe potuto trovare nuovi stimoli di vita.
Girando diversi Paesi e città all'estero, la donna scopre a poco a poco che sta nascendo in lei una disponibilità diversa verso le persone, e si lascia benevolmente attraversare da usi, costumi, modi di dire, anche volgari, che prima snobbava o non vedeva perché troppo presa da una vita borghese frenetica e senza senso.
Man mano che Liz prosegue il suo viaggio maturano in lei realtà oggettive nuove, inaspettate, diverse da quelle che immaginava prima di partire, rappresentate da pulsioni sempre più forti e costanti che arrivano al punto di farla oscillare tra due desideri di opposta natura: da una parte il voler permanere nella soddisfazione della piacevole scoperta di un mondo del tutto nuovo, appagante, che le ha dato un'identità precisa, soprattutto per i riconoscimenti affettivi e simbolici ottenuti dagli altri, spesso più umili, grazie alla loro appartenenza a culture diverse e alla sua grande disponibilità all'ascolto e all'azione solidale; dall'altra il desiderio più impetuoso di una passione amorosa, da un po'di tempo non presa più in considerazione, assopita, che si sta risvegliando quasi violentemente dopo il corteggiamento di alcuni uomini affascinanti.
Liz vive dapprima questi due aspetti come un contrasto insanabile, una sorta di bivio in cui occorrerebbe scegliere un'unica strada, ma che comunque sa già qualunque venisse scelta e intrapresa la porterebbe ad attuare rinunce dolorose.
La donna però trova a un certo punto, con l'aiuto di uno sciamano, in una sorta di improvvisa illuminazione, nuove formule elaborative sulla sua condizione di vita, molto efficaci, che non la costringeranno più a una scelta univoca ma le suggeriranno una soluzione logica precisa, ineluttabile, unitaria rispetto ai suoi due precedenti stati pulsionali vissuti separatamente.
Liz va incontro a nuove capacità di investimenti sentimentali, a risorse psichiche insperate, molto importanti che sembrano prometterle serenità e amore ma anche nuove ombre e una fatica di vivere del tutto diversa dalla prima, intesa come maggior impegno nelle più svariate attività sociali e individuali. Investimenti che risulteranno appaganti tramite più incrementi di energia, forse anche ricompositivi della sua psiche, ma stressanti.
Liz vedrà quindi dissolversi forse definitivamente il suo sintomo principale, responsabile della sua inquietudine post-divorzio, quello legato ad un oscuro senso di colpa nei confronti del marito, ancora innamorato di lei, e abbandonato senza un motivo di colpevolezza preciso, senza astio o rimproveri, come invece è consuetudine nella maggioranza delle pratiche di divorzio; un senso di colpa che la stava corrodendo tutta da tempo, forse per aver lasciato il marito semplicemente perché non lo amava più.
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Recensione a cura di Giordano Biagio - aggiornata al 01/10/2010 11.10.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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