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Piccola, delicata opera prima del giovanissimo regista valtellinese con un interessante passato da documentarista Vittorio Moroni, "Tu devi essere il lupo" è il classico esempio del malessere di cui soffre il cinema italiano. Girato fra moltissime difficoltà tra Sondrio, la Valtellina e Lisbona, questo lungometraggio ha rischiato di non vedere la luce perchè in Italia, a causa di un impianto legislativo di settore farraginoso, è difficilissimo, per un giovane autore poco noto o, ancora peggio, sconosciuto, trovare i fondi necessari per la produzione e la lavorazione di un film.
E non è tutto, perchè, una volta riuscito a girarlo, pur tra mille difficoltà finanziarie, diventa quasi impossibile trovare i finanziamenti necessari per poterlo distribuire, in quanto i fondi statali sono stati drasticamenti tagliati, condannando così all'invisibilità opere interessanti e artisticamente valide, a tutto vantaggio di operazioni supportate dalla notorietà televisiva, che talk show e reality show procurano a personaggi privi di un minimo di capacità artistica.
Il fatto di non aver trovato un distributore disposto ad accollarsi il rischio della distribuzione del suo film (come del resto accade a molti altri autori italiani poco famosi) ha costretto Vittorio Moroni ad attendere due anni prima di vedere proiettato in poche sale cinematografiche la sua prima opera registica.
Questo grazie alla Pablo di Gianluca Arcopinto e alla Myself, una sorta di associazione culturale cooperativa di promozione e autodistribuzione cinematografica, creata all'uopo, grazie all'impegno, anche economico, di tutti coloro che hanno preso parte alla lavorazione del film, regista, attori e tecnici inclusi, allo scopo di trovare i soldi necessari per finanziarne la promozione e la distribuzione.
Il lavoro di Vittorio Moroni ha comunque ottenuto lusinghieri riconoscimenti nei vari Festival del 2005, anno in cui è stato presentato, come quelli di Lecce, Annecy, Ajaccio, festival di "nicchia", più attenti alla "qualità" che alla popolarità dei blockbuster.
Tutto gira intorno alla metafora del "lupo cattivo", inteso sia nel senso di paura dello sconosciuto che tenta di inserirsi nelle nostre vite, turbandone certezze e sicurezze; sia nel senso di paura dell'ignoto, che ci limita nelle nostre azioni e nelle nostre decisioni e, impedendoci di crescere, ridimensiona la nostra capacità di percezione della realtà, della vita e del mondo: "Se vuoi diventare adulto devi vincere la paura e seguire il lupo".
Il lupo cattivo, metafora ancestrale di tutte le nostre paure e di tutte le nostre inquietitudini, nel film si materializza in tutti quei personaggi che tentano di entrare in quel microcosmo esclusivo che Carlo e Vale, un ragazzo e sua figlia, si sono costruito.
Carlo (Ignazio Oliva) è un giovane "ragazzo-padre" di Sondrio, tassista per necessità e fotografo per passione; Vale, sua figlia, (Valentina Merizzi) è una adolescente quattordicenne, inquieta e suscettibile.
Padre e figlia vivono un rapporto esageratamente intensivo e si sono creati un mondo a se stante, un mondo privilegiato ma fittizio, refrattario a chiunque tenti di penetrare nel granitico guscio che racchiude il loro elitario, gioioso, tenero universo, ricco di sfumature e di complicità, che tentano di mantenere inalterato esorcizzandone i cambiamenti e le evoluzioni.
Carlo ha cresciuto Vale con tanti sacrifici e con tanti problemi, ma anche con tutto l'amore di cui è capace un uomo, senza riserve e senza remore, fortificato da quel senso dell'essere padre, inaspettatamente padre, che prescinde dal fatto puramente genetico, per completarsi nella quotidianità e nella problematicità dell'accudimento, nel dare e ricevere amore, nell'apprensione che può dare quel senso di malinconica e ineluttabile inadeguatezza nel dover supplire una madre; ripagato dalla certezza che si sta cercando di dare ad un essere che ci appartiene, il senso della vita e l'opportunità di diventare adulto. Perchè Vale non ha una madre, e il suo mondo comincia e finisce con Carlo.
La madre, la compagna di Carlo, non c'è, forse è morta nel darla alla luce, o almeno così crede Vale.
Per questo l'amore che prova per suo padre è possessivo, morboso ed esclusivo, ed a nulla valgono i tentativi della sua migliore amica, Gio', di coinvolgerla in altri interessi e in altri affetti che non siano suo padre e il mondo che gira attorno a lui.
Dal canto suo anche Carlo, per paura di ferire la suscettibilità e suscitare la gelosia della ragazza, tenta di limitare al massimo i contatti con gli altri, riducendo nella quasi clandestinità, il suo rapporto con Elena, la sua amica più intima, forse la sua nuova compagna.
Da sempre il loro mondo è circoscritto alla loro casa e al taxi di Carlo.
Spesso Vale lo accompagna nei suoi spostamenti di lavoro; su quel taxi magico fa i compiti, ascolta musica, ne ha personalizzato l'interno riempendolo di ninnoli e di giocattoli e lo ha tappezzato con le foto scattate dal padre alla variegata umanità che se ne serve; nel taxi si esplicita la gioiosità della loro intesa, la complicità dei loro sguardi che rendono superflue le parole, ma si esplicitano anche le piccole incomprensioni tra di loro, le gelosie di lei, il senso di dolorosa impotenza e di fatalistica consunzione per la scelta estrema di lui, resi ancora più drammaticamente coinvolgenti dalla estrema magrezza del suo fisico e da quelle piccole rughe che gli contornano gli occhi e che rendono ancora più pudico il suo travaglio interiore.
Perchè Carlo non è il vero padre di Vale.
Ma un giorno a spezzare questo fragile equilibrio, da Lisbona si materializza nelle loro vite un'altra Valentina, la madre (Valentina Carnelutti) che Vale ha creduto morta.
Valentina è decisa a riappropriarsi della sua maternità, un tempo rifiutata, e dell'amore della figlia, quell'amore che non aveva saputo darle e che l'aveva spinta a fuggire e a lasciare a Carlo, al suo amore tradito, il frutto del suo errore, ormai lontano e dimenticato.
Questo improvviso e, per certi versi, temuto avvenimento turba moltissimo Carlo, che teme la reazione di Vale alla scoperta che sua madre non è morta e, peggio, che lui non è il suo vero padre, ma soltanto l'uomo che si è preso cura di lei, di una figlia non sua, una figlia amata forse anche in virtù dell'amore per la donna che l'ha messa al mondo, o forse per pietà verso due esseri tanto fragili quanto indifesi.
Ma Vale intuisce che qualcosa di strano turba suo padre, qualcosa di non familiare che lo allontana da lei, e che lei attribuisce alla sua relazione con la nuova compagna, e medita di fuggire lontano.
Ma sarà Valentina a fuggire via, conscia ormai che non può far rinascere un amore negato e riprendersi quella parte di vita perduta, negandosi alla maternità, facendo ritorno a Lisbona e al suo lavoro di marionettista, lasciando intatto quella strana famiglia senza madre e quello strano legame più forte di qualsiasi legame di sangue.
A Carlo, in un finale lirico e originale, il compito di continuare a crescere quella figlia non sua, ma amata, protetta, accudita come se fosse espressione di sè, e di ricostruire quel clima di serenità, che consente di amare comunque, a prescindere dai legami biologici e genitoriali, lasciando agli spettatori la consapevolezza che non tutte le ferite possono essere rimarginate, ma anche che non ci si può negare al mondo e che è necessario aprirsi ad altre storie, altri mondi, altre vite.
Un film, questo "Tu devi essere il lupo", di scottante attualità che si pone l'obiettivo di far riflettere su tematiche importanti quali il rapporto genitori/figli e pone il quesito se siano più forti (o prevalenti) i legami del sangue, oppure i legami che derivano dagli affetti costruiti nel tempo e dalla vita; se preminente la genitorialità biologica o la genitorialità legittima. Lasciando allo spettatore il compito di capire che, come in tutte le cose, e come succede nella improbabile famiglia di Carlo, è importante riuscire a raggiungere quel delicato equilibrio che la problematicità e la precarietà dell'esistenza accentua più che attudisce.
Raccontare una storia così intimista, così intessuta di malinconica quotidianità e di sentimenti emozionali, senza cadere nella retorica della melodrammaticità, è stata la scommessa vincente di Vittorio Moroni, perchè sapere raccontare una storia, soprattutto al cinema, è un'arte estremamente difficile e poco esplorata, anche da parte di autori di più lunga esperienza, a meno che non si tratti delle solite banalità che ci offrono le nostrane fiction tv.
Vittorio Moroni l'ha fatto con ricercatezza e pudore, ammantando di delicata poesia il racconto e di alto valore umano la magia delle immagini.
Il tono è rarefatto ma mai banale e mai morboso, errore in cui sarebbe stato facile cadere, considerando la tematica di quel rapporto di convivenza, tutto sommato, tra due estranei, i sentimenti sono sinceri e trascendentali e il pudore nel rendere l'intimità dei sentimenti tra padre e figlia, rigoroso e sincero.
Se un appunto si può fare all'opera prima di Moroni è quello di una certa debolezza della sceneggiatura, soprattutto quando tratteggia il carattere di alcuni personaggi, non adeguatamente sviluppato, come per esempio quello della madre, molto bello nella sua ricerca della maternità ma poco espresso nelle motivazioni di alcune sue scelte.
Molto incisivo il simbolismo favolistico (il lupo cattivo visto come espressione della paura dell'ignoto) e spaziale (Lisbona intesa come luogo rifugio aldilà del quale è impossibile fuggire).
Un plauso sentito a tutti gli interpreti, a cominciare dal bravissimo Ignazio Oliva, un giovane attore che ha scelto un percorso artistico non facile nè banale che lo porta ad impegnarsi in ruoli difficili in progetti difficili, che possono non attirare masse di spettatori, ma che soddisfano pienamente i moti interiori di coloro che sanno apprezzare soggetti che non soggiacciono alle mode.
Impressionante nella estrema magrezza del suo fisico che mette al servizio del suo tormentato personaggio a cui riesce a dare quel tocco di malinconica poesia, che si riverbera nella quotidianità del difficile del compito che si è assunto, nel sentimento di amore paterno che riesce a donare, nell'ansietà che l'assale quando capisce che quel rapporto di profonda intimità, faticosamente costruito con la figlia, potrebbe diventare aleatorio e sfuggirgli dalle dita.
Straordinaria la giovanissima Valentina Merizzi, debuttante di notevoli potenzialità, scelta dopo una lunga selezione per il non facile ruolo della figlia di Carlo.
Convince anche Valentina Carnelutti, molto brava nel tratteggiare il ruolo della madre, protesa in quella ricerca, tutta interiore, di dare un senso alla sua maternità un tempo negata.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 17/06/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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