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"Io penso che per contrastare l'immigrazione clandestina non bisogna essere buonisti ma cattivi, determinati, per affermare il rigore della legge".
Si sarebbe propensi a credere che nessun essere umano dotato di un minimo di raziocinio possa mai fare una dichiarazione del genere; poi ci si sveglia una mattina e si apprende che tali parole sono state pronunciate da un esimio Ministro della nostra Repubblica, nel 2009.
E allora la tua mente corre veloce, e ricordi che c'è il sindaco di una nobile città del NordEst (che in tempi appena trascorsi tante braccia ha fornito all'immigrazione italiana) che ha fatto rimuovere le panchine dai parchi pubblici, per impedire agli immigrati senza tetto di sedersi ad "oziare tutto il giorno".
E poi rammenti che una distinta signora che amministra una grande città del Nord, invocando emergenze inesistenti, si è molto adoperata per far sgomberare un campo abitato da circa 200 rom (in maggioranza donne, vecchi e bambini) di nazionalità rumena, mandando le ruspe del Comune a radere al suolo l'accampamento, per continuare l'opera, il giorno dopo, facendo sgomberare con la forza la ex caserma dove alcuni di loro si erano rifugiati.
E poi ti sovviene che gli abitanti di un ridente paesino "padano" hanno deciso di trascorrere un "White Christmas". No! non un Natale nella più classica delle tradizioni nordiche, con tanto di neve, slitte e Babbi Natale. No! proprio un "Natale di razza bianca", nel senso che cacceranno via tutti i neri (e gli irregolari) che risiedono nel loro paese, per trascorrere le festività all'insegna dell'incontaminata cultura lombarda, e al riparo dall'inquietante presenza di miscredenti che possano turbare il mistico taglio del panettone.
E allora rifletti che, se ancora non è stato colmato il divario Nord-Sud, che, se si guarda ancora con disprezzo ad una parte del nostro paese (salvo poi andarci a passare le vacanze estive), che, se il termine "terrone" viene ancora usato con intenti dispregiativi, forse il razzismo che ha attecchito nel nostro paese ha radici più profonde di quello che vogliamo credere, forse ce lo portiamo dentro come eredità del regime autoritario che figura nel nostro passato, o forse è l'idea che abbiamo di essere il centro del mondo, che si accompagna all'idea di essere superiori agli altri, senza immaginare che invece sono proprio le persone più fragili che hanno bisogno di attaccarsi all'identità personale.
Come se il vivere fosse difendersi dagli altri.
Poi arriva un film e scopri un quadro inquietante (se questa può essere una consolazione): scopri che non siamo da soli, che c'è chi ci fa ottima compagnia, che non ci fa vergognare fin dentro il profondo e non ci fa sentire gli unici in preda della barbarie.
Guardi i telegiornali e scopri che oltralpe non si permette la costruzione di qualche minareto (decisione che fa indignare perfino il Vaticano), e apprendi che anche nella Francia di Sarkozy la clandestinità è un reato, e che coloro che aiutano un extracomunitario irregolare rischiano pesanti sanzioni penali.
Se tutto tace, se le coscienze si sono assopite riguardo un problema che riguarda da vicino la nostra umanità, tocca ancora una volta alla cinematografia farsi carico di un messaggio di solidarietà e accoglienza, che diventa un messaggio di armonia verso noi stessi.
Philippe Lioret, autore del film-caso "Welcome", si è assunto questo compito, perché, dice: "Non c'è tempo da perdere, è importante fare oltre che pensare, e ognuno può dare il suo contributo, da politico, da uomo della strada, da artista, perchè nei prossimi anni una miriade di emigranti sarà sulle strade del mondo. La gente è poco informata, e in Francia (come del resto in Italia - ndr) l'unica legge che abbiamo contribuisce a peggiorare la situazione".
Ed è ciò che succede in questo film, in cui un istruttore di nuoto decide di aiutare un giovane sans-papier, e la polizia interviene per punire l'uno e l'altro.
Il film è ambientato a Calais, un luogo dove la speranza diventa disperazione per i tanti clandestini che fuggono dal sud del mondo. Un luogo dove si raccolgono i diseredati della terra, che hanno attraversato fortuitamente mezza Europa e ora sono in attesa che qualcuno o qualcosa li aiuti a superare la Manica per raggiungere l'Inghilterra, la nuova terra promessa, il nuovo Eldorado, ignorando, evidentemente, che lì c'è stata la Thatcher (un po' come coloro che vengono in Italia e ignorano che qui ci sono la Lega e Berlusconi).
Il film di Lioret denuncia non chi ha voluto questo stato di cose, ma le sue devastanti conseguenze, e per questo focalizza il suo racconto su una emozionante storia d'amore e di amicizia, di dolore e di tenerezza, di pregiudizi e di coscienze.
"Welcome" racconta la storia di due solitudini dolenti: quella di Simon, un maturo istruttore di nuoto, incasinato nei sentimenti e disilluso dalla vita, e il giovanissimo Bilal, un diciassettenne immigrato iracheno di etnia curda.
Il ragazzo ha lasciato il proprio Paese, in fuga dalla guerra e dalla paura, ma principalmente per raggiungere la sua fidanzatina emigrata con la famiglia in Inghilterra, prima di essere costretta a sposare il fidanzato-cugino impostole dal padre.
Per far questo intraprende un lungo viaggio attraverso l'Europa, per arrivare in Francia, dove la vita degli immigrati irregolari è stata resa veramente dura dalla politica di Sarkozy, nell'inferno di Calais, dove altri disperati come lui aspettano l'occasione propizia per riuscire ad attraversare la Manica e raggiungere quelle che una volta erano "le bianche scogliere di Dover".
Un primo tentativo di varcare il confine, insieme ad altri clandestini, nascosto sul retro di un camion, rischiando il soffocamento con il sacchetto di plastica che lui stesso si è calato in testa per proteggersi dai gas di scarico e per eludere i rivelatori di presenze dei poliziotti, fallisce a causa dell'intervento dei cani della polizia di frontiera, perchè non è riuscito a sopportare il sacchetto di plastica che per lui rappresenta il ricordo dei giorni di detenzione e torture passati in un carcere turco, Spedito davanti ad un giudice, non può essere rimpatrito a cusa della minore età, ma si busca una severa diffida dal tentare di ripetere l'impresa.
Fallita la traversata su ruote Bilal si convince che l'unica possibilità concreta per tentare di raggiungere la Gran Bretagna, e la ragione del suo desiderio, è quello di attraversare a nuoto il canale.
Per riuscire nell'impresa, però, ha bisogno di imparare a nuotare e di un duro allenamento per essere in grado di affrontare 10 ore di traversata e il freddo delle acque della Manica. Si presenta allora alla piscina comunale di Calais, dove conosce Simon, l'istruttore di nuoto.
L'uomo ha abbondantemente superato la quarantina ed è stato campione francese di nuoto, ma le delusioni della vita, che gli si leggono in ogni piega del suo viso, lo hanno infiacchito al punto che non è riuscito neppure a trattenere, Marion, la donna cha ama e che lo sta lasciando.
L'incontro con Bilal, il suo coraggio, la sua determinazione nel tentare il tutto per tutto pur di riuscire a raggiungere il suo obiettivo, poco alla volta convinceranno Simon ad esporsi oltre ogni prudenza, cominciando a prendersi cura di lui, ospitandolo in casa come un figlio e facendosi denunciare alla polizia, ma riconquistando il rispetto della moglie, che lavora per un'organizzazione umanitaria a favore dei rifugiati, allorquando si accorge che l'ex marito sta aiutando un clandestino.
Il finale, forse un po' troppo drammatico, lascia l'amaro in bocca e un groppo nella gola, ma tocca la corda dei sentimenti.
Diventato un caso in Francia, dove ha scatenato un fiume di polemiche e ha fatto infuriare il Ministro dell'immigrazione e dell'identità nazionale (ministero creato ad hoc da Sarkozy), "Welcome" (titolo chiaramente ironico e provocatorio, che riprende la scritta sullo zerbino posto sull'ingresso dell'appartameto del vicino di Simon, un individuo odioso e canagliesco che non si fa scrupoli di denunciare alla polizia il suo dirimpettaio) è un film vibrante e pieno di umanità, ma anche un documento di grosso impatto sociale.
Scelto per la serata inaugurale della sezione "Panorama" del Festival di Berlino 2009, il lungometraggio di Lioret riesce a coniugare brillantemente il politico e il sentimentale, mettendo in scena le forme di razzismo, che, neanche tanto sotterraneamente, serpeggiano in Francia (oltre al citato episodio del vicino di casa c'è la scena cruenta dello sgombero forzato degli immigrati nei pressi del porto e poi quella dell'addetto al supermercato che impedisce a due immigrati di entrare nel negozio), che si contrappongono alle struggenti storie d'amori impossibili dei due protagonisti (l'amore sofferto e tenace di Bilal per la sua Mina e quello dolente e sfiorito di Simon per la moglie ormai distante).
Simon e Bilal sono speculari l'uno a l'altro, due esseri umani l'uno di fronte all'altro, nudi nell'anima naufraghi dei sentimenti, ma uniti dallo stesso rimpianto per l'amore perduto o per l'amore lontano, che è poi la stessa cosa: il fallimento sentimentale dell'uno, "che non ha saputo attraversare la strada per fermare sua moglie", amplifica e riflette la forza interiore dell'altro, deciso a tutto pur di salvare il suo amore; il dramma del ragazzo in fuga dalla guerra e da una vita senza futuro, si rispecchia nel naufragio della vita di Simon, che ha perso radici e senso etico.
A dominare la scena però è la bruciante attualità del tema che fa da sfondo alla vicenda: la discriminazione razziale e le conseguenze della legge francese sull'immigrazione con i suoi meccanismi repressivi, che il regista, con un paradosso (come lui stesso ha tenuto a precisare) ha paragonato alle persecuzioni ebraiche del '43. Una realtà poco conosciuta o addirittura ignorata, fatta di disperazione e ingiustizia, di lotte contro le paure più profonde, di sfida contro una legge ignobile e assurda, di ribellione contro la fame, le persecuzioni e le guerre.
"Welcome" racconta veramente una storia difficile, alla quale le scelte stilistiche del regista conferiscono un forte accento di verità, grazie anche ad una fotografia che, prediligendo i colori blu- azzurrini, sospesi tra il malinconico e lo spettrale, riesce ad imprimere un costante senso di disagio e accentua la sensazione di sentirsi immersi con Bilal nel freddo gelido delle acque della Manica.
Il rapporto che si instaura tra Simon e Bilal è caratterizzato da dialoghi brevi, spesso bruschi. Poi man mano che il progressivo interessamento alle sfortune del ragazzo si fa più intenso, anche il dialogo cresce d'intensità e si fa più pacato sia negli sguardi che nei gesti, forse per quella voglia di paternità negata, forse per il coraggio ritrovato di avere rispetto per un altro essere umano, o forse per la volontà di aiutare Bilal che è anche la volontà di ritrovare se stesso, la sua umanità, i suoi sentimenti.
Simon è affidato al talento artistico di Vincent Lindon (in forma smagliante e probabilmente nella sua migliore interpretazione) che, con quei suoi occhi allargati dalla tristezza, riesce ad imprimere al suo personaggio tutta la forza e la sensibilità che il coinvolgimento emotivo ad un tema e ad una giurisdizione giudicata insopportabile, richiedono. Il successo dell'opera in Francia, secondo l'attore, è da attribuire alla cattiva coscienza degli spettatori, che "accorrono a vedere il film per consolarsi di aver votato male alle elezioni presidenziali del 2007".
Bilal ha il volto pulito, fresco ed espressivo del giovanissimo curdo Firat Ayverdi, scoperto proprio in Francia da Lioret, dopo lunghe ricerche in varie parti d'Europa dove vivono grandi comunità di curdi. Ovviamente il giovane Ayverdi non era un professionista e le prime prove sono state quantomeno inusuali, ma "la sua intensità ed autenticità hanno fatto la differenza", come ci tiene a precisare il regista.
"Vuole attraversare la Manica per rivederla e io non riesco ad attraversare la strada per fermarti".
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 14/12/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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