riflessi sulla pelle regia di Philip Ridley Gran Bretagna 1990
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riflessi sulla pelle (1990)

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locandina del film RIFLESSI SULLA PELLE

Titolo Originale: THE REFLECTING SKIN

RegiaPhilip Ridley

InterpretiJeremy Cooper, Viggo Mortensen, Lindsay Duncan

Durata: h 1.39
NazionalitàGran Bretagna 1990
Generedrammatico
Al cinema nel Giugno 1990

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Trama del film Riflessi sulla pelle

Seth è un bambino di nove anni che vive con i genitori in una casetta persa nell'immensità della pianura canadese. Attorno a lui accadono avvenimenti drammatici e tragici che il piccolo protagonista comprende secondo la propria sensibilità, suggestionata e inquieta. Il suo passo d'addio all'infanzia è costituito da emozioni profondamente sconvolgenti.

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Voti e commenti su Riflessi sulla pelle, 31 opinioni inserite

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  Pagina di 1  

kafka62  @  18/02/2018 17:37:46
   8½ / 10
"Riflessi sulla pelle" è l'opera prima di Philip Ridley, già autore dell'interessante cortometraggio "L'universo di Dermott Finn", girato per Channel Four. Voglio dire subito che raramente un debutto alla regia ha dato in passato risultati più promettenti di questo. Senza bisogno di scomodare gli illustri – e un po' ingombranti – precedenti di Welles, Godard, Malle o Polanski, con "Riflessi sulla pelle" ci troviamo inaspettatamente di fronte a una pellicola incantevole, ambiziosa e tecnicamente perfetta, tanto più straordinaria se si pensa che in Italia operine d'esordio senza infamia e senza lode, come "Domani accadrà", "Piccoli equivoci" o "Americano rosso", erano state acclamate come un'irripetibile occasione di rinascita per l'asfittico cinema nazionale di quegli anni. Per avere una conferma del valore artistico del film è sufficiente soffermarsi sulle sue qualità cromatiche. Gli sconfinati spazi del Sud degli Stati Uniti che fanno da sfondo alla storia sono già di per sé dotati di una incontestabile fotogenia, ma Ridley, pignolo e perfezionista fino all'eccesso (o forse memore dei corsi di pittura frequentati alla Saint-Martin's School of Art di Londra), è arrivato addirittura a far "ricolorare" di un giallo brillante un intero campo di grano, quello che circonda la casa di Dolphin, per ottenere l'effetto desiderato. Il film viene pertanto ad assumere delle forti dominanti cromatiche, che non sono affatto casuali, ma al contrario organizzate a tavolino prima delle riprese, per assecondare la spiccata sensibilità figurativa del regista. Il giallo intenso del grano si combina così con l'azzurro nitido del cielo o con il rosso del sole al tramonto, realizzando delle tavolozze coloristiche di grande fascino visivo. Certe scene girate al tramonto (su tutte l'immagine finale di Seth che corre con la palla rosso fuoco del sole alle spalle) sono di una bellezza estremamente suggestiva, ma altrettanto raffinate sono le sequenze girate negli interni, dove stanze in penombra vengono letteralmente violentate da fasci di luce calda e sensuale, riproducendo in chiave fotografica i chiaroscuri tematici del film.
Ridley è un autore vero, in possesso di una assoluta padronanza del mezzo cinematografico. I suoi carrelli e i suoi dolly sono usati in maniera innegabilmente effettistica, ma non sono mai pure esibizioni di virtuosismo tecnico, al punto da far venire in mente da una parte Peter Weir, per la comune propensione verso le atmosfere arcane e indecifrabili, e dall'altra David Lynch, per le situazioni morbose e i personaggi al limite del grottesco. Ridley è capace di costruire inquadrature insolite ed originali (ad esempio, il viso dell'autista della Cadillac nera che parla a Seth dallo specchietto retrovisore), di inventare attacchi di sequenze a comprensione non immediata (un'inquadratura completamente bianca si rivela un lenzuolo steso ad asciugare, dietro al quale compare la madre di Seth), di creare quasi dal nulla una tensione violenta e intollerabile (utilizzando a piene mani la coinvolgente musica di Bicât per sottolineare drammaticamente snodi e passaggi cruciali della vicenda) e di esaltare lo spazio americano (vaste distese di erba e di grano, strade polverose che si perdono all'orizzonte, bianche case di legno a due piani), integrandolo alla perfezione con gli elementi gotici e orrorifici della storia.
"Riflessi sulla pelle" è infatti a tutta prima un inquietante ed angoscioso horror (para)psicologico. Nel piccolo e sonnolento paese, che sembra uscito da uno dei tanti quadri di Hopper o da una commedia di Shepard, tre inspiegabili omicidi sconvolgono il quieto vivere della comunità, scoprendo il formicaio che si nasconde sotto la irreprensibile e tranquilla superficie: le madri si rivelano sadiche e folli, i padri custodiscono vergognosi segreti, ricordi di mariti suicidi o di esperimenti atomici turbano la psiche delle giovani generazioni, e gli stessi bambini, costretti a vedere imperturbabili i loro genitori appiccarsi il fuoco come dei bonzi, non sono più innocenti degli adulti. Ridley si immerge in una materia chiaramente sovrabbondante ed eccessiva, ma lo fa con un grande senso della misura. Da una parte egli contamina la storia con un umorismo nero tipicamente britannico (penso allo sceriffo Ticket, una sorta di caricatura del capitano Achab, o al "vampirismo" esibito di Dolphin), dall'altra sceglie di conferire ad essa un'ambiguità molto simile a quella del celebre "Giro di vite". Come Henry James, così Ridley non fa capire cosa è reale e cosa è invece frutto della fantasia esaltata e visionaria del bambino protagonista. Ad esempio, la misteriosa Cadillac nera che compare nei momenti in cui massima è l'eccitazione di Seth è vera o immaginaria? E se anche si propende per la seconda ipotesi, bisogna pur sempre tener conto delle tre misteriose morti che in qualche modo coinvolgono (come intuisce lo sceriffo) il giovane protagonista. E' forse egli dotato di strani e inspiegabili fenomeni di premonizione? Oppure è egli stesso a provocare, chissà come, la morte degli amichetti e della donna? Ridley non dà alcuna spiegazione utile a sciogliere l'arcano, ma preferisce raccontare l'intera vicenda filtrandola soggettivamente attraverso lo sguardo ingenuo e suggestionabile di Seth. Davanti ai suoi occhi, oggetti e corpi assumono una consistenza magica e "altra": la fiocina, il feto del neonato (che i bambini credono essere un angelo caduto in terra), la fotografia del bimbo la cui pelle è diventata, a causa delle radiazioni atomiche, lucida come l'argento, sono componenti di un universo in cui Ridley si lascia scivolare con totale disponibilità di immaginazione (pur senza rinunciare alla verosimiglianza realistica) e che sta a metà strada tra un incubo dell'inconscio e una favola gotica alla Karen Blixen.
Il terrore, sembra suggerire Ridley, è una particolare attitudine dello sguardo o della mente. Seth accumula avidamente sensazioni, le ingigantisce e finisce fatalmente per "immaginare". E' lo stesso itinerario che in fondo percorre anche il regista, il quale si abbandona a tutte le stimolazioni (visive, sonore, ambientali) che possono venire in suo soccorso, al fine di creare un secondo, superiore, livello di realtà, vale a dire una realtà trasfigurata, non mediata né dalla ragione né dalla cultura. Calandosi nel mondo dell'infanzia, alla ricerca di entità e di forme (espressive e non) ancora da plasmare, Ridley non raggiunge nessuna conclusione narrativamente compiuta, ma ci sazia ugualmente con le sue suggestioni, mostrandoci altresì – e non mi sembra un pregio di poco conto, vista l'impegnatività del tema sfiorato, quello dell'innocenza perduta – come un ambiente ossessivo, perverso e morboso faccia dei bambini, questi piccoli e incolpevoli spettatori della realtà quotidiana, dei mostri terribili e spaventosi.

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