Povero Ridley Scott. Il tuo “
Prometheus” è squilibrato, modesto, ridicolo sotto vari punti di vista. Non funzionano né i personaggi né alcune situazioni. Ma di questo hanno già parlato legioni di critici e spettatori. Però. A parte questo. In nome di quale ragione commerciale, Ridley, hai ritenuto di poter sporcare la faccia a uno dei tuoi due unici veri capolavori, accettando la sceneggiatura di Jon Spaihts e Damon Lindelof, che è così spudoratamente
reazionaria? Non è la prima volta che fai un film criptatamente politico. Ma doveva essere proprio così biecamente nostalgico verso gli Stati Uniti di Bush? “Prometheus” è repubblicano sino al midollo. E, in questo momento, anti-Obama. Ottuso, gretto, è stato concepito da menti che stanno agli Stati Uniti progressisti come il Kowalski all’inizio di "
Gran Torino” sta al Kowalski che si immola nel finale del film di Eastwood del 2008. Anti-democratico, “Prometheus” è tristemente anti-idealista. E anti-“
Avatar”.
Di solito mi guardo dal manicheismo: ma in questo caso voglio essere manicheo. "Avatar" è altrettanto politico di “Prometheus”. Ma “Prometheus”, oltre a essere fatto parecchio male, è intriso di negatività e pessimismo, e – ciò che è peggio – se ne compiace. “Avatar” è un film meraviglioso, innovativo se non altro tecnicamente, ma soprattutto regala un sentimento di speranza coniugato a valori molto importanti*: “Prometheus”, oltre a utilizzare il 3D in maniera completamente insulsa (il 3D che proprio “Avatar”, nel bene e nel male, ha sdoganato) deliberatamente distrugge ogni speranza, e nemmeno ci regala la soddisfazione di spiegarci perché.
Elizabeth Shaw e Charlie Holloway sono descritti come due ingenui idealisti che credono nelle favole: l’universo là fuori non è popolato da alieni che potrebbero insegnarci quell’armonia che la genìa umana ha perduto, ma bramano solamente di distruggerci come fossimo un fastidioso formicaio. “Prometheus” si rivolta sadicamente contro quello spettatore che, credulone, si era illuso di poter contare su una trama diversa, ricca di chissà quali rivelazioni, dopo quell’incipit prometeico che rimane irrisolto e avulso rispetto agli sviluppi della trama. “Prometheus” è un film oscuro, che è rimasto fermo al cinema di fantascienza degli anni ’50: in piena guerra fredda, quando gli alieni erano cattivi e ci volevano distruggere. Il che, oggi, equivale un po’ a fare un film western in cui gli indiani siano collezionisti di scalpi: potrebbe funzionare solo come parodia (ciò che nella fantascienza fece Tim Burton con “
Mars attacks!”). E non mi si dica che pure “
Alien” era sostanzialmente fermo a quel tipo di fantascienza, perché in "Alien" non c’era alcuna intelligenza nemica che volesse la nostra distruzione, e la denuncia sottesa al film era piuttosto contro le logiche distorte che presiedono spesso le scelte compiute dagli uomini: la Compagnia aveva tenuto l’equipaggio all’oscuro dello scopo della missione (introdurre l’alieno a bordo, per fini militari). “Prometheus” deliberatamente ignora oltre quarant’anni di cinematografia hollywoodiana, da “
Piccolo grande uomo” ad “Avatar” passando per “
Incontri ravvicinati del terzo tipo” e
Balla coi lupi.
Ne esce un film che, ad ogni modo e comunque la si pensi, resta squilibrato, modesto, ridicolo e patetico. Non so come fare per accontentarmi del baraccone. Non so che farmene, di questo baraccone. Ma so che, se Bush non avesse vinto le elezioni del 2000 (coi brogli in Florida), probabilmente il XXI secolo sarebbe cominciato in modo diverso. E di questo stiamo ancora scontando tutti le conseguenze. Un film non è mai solo un film. Specie se è un blockbuster.
* sul mio alto concetto di Avatar rimando al mio
commento al film Il buon
Bernardo sembra avere trovato nuovo smalto in vecchiaia, complice una sedia a rotelle.
Guardando il mondo dal pavimento, l'impotenza fisica seda l'irruenza pulsionale, pone limiti, cerca strade alternative, trova nuove canalizzazioni creative.
"Ho appena finito di girare il film e ne vorrei subito girare un altro" - dichiara il regista.
La nuova limitata prospettiva spossa meno e sembra alimentare un sentimento nuovo.
Jacopo Antinori e Tea Falco in una scena di "Io e te", in uscita nelle sale il 25 ottobre
In "
Io e te" le tematiche tipiche del cinema di Bertolucci vengono trattate in maniera inusuale. La leggerezza spodesta la morbosità, l'incesto viene solo sfiorato, l'affetto prende il posto del 'muro' pulsionale. Strepitosi i due giovani attori, rappresentanti due solitudini speculari. Il blocco soggettivo, interpretato nelle opposte reazioni attrattive, genera quella 'pietas' che illumina di colori lo scantinato buio. La regressiva e distruttiva 'trappola per topi' non funziona più.
La gabbia é aperta, la belva non più feroce.
Mark Cousins è un genio. Mark Cousins è un pazzo. Mark Cousins è l’autore di un documentario di 15 ore sulla storia del cinema, che si chiama “The Story of film”: prodotto per il canale televisivo More4, presentato al Toronto Film Festival, è ora in alcune sale italiane, distribuito dalla Bim (Dio li benedica), e il 4 dicembre prossimo sarà disponibile in dvd. Un cofanetto di 5 dvd che non vedo l’ora di acquistare.
Vedere il film al cinema è un po’ complicato. Come si fa a distribuire un film di 15 episodi? Un po’ come Heimat, lo si proietta a puntate. Siccome ogni episodio dura un’ora, il film è stato suddiviso in sette parti (sì, l’ultima dura 3 ore), ciascuna delle quali esce la settimana successiva alla precedente. Il problema è che il film viene proiettato soltanto una sera alla settimana, in pochissime sale di nove città italiane (nella maggior parte delle città la prima parte, comprendente i primi 2 episodi, è stata proiettata martedì 25 settembre scorso. A Firenze la proiezione è stata anticipata di una settimana; a Mestre slittata di una).
Ora vi starete chiedendo, perché non si sia pensato bene di distribuire direttamente in qualche canale televisivo un’opera del genere. Al di là degli ovvi motivi di ordine finanziario (“The story of film” evidentemente non interessava a nessun canale televisivo nostrano…), le ragioni sono qualitative. Il lavoro di Mark Cousins è di valore superiore.
E’ per questo che attendo con impazienza l’uscita del cofanetto.
Ho potuto vedere due episodi in anteprima, ed è stato un trip. O, se preferite, un orgasmo cinefilo.
Mark Cousins reinventa la storia del cinema tradizionale, guidato da due parole chiave: innovazione e ribellione. Per raccontare il nuovo cinema americano degli anni ’70, per dire, non comincia dove ogni manuale di storia del cinema comincerebbe – cioè da Coppola, da Scorsese, dalla factory di Corman o da “
Gangster Story”. I mostri sacri del New American Cinema li lascia per ultimi, e non ci fa vedere “
Il Padrino”: semmai “
Taxi driver”. Ma lui inizia dalla satira (da “
MASH” e “
Comma 22”), prosegue con la contestazione e con il cinema dei neri d’America (appassionandoci a Charles Burnett e al suo “Killer of sheep”). Infine si dedica a un’intervista a Paul Schrader, con il quale discute – fra le altre cose – della citazione con cui “
American gigolo” omaggia nel finale “
Pickpocket” di Bresson…
A proposito delle interviste: c’è da dire che il documentario di Mark Cousins in questo è molto lontano dall’impianto dei documentari tradizionali. Poche le interviste, molte le scene girate direttamente da Cousins stesso sui luoghi del cinema (decine di paesi esplorati, in sei continenti), adattando il proprio stile a quello del cinema e dell’epoca di cui sta parlando, per suggerire anche attraverso le immagini – di grande sensibilità, peraltro – e rendere più agevole la comprensione del discorso che, di volta in volta, conduce.
A parte le scene girate direttamente da Cousins, però, a farla da padrone è il cinema stesso, attraverso le circa mille scene di film scelte da Cousins. “The story of film” è un condensato di storia del cinema che si mostra: se per Hitchkock il cinema era la vita senza i momenti noiosi, il monumento eretto da Cousins alla storia del cinema è una sorta di trailer di 15 ore del cinema tutto, di tutti i tempi e di tutte le latitudini. Senza i momenti noiosi.
In più, come dice Cousins, “parlare con Baz Luhrmann della scena dell’acquario in Romeo + Giulietta e poi montare la sua voce sulla sequenza dell’acquario è qualcosa di molto più intimo e vicino al film, che non limitarsi a scrivere di quella scena”.
La cosa più bella di tutto ciò è l’equilibrio formidabile tra capacità di “insegnamento” e capacità di coinvolgimento. Durante i due episodi che ho visto, non ho avuto un momento di noia, un sussulto di impazienza o una fase di smarrimento. Quando Cousins ti parla di film che ami o che comunque conosci, ti sollecita nuove suggestioni e ti apre una prospettiva, uno sguardo ulteriore. Quando Cousins si addentra in territori a te poco noti o del tutto sconosciuti, si lascia seguire perfettamente, pur con un ritmo sempre incalzante (e mai prolisso). Quel che ti rimane è la sensazione che, prima di aver avuto la fortuna di imbatterti in “The story of film”, conoscevi molto meno di quel che credevi, e, insieme a questa, la sensazione di avere di fronte un universo ancora inesplorato. E, per di più, con sottomano le mappe per orientarti, e i percorsi da seguire.
Affascinante.
Lo stile di Cousins va di pari passo alla sua strabordante cinefilia: appassionato, e allo stesso tempo lucido, è per lo più distante dall’accademia, incentrato com’è sui due pilastri portanti costituiti dalla “ribellione” e dall’ “innovazione” (che meraviglia il discorso sulla profondità di campo, nel quinto episodio!, con fior fior di scene che esemplificano quello che la voce narrante spiega, o per meglio dire scene nobilitate e rese trasparenti, nei loro valori formali, stilistici ed artistici, mentre la voce fuori campo te li illustra!).
Che altro ancora dire? In attesa di riparlarne a visione completa, qualche dato di produzione, che soddisfa la curiosità di chi, come me, si è chiesto come diavolo abbia fatto questo genio, questo pazzo nordirlandese di Belfast, a realizzare un lavoro simile. Cousins di persona è un ragazzo simpaticissimo, che assomiglia un po’ a Morrissey, dalle osservazioni acute e stimolanti, e dal ciuffo riccio, che sprizza da tutti i pori la sua passione per il cinema (all’intervista con la stampa si è presentato con una t-shirt con su scritto “cinephile”). Leggo le sue note biografiche: tutto è nato da un libro, “The story of film” appunto, risalente ai primi anni 2000, scritto di getto in undici mesi: un libro privo di troppi tecnicismi (e ci credo, visto che anche il film parla un linguaggio assai semplice e fruibile anche dai “non addetti ai lavori”), e destinato al grande pubblico. …Spero sia presto tradotto anche in Italia.
Nel 2005, a Cousins fu proposto di girare un documentario a partire dal suo libro: quello che inizialmente era già un ambizioso progetto della durata preventivata di tre ore, nel corso dei suoi oltre cinque anni di gestazione è lievitato a quello che vediamo adesso, ossia il primo documentario integrale che illustra la storia del cinema attraverso i film.
Delirante, forse, nella sua ambizione di concentrarsi “enciclopedicamente” sull’insieme, ma pur sempre qualcosa che - mi pare - non era stata ancora mai tentata da nessuno, sotto questa forma. E, quel che più conta, è un’operazione completamente riuscita. E se così è – e diavolo se lo sembra, dai due episodi che ho visto – lo è grazie non solo al talento e alla competenza, all’originale intelligenza del suo autore. Che saranno tante finché si vuole: ma, come dice proprio Cousins, il suo “è un atto d’amore per il cinema”.
Un atto d’amore che innamora.
PS: qui trovate la lista completa del migliaio di film che potrete vedere, guardando “The story of film”.
Ordinati per episodi.
Come abbiano fatto davvero con i copyright, non me lo chiedete.
Lo scorso 4 ottobre ha preso il via l'iniziativa di unificare le uscite cinematografiche a livello nazionale al giovedi' in maniera da poter allungare i fine settimana per favorire gli esercenti cinematografici. L'avvio a tale novita' e' stato dato da
Ted di Seth MacFarlane. Il papa' dei Griffin porta sul grande schermo un volgare, ironico e divertente teddy bear. Il compagno di giochi per eccellenza di ogni bambino americano (qui totalmente snaturato dal motivo per cui e' stato creato) si trova ad essere il maggiore ostacolo per la maturita' del protagonista umano del film interpretato da Mark Wahlberg. Il film e' nella prima parte trascinante sia nei dialoghi sia nel ritmo ed e' impossibile trattenersi dalle risate. La seconda parte scade spesso in un buonismo irritante senza pero' perdere totalmente la verve iniziale. La cosa davvero coinvolgente e' stata vedere e vivere una sala affollata che applaudiva ad ogni promozione lavorativa ottenuta dal volgare peluche ed a qualsivoglia battuta antisemita, razzista o rivolta alla tragedia dell'11 settembre; come se solo attraverso
Ted lo spettatore riuscisse ad ironizzare sulle proprie sfortune ed a liberarsi dal proprio benpensante involucro troppo borghese.
Dopo aver appestato il festival di Cannes con la proiezione di mezzanotte e dopo essere sbarcato tra le pernacchie al Fright Fest di Londra, il nuovo film di Dario Argento ha una data di distribuzione in sala anche qui da noi.Il 22 novembre avremo l'onore di ammirare su grande schermo le gesta della mantide religiosa realizzata con il commodore 64 del nipotino Giggetto e un'Asia Argento al massimo delle sue capacità recitative, come si evince anche dal documento fotografico numero 1. Il fotogramma del millennio.
Dracula 3d segna il ritorno di Dario Argento dietro la macchina da presa (in questo caso una Alexa) dopo il disastro imbarazzante di
Giallo
Oltre alla figlia Asia, fanno parte del cast Rutger Hauer nel ruolo di Van Helsing e Thomas Kretschmann in quello del Conte. Alla base del film dovrebbe esserci il tentativo di riportare in auge un tipo di horror classico, sullo stile della vecchia Hammer. Purtroppo il trailer e le prime reazioni di pubblico e critica portano in tutt'altra direzione.
Distribuisce la Bolero, con estremo coraggio e sprezzo del pericolo.