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The Lords of Salem

Pubblicato il 02/05/2013 10:37:08 da L.P.


Ecco fatto. Dopo anni di dubbi laceranti, infuocati dibattiti e angosce esistenziali, possiamo finalmente giungere a una conclusione: Rob Zombie è una bufala. Amen e così sia. Quello che molti ancora si ostinano a spacciare per un autore coraggioso, investito del compito di riportare in auge il cinema dell'orrore duro, puro e senza compromessi, è in realtà un adolescente strafatto in tempesta ormonale che gira un'ora a trentasei minuti di immagini sconnesse il cui unico senso di esistere è il culo della moglie. Bravo lui. E bravo un sistema di fan che gli ha perdonato tutto, solo perché ci ha dato l'illusione con La casa del diavolo, di rinverdire i fasti del cinema da battaglia degli anni '70.
Ah, sì, quel cinema è morto e sepolto, se qualcuno non se ne fosse accorto. Esistono cosette da niente come il contesto storico che gli remano un po' contro. E va bene, un film così all'insegna della nostalgia canaglia ci può stare. Ma da lì a voler pretendere di essere classificato come autore, quando non hai neanche la più pallida idea di cosa significhi mettere in scena una storia, ci passa in mezzo un oceano.

Io non riesco più a capire dove stia andando l'horror in questo periodo. Mi trovo spiazzata. E soprattutto non capisco cosa cercano gli appassionati, perché se una cosetta amatoriale da quindicenne metallaro con cinquantasei birre in corpo solleva un polverone tale, allora davvero, la devo smettere di scrivere e vedere film. Che poi i metallari son persone serie. Si sentirebbero offesi loro per primi da The Lords of Salem.
Il mio amico Max, cura ogni settimana sul suo blog dedicato al metal una rubrica divertentissima chiamata The Gallery, in cui mette alla berlina le peggiori copertine dei dischi. Ecco, The Lord of Salem è una specie di Gallery in movimento, con tutta la simbologia più becera e abusata, la mancanza di originalità che vuol passare come arte visionaria, e un paio di vaccatelle wannabe blasfeme a cui piacerebbe tanto scandalizzare.
E ovviamente, non scandalizza neppure la buonanima di mia nonna, che al massimo verrebbe colta da catalessi immediata.



Ma di che parla codesto gioiello che è uno dei punti più alti mai raggiunti nella istoria del cinema tutto?
Di un disco maledetto.
Sì, un disco maledetto (oltretutto, Rob, sei musicista, ma sforzati almeno di far uscire da quel cazzo di vinile una nenia decente) e una DJ (Sheri Moon) che viene posseduta da questa musica satanica che le fa fare le brutte cose, tipo cavalcare un caprone, o attaccare il telefono in faccia al fidanzato. La cosa peggiore è che ha le visioni con pacchianissimi crocifissi al neon, dietro cui si nasconde uno yeti. Ancora più tragico, è circuita da tre vecchiette sotto anfetamine (Judy Geeson, Dee Wallace, Patricia Quinn) che in realtà sono streghe e, attraverso il culo di Sheri Moon, intendono riportare in vita l'antico culto dei Signori di Salem. Detta così sembra una stronzata. Ma non fatevi ingannare, è anche peggio di come si presenta.

Rob Zombie è un regista rozzo. Non è dotato di tecnica, non è in grado di dare ai suoi film uno stile preciso. Si arrabatta tra il videoclip e il plagio più o meno consapevole dei mezzi espressivi in voga negli anni '70. Quindi irrimediabilmente datati. Però, almeno per il suo esordio e soprattutto per La Casa del Diavolo, ha dimostrato di possedere una qualità tutta particolare: amore e trasporto sinceri nei confronti della marmaglia di rifiuti umani di cui narrava le gesta. E sembrava che questo fosse il fulcro della sua poetica, se di poetica è lecito parlare. E invece no. Era una presa per i fondelli anche quella.
Perché con The Lords of Salem Zombie abbandona del tutto la prospettiva del regista reietto e rudimentale che parla di reietti e ce li fa sentire vicini, per atteggiarsi a sofisticato autore che strizza l'occhio a gente come Russel e Jodorowsky. Per tacere dei riferimenti continui a Fulci che non lo devi toccare e non lo devi neanche nominare.
E Zombie, gli strumenti per padroneggiare la poesia lisergica e visionaria di certi grandi maestri non li ha. Non c'è niente da fare. Pretende di mettersi a giocare sul loro stesso terreno, gioca coi simboli e con le immagini subliminali, non si spreca neanche a scrivere una storia, perché tanto i veri autori non ne hanno bisogno. E fallisce in maniera così clamorosa che già dopo i dieci minuti di film ti verrebbe voglia di farlo sedere all'ultimo banco della classe con le orecchie d'asino in testa e sequestrargli il lettore mp3 coi Velvet Underground. Tanto non li capisce.



Però, il caro Rob sa benissimo cosa vogliono da lui i fan adoranti: la citazione che ti fa sentire colto e all'avanguardia, la parata di vecchie glorie da riconoscere per dar di gomito all'amico nerd e dirgli: "oh, guarda, c'è Meg Foster invecchiata di merda", un paio di inquadrature sbilenche, paccottiglia religiosa da negozio di souvenir a San Pietro e un finale in cui il regista e sceneggiatore si erge in pieno delirio di onnipotenza e pretende di realizzare una sequenza disturbante e allucinata. Sì, con quattro dildi rossi, il solito caprone e la solita Sheri Moon acchittata come la madonna. Ma colori acidi, mi raccomando, che ci scrivono sopra sette trattati. Siamo provocatori noi, andiamo contro le convenzioni e facciamo la gioia dei satanisti della domenica all'oratorio.

Non è tanto il fatto di essere arrivati fuori tempo massimo, o di usare un immaginario e una simbologia che andavano bene trent'anni fa. Il problema sta altrove, nella paraculaggine senza pudore che sottende a un'operazione del genere. E nel dilettantismo con cui la si affronta, consci del fatto che tanto il pubblico potrebbe bersi anche una compilation di rutti se fosse a firma Rob Zombie. Saper di godere di credito illimitato e giocarci sopra, atteggiandosi anche a ultimo baluardo del cinema indipendente in un mondo di venduti. L'idea che solo una setta di eletti e profondi conoscitori del genere può arrivare a comprendere un film di questo tipo. E tutti gli altri sono traditori.



E non rendersi conto che The Lords of Salem non è cinema, ma il rigurgito narcisista e masturbatorio di un incompetente che ha azzeccato un solo film in carriera per un formidabile colpo di fortuna. Recitato da un branco di cani arrabbiati, diretti come se fossero la filodrammatica della parrocchia dietro casa e con una protagonista che, bel posteriore a parte, non ha la capacità di caricarsi sulle spalle un film intero, come il marito vorrebbe che facesse.
The Lords of Salem è un insulto all'intelligenza, un insulto al gusto estetico e un insulto al cinema. Perché autori non ci si improvvisa. E se penso che questa betoniera carica di merda è distribuita in sala da noi, mentre Ti West e Lucky McKee a stento trovano uno sbocco in home video, mi metto a piangere.
Non dategli i vostri soldi.

Categorie: Generi horror, Cinema in uscita, Cinema registi

Commenti: 4, ultimo il 03/05/2013 alle 01.15.00 - Inserisci un commento

L’ombra della Strega

Pubblicato il 01/11/2012 14:07:12 da L.P.
Creare con 300.000 dollari un'icona che sopravvive ancora oggi, che ancora oggi fa paura, che ancora oggi porta la gente al cinema e spinge i produttori a investirci i soldi sopra. Su una maschera. Bianca. Inespressiva. Su una delle forme più pure e astratte del terrore. Michael Myers, The Boogeyman, o L'Ombra della Strega, come venne soprannominato nel doppiaggio italiano, con una scelta una volta tanto non del tutto infelice, se non altro per il suono sinistro che hanno quelle parole. L'Ombra della Strega. Alla tua finestra. E' abbastanza spaventoso, vero?


Il piccolo Myers nel primo e unico film della saga diretto da John Carpenter


Quando Carpenter si presentò dal produttore Moustapha Akkad con il copione di "The Babysitter Murders" aveva 29 anni. Akkad lo stette a sentire solo perché il giovane regista gli promise che avrebbe girato il film in pochissimo tempo e con un budget ridottissimo. Akkad chiese a Carpenter di cosa parlasse la sua sceneggiatura. E Carpenter, sintetico come sempre, rispose: "Babysitter ammazzate dall'Uomo Nero". Tutto qui. La trama di Halloween, lo sappiamo tutti, è esile, scheletrica, quasi inesistente. Ci sono le vittime, c'è il killer che prima le pedina e poi inizia a farle fuori una a una. C'è un ragazzino che è cresciuto in un manicomio e che proprio durante la notte delle streghe evade per tornare a casa. E c'è un'adolescente timida e un po' imbranata che con lui si confronta e riesce a sconfiggerlo.
Non era il primo slasher della storia del cinema. Non sarebbe stato l'ultimo. Ma, a differenza dei suoi progenitori, i vari Black Christmas e L'allucinante notte di una baby sitter, sposta l'attenzione sull'assassino, sul mostro, e lo trasforma in mito. Halloween è sì Jamie Lee Curtis nascosta nell'armadio, ma è più di tutto l'incedere lento e inesorabile di Michael, la sua totale mancanza di empatia, il modo in cui continua ad alzarsi ogni volta che viene colpito, un vuoto riempito solo dall'istinto omicida. La maschera più di ogni altra cosa, il volto di William Shatner che diventa un archetipo del Male quello con la emme maiuscola. Perché, anche questo lo sappiamo tutti, Michael non è umano.

Da quell'ottobre 1978, da quel primo, seminale film che in fondo parlava solo di babysitter ammazzate dall'Uomo Nero, la saga di Halloween ha generato sette seguiti, un remake e un sequel del remake. E si sta parlando da qualche anno di ricominciare da capo usando il noto trappolone per gonzi del 3d, che ha già colpito un illustre collega omicida. Halloween che, ripetiamo, costò appena 300.000 dollari, ne incassò sessanta milioni. E regalò a tutti gli appassionati dell'orrore un nuovo eroe, alle cui gesta assistere nei secoli dei secoli e amen. Dato il successo interplanetario del primo film, i produttori decisero di mettere in cantiere il prima possibile un seguito. Dietro Halloween II: il signore della morte, ci sono ancora Carpenter e Debra Hill, ma entrambi coinvolti nel progetto senza entusiasmo. Carpenter era impegnato altrove e decise di non stare dietro la macchina da presa e di limitarsi alla sceneggiatura. Alla regia venne chiamato Rick Rosenthal. La produzione, per obbligare Carpenter e la Hill a prender parte all'operazione, minacciò addirittura di agire per vie legali contro di loro, bloccando le riprese di The fog. Il copione scritto da Carpenter venne rimaneggiato e, a film ormai uscito, il commento secco del regista fu: "Non vale la pena di andarlo a vedere".


Michael Myers in Halloween II


In realtà, Halloween II non è così brutto come le premesse potrebbero far pensare. Per tutta una serie di motivi, magari anche involontari, riesce ad approfondire il personaggio di Michael pur non spogliandolo della sua identità di astrazione maligna. Forse il modo in cui il dottor Loomis (nemesi dell'assassino mascherato) collega la furia omicida di Michael allo Samhain, è un po' troppo spiegata e data in pasto allo spettatore neanche fosse una didascalia. Ma il riferimento ai riti druidici è comunque suggestivo, come anche l'attribuire a Michael la qualifica di mostro dell'inconscio e quindi quasi incorporeo, un fantasma che emerge dal buio e che è sempre più identificabile con la paura stessa. Anche la scelta della location (l'ospedale in cui viene ricoverata Laurie) è interessante e permette a Rosenthal di sbizzarrirsi in sequenze di omicidi estremamente violente, quasi del tutto assenti nel capostipite. Il tasso di gore aumenta in maniera esponenziale, iniziando un percorso che nei vari seguiti sarebbe diventato irreversibile. Halloween II tuttavia riesce a mantenere almeno parte dell'eleganza del suo predecessore ed è ancora un ottimo prodotto di intrattenimento.

Con Michael Myers e il dottor Loomis bruciati entrambi nel fuoco purificatore del finale, era difficile pensare di poter metter mano a un nuovo seguito. E invece, i produttori erano seriamente intenzionati a continuare la saga. Carpenter, che aveva ben altro a cui pensare, propose di realizzare un film ambientato ad Halloween, senza il personaggio di Michael, dato per morto e sepolto, e destinato a diventare una specie di contenitore di ossessioni e paure legate alla notte delle streghe. L'idea iniziale è attribuita a Joe Dante, mentre a scrivere il copione venne chiamato Nigel Kneale, autore del Quatermass televisivo.
Purtroppo, la sceneggiatura di Kneale non venne mai messa in immagini. Giudicata troppo costosa e quasi impossibile da realizzare, subì tutta una serie di tagli che portarono lo scrittore a ritirare il suo nome dai titoli. I credits ufficiali infatti danno come unico autore il regista Tommy Lee Wallace.


Halloween III: il signore della notte è forse l'unico caso, all'interno del contesto seriale del cinema horror, di sequel totalmente spurio che tenta di svincolarsi dall'ombra ingombrante della maschera di Michael per dare vita a un nuovo progetto cinematografico. Non solo uno slasher con assassino armato di coltello che insegue fanciulle sempre più disinibite e discinte, ma un horror soprannaturale che parli di Halloween e che ne diventi, in un certo senso, il simbolo. Purtroppo, alle premesse non corrispondono i risultati. Verrebbe da chiedersi cosa sarebbe uscito fuori se il film fosse stato diretto da Dante (purtroppo impegnato sul set di Ai confini della realtà) e scritto da Kneale. Ma ci è toccato Tommy Lee Wallace e ce lo dobbiamo tenere, insieme alla bizzarra storia della fabbrica di maschere maledette e del loro malefico creatore.
Non tutto è da buttare: il finale splatter e per niente consolatorio, l'eliminazione del nuovo cattivo che impedisce a prescindere che il film si trasformi in un'ennesima saga, il ruolo della maschera, solo abbozzato nei due film precedenti che qui diventa preponderante. Nonostante un successo al botteghino più che discreto, era evidente che il pubblico non voleva una nuova serie di film ispirati alla festa di Halloween. Il pubblico voleva Michael Myers. E così Akkad pensò bene di resuscitarlo, a ben sei anni di distanza dal terzo capitolo, con Halloween 4: il ritorno di Michael Myers.


La fabbrica delle maschere in Halloween 3


Halloween IV viene fatto uscire in occasione del decennale del capostipite. L'unica traccia che rimane di Carpenter è il tema musicale portante del film, anche se leggermente modificato rispetto a quello originale. Per il resto, il Maestro non appare neanche più nei titoli, né in produzione né in sceneggiatura. Più che un seguito vero e proprio, il quarto Halloween potrebbe essere un reboot, solo che all'epoca certe brutte parole non le usavano e avevano il buon gusto di non nascondersi dietro a eufemismi per mascherare bieche operazioni commerciali. A dirigere il baraccone di Ognissanti chiamano il regista di servizio Dwight H. Little che se non altro dimostra di avere un certo gusto nel plagiare movimenti di macchina e inquadrature carpenteriane.
Esordisce Danielle Harris, ed è forse uno dei pochi motivi validi per vedere questo film. Insieme a uno dei finali più agghiaccianti e perfidi mai concepiti. Due minuti conclusivi in cui il Male trionfa senza lasciare nessuna possibilità di salvezza, in cui un redivivo dottor Loomis, sconfitto in maniera definitiva, non può che contemplare attonito il fallimento di tutta la sua esistenza. La saga avrebbe anche potuto concludersi lì, e sarebbe stato un degno epitaffio su quella incarnazione di pura malvagità fine a se stessa che è la figura di Michael Myers. Con la piccola Jamie, vestita con lo stesso costume che indossava Michael la notte in cui uccise sua sorella, che impugna inespressiva il coltello, si poteva addirittura ipotizzare una rigenerazione del mito dei Myers da un punto di vista femminile (ipotesi anche sfiorata da Rob Zombie nello sciaguratissimo Halloween II del 2009). E invece no. Si mette subito in cantiere un quinto capitolo, lo si mette in mano a un tizio dal nome esotico, Dominique Othenin-Girard, si fa guarire Jamie dalla psicosi e si realizza un film che ha dalla sua un'atmosfera ossessiva e soffocante, basato quasi tutto su una persecuzione atroce ai danni di una bambina. La regia di Girard è confusa, ma con dei picchi di creatività fiabesca che evidenziano la morbosità del rapporto vittima/carnefice tra i due personaggi principali.



Le dinamiche tra Michael e Jamie sono forse la cosa più interessante di questo prodotto che per il resto assomiglia a un pessimo seguito di un Venerdì XIII qualunque. Halloween è entrato ormai a far parte della grande famiglia degli slasher anonimi, in cui il body count diventa sempre più elevato e si è solo curiosi di assistere alle dinamiche anatomiche del prossimo omicidio. Lo stesso Michael, con forse il look peggiore di tutta la serie, sembra una marionetta. Cammina un po' claudicante e dinoccolato, una specie di bamboccio tonto che non ha nulla del sinistro carisma che il personaggio aveva in quella ormai lontana notte dell'ottobre 1978.

Sul sesto capitolo, in cui si va a riesumare il personaggio di Tommy Doyle, si parla di sette, conoscenza druidiche per mettere fuori combattimento Myers appellandosi a energie positive, e altre cose che non sono degne neanche di essere guardate di sbieco tra un cruciverba e l'altro, è meglio stendere una pietosa lapide di marmo e passare oltre.

Nel 1996 un uragano si abbatte sul cinema dell'orrore. Questo uragano si chiama Scream. A prescindere dal giudizio critico sul film in questione, è evidente che l'opera di Craven abbia lasciato strascichi (positivi e negativi) a lungo termine. Anche Halloween, che è una delle fonti primarie di ispirazione per Kevin Williamson, sceneggiatore di Scream, viene coinvolto dalla mania citazionista e dal nuovo teen movie. Con l'anniversario dei vent'anni alle porte, ad Akkad viene in mente di richiamare Jamie Lee Curtis a ricoprire il ruolo di Laurie Strode, adesso trasferitasi in California, insegnante in una scuola privata e madre iperprotettiva di un figlio adolescente.
Unico capitolo ambientato fuori da Haddonfield, Halloween H2O, tenta di portare la saga di Michael Myers all'interno di un contesto più moderno, rilanciando la figura appassita di Michael Myers grazie alla presenza della sua prima, storica antagonista. Discendente diretto della Scream generation, Halloween H20 è un prodotto che autocelebra se stesso in maniera spudorata e, privo com'è di qualunque ambizione, risulta anche divertente e godibile. Il fatto che in cabina di regia ci sia un vecchio mestierante come Steve Miner, rende l'operazione molto valida da un punto di vista professionale. Lo svecchiamento introdotto dalla sceneggiatura è evidente soprattutto nel personaggio di Laurie: quasi alcolizzata, sessualmente disinibita e dipendente da psicofarmaci, resta comunque l'eroina, il punto di riferimento, e il personaggio positivo per eccellenza del film.


Jamie Lee Curtis ancora una volta in Halloween H2O


Con Michael decapitato dalla sorella Laurie, sembrava davvero che fosse finita. Ma Halloween H20 viene premiato al botteghino, incassando più del previsto e alla Dimension film non si fanno sfuggire l'occasione di continuare a lucrare sui moribondi. Arriva quindi Halloween: la resurrezione, in cui ritroviamo Jamie Lee Curtis chiusa in un manicomio criminale. L'espediente con cui Myers viene fatto tornare in vita fa ridere polli, galline e pennuti di ogni specie. Ma se non altro ci godiamo l'addio definito alla serie di sua maestà Jamie Lee, uccisa da Michael nei minuti iniziali del film. A quel punto, Halloween - La resurrezione si trasforma in un reality per gonzi, affossato ancora di più dalla presenza di Busta Rhymes nel ruolo del cinico produttore di un programma televisivo. Tedio, tedio e ancora tedio.

La saga ufficiale finisce qui, con un episodio imbarazzante che è stato rimosso dalle coscienze di chi ci è inciampato sopra per sbaglio, ché solo per sbaglio si può assistere a un tale cumulo di merda. Oppure, se lo si fa consapevolmente, bisogna esser scemi come me. Passano cinque anni (La Resurrezione è del 2002) e, mentre impazza a Hollywood la mania del remake di film horror del passato, il signor Rob Zombie viene rapito nottetempo dai Weinstein, preso a randellate forti sulla testa, narcotizzato e poi costretto con la forza a girare un rifacimento del primo, glorioso, epico Halloween. Cosa ci azzecchi Rob Zombie con John Carpenter lo sanno solo i Weinstein. Quella che poteva sembrare una scelta coraggiosa e fuori dagli schemi, ovvero affidare un remake così difficile a un autore con un taglio estremamente personale e diametralmente opposto a quello del Maestro, si rivela invece una devastante arma a doppio taglio. Non per i Weinstein che cadono sempre in piedi. Per il povero Rob Zombie, che gira mezzo film alla sua maniera (prima parte ottima) e l'altra metà in uno stralunato scimmiottamento di Carpenter ma sotto anfetamine, in cui tutti corrono, urlano e dicono parolacce.


L'ultimo Halloween targato Rob Zombie


Non paghi di ciò, i Weinstein acchiappano uno Zombie in delirio di onnipotenza, e sotto minaccia di esser sodomizzato da un cavallo bianco, portato alla briglia da Sheri Moon, lo costringono a girare il sequel, ove il terribile incubo equino si incarna nelle visioni di un Michael Myers ormai partito per la tangente che si sogna la mamma vestita come un elfo mentre fa la pubblicità al bagno schiuma Vidal. Il tutto mentre il gore diventa così esasperato da sortire l'effetto di un grottesco carnevale, Laurie Strode bestemmia e come uno scaricatore di porto, Danielle Harris viene macellata ma prima ci mostra le tette, e comunque tutti corrono, urlano e dicono parolacce. Ripresi con la macchina a mano.

Immaginare soltanto quello che combineranno al povero Michael Myers in 3d, sarebbe troppo doloroso. Eppure, nonostante i ripetuti stupri che il personaggio ha subito nel corso dei decenni, la sua maschera bianca che emerge spettrale dal buio, vuota, incapace di pietà, The Shape, la forma essenziale di tutto ciò che temiamo, il non morto condannato a vagare sulla terra sterminando i vivi è sempre lì, alle nostre spalle pronta a colpire. Una forza incontenibile la cui unica volontà è uccidere. E che ogni Halloween che si rispetti, è pronta a tornare a casa. Per salutarci.

Il Ritorno der Maestro

Pubblicato il 08/10/2012 08:34:37 da L.P.
Dopo aver appestato il festival di Cannes con la proiezione di mezzanotte e dopo essere sbarcato tra le pernacchie al Fright Fest di Londra, il nuovo film di Dario Argento ha una data di distribuzione in sala anche qui da noi.Il 22 novembre avremo l'onore di ammirare su grande schermo le gesta della mantide religiosa realizzata con il commodore 64 del nipotino Giggetto e un'Asia Argento al massimo delle sue capacità recitative, come si evince anche dal documento fotografico numero 1. Il fotogramma del millennio.



Dracula 3d segna il ritorno di Dario Argento dietro la macchina da presa (in questo caso una Alexa) dopo il disastro imbarazzante di Giallo

Oltre alla figlia Asia, fanno parte del cast Rutger Hauer nel ruolo di Van Helsing e Thomas Kretschmann in quello del Conte. Alla base del film dovrebbe esserci il tentativo di riportare in auge un tipo di horror classico, sullo stile della vecchia Hammer. Purtroppo il trailer e le prime reazioni di pubblico e critica portano in tutt'altra direzione.

Distribuisce la Bolero, con estremo coraggio e sprezzo del pericolo.

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