Creare con 300.000 dollari un'icona che sopravvive ancora oggi, che ancora oggi fa paura, che ancora oggi porta la gente al cinema e spinge i produttori a investirci i soldi sopra. Su una maschera. Bianca. Inespressiva. Su una delle forme più pure e astratte del terrore. Michael Myers, The Boogeyman, o L'Ombra della Strega, come venne soprannominato nel doppiaggio italiano, con una scelta una volta tanto non del tutto infelice, se non altro per il suono sinistro che hanno quelle parole. L'Ombra della Strega. Alla tua finestra. E' abbastanza spaventoso, vero?
Il piccolo Myers nel primo e unico film della saga diretto da John Carpenter
Quando
Carpenter si presentò dal produttore Moustapha Akkad con il copione di "The Babysitter Murders" aveva 29 anni. Akkad lo stette a sentire solo perché il giovane regista gli promise che avrebbe girato il film in pochissimo tempo e con un budget ridottissimo. Akkad chiese a Carpenter di cosa parlasse la sua sceneggiatura. E Carpenter, sintetico come sempre, rispose: "Babysitter ammazzate dall'Uomo Nero". Tutto qui. La trama di
Halloween, lo sappiamo tutti, è esile, scheletrica, quasi inesistente. Ci sono le vittime, c'è il killer che prima le pedina e poi inizia a farle fuori una a una. C'è un ragazzino che è cresciuto in un manicomio e che proprio durante la notte delle streghe evade per tornare a casa. E c'è un'adolescente timida e un po' imbranata che con lui si confronta e riesce a sconfiggerlo.
Non era il primo slasher della storia del cinema. Non sarebbe stato l'ultimo. Ma, a differenza dei suoi progenitori, i vari
Black Christmas e
L'allucinante notte di una baby sitter, sposta l'attenzione sull'assassino, sul mostro, e lo trasforma in mito. Halloween è sì
Jamie Lee Curtis nascosta nell'armadio, ma è più di tutto l'incedere lento e inesorabile di Michael, la sua totale mancanza di empatia, il modo in cui continua ad alzarsi ogni volta che viene colpito, un vuoto riempito solo dall'istinto omicida. La maschera più di ogni altra cosa, il volto di William Shatner che diventa un archetipo del Male quello con la emme maiuscola. Perché, anche questo lo sappiamo tutti, Michael non è umano.
Da quell'ottobre 1978, da quel primo, seminale film che in fondo parlava solo di babysitter ammazzate dall'Uomo Nero, la saga di Halloween ha generato sette seguiti, un remake e un sequel del remake. E si sta parlando da qualche anno di ricominciare da capo usando il noto trappolone per gonzi del 3d, che ha già colpito un illustre collega omicida. Halloween che, ripetiamo, costò appena 300.000 dollari, ne incassò sessanta milioni. E regalò a tutti gli appassionati dell'orrore un nuovo eroe, alle cui gesta assistere nei secoli dei secoli e amen. Dato il successo interplanetario del primo film, i produttori decisero di mettere in cantiere il prima possibile un seguito. Dietro
Halloween II: il signore della morte, ci sono ancora Carpenter e Debra Hill, ma entrambi coinvolti nel progetto senza entusiasmo. Carpenter era impegnato altrove e decise di non stare dietro la macchina da presa e di limitarsi alla sceneggiatura. Alla regia venne chiamato
Rick Rosenthal. La produzione, per obbligare Carpenter e la Hill a prender parte all'operazione, minacciò addirittura di agire per vie legali contro di loro, bloccando le riprese di
The fog. Il copione scritto da Carpenter venne rimaneggiato e, a film ormai uscito, il commento secco del regista fu: "Non vale la pena di andarlo a vedere".
Michael Myers in Halloween II
In realtà, Halloween II non è così brutto come le premesse potrebbero far pensare. Per tutta una serie di motivi, magari anche involontari, riesce ad approfondire il personaggio di Michael pur non spogliandolo della sua identità di astrazione maligna. Forse il modo in cui il dottor Loomis (nemesi dell'assassino mascherato) collega la furia omicida di Michael allo Samhain, è un po' troppo spiegata e data in pasto allo spettatore neanche fosse una didascalia. Ma il riferimento ai riti druidici è comunque suggestivo, come anche l'attribuire a Michael la qualifica di mostro dell'inconscio e quindi quasi incorporeo, un fantasma che emerge dal buio e che è sempre più identificabile con la paura stessa. Anche la scelta della location (l'ospedale in cui viene ricoverata Laurie) è interessante e permette a Rosenthal di sbizzarrirsi in sequenze di omicidi estremamente violente, quasi del tutto assenti nel capostipite. Il tasso di gore aumenta in maniera esponenziale, iniziando un percorso che nei vari seguiti sarebbe diventato irreversibile. Halloween II tuttavia riesce a mantenere almeno parte dell'eleganza del suo predecessore ed è ancora un ottimo prodotto di intrattenimento.
Con Michael Myers e il dottor Loomis bruciati entrambi nel fuoco purificatore del finale, era difficile pensare di poter metter mano a un nuovo seguito. E invece, i produttori erano seriamente intenzionati a continuare la saga. Carpenter, che aveva ben altro a cui pensare, propose di realizzare un film ambientato ad Halloween, senza il personaggio di Michael, dato per morto e sepolto, e destinato a diventare una specie di contenitore di ossessioni e paure legate alla notte delle streghe. L'idea iniziale è attribuita a
Joe Dante, mentre a scrivere il copione venne chiamato Nigel Kneale, autore del Quatermass televisivo.
Purtroppo, la sceneggiatura di Kneale non venne mai messa in immagini. Giudicata troppo costosa e quasi impossibile da realizzare, subì tutta una serie di tagli che portarono lo scrittore a ritirare il suo nome dai titoli. I credits ufficiali infatti danno come unico autore il regista
Tommy Lee Wallace.
Halloween III: il signore della notte è forse l'unico caso, all'interno del contesto seriale del cinema horror, di sequel totalmente spurio che tenta di svincolarsi dall'ombra ingombrante della maschera di Michael per dare vita a un nuovo progetto cinematografico. Non solo uno slasher con assassino armato di coltello che insegue fanciulle sempre più disinibite e discinte, ma un horror soprannaturale che parli di Halloween e che ne diventi, in un certo senso, il simbolo. Purtroppo, alle premesse non corrispondono i risultati. Verrebbe da chiedersi cosa sarebbe uscito fuori se il film fosse stato diretto da Dante (purtroppo impegnato sul set di
Ai confini della realtà) e scritto da Kneale. Ma ci è toccato Tommy Lee Wallace e ce lo dobbiamo tenere, insieme alla bizzarra storia della fabbrica di maschere maledette e del loro malefico creatore.
Non tutto è da buttare: il finale splatter e per niente consolatorio, l'eliminazione del nuovo cattivo che impedisce a prescindere che il film si trasformi in un'ennesima saga, il ruolo della maschera, solo abbozzato nei due film precedenti che qui diventa preponderante. Nonostante un successo al botteghino più che discreto, era evidente che il pubblico non voleva una nuova serie di film ispirati alla festa di Halloween. Il pubblico voleva Michael Myers. E così Akkad pensò bene di resuscitarlo, a ben sei anni di distanza dal terzo capitolo, con
Halloween 4: il ritorno di Michael Myers.
La fabbrica delle maschere in Halloween 3
Halloween IV viene fatto uscire in occasione del decennale del capostipite. L'unica traccia che rimane di Carpenter è il tema musicale portante del film, anche se leggermente modificato rispetto a quello originale. Per il resto, il Maestro non appare neanche più nei titoli, né in produzione né in sceneggiatura. Più che un seguito vero e proprio, il quarto Halloween potrebbe essere un reboot, solo che all'epoca certe brutte parole non le usavano e avevano il buon gusto di non nascondersi dietro a eufemismi per mascherare bieche operazioni commerciali. A dirigere il baraccone di Ognissanti chiamano il regista di servizio
Dwight H. Little che se non altro dimostra di avere un certo gusto nel plagiare movimenti di macchina e inquadrature carpenteriane.
Esordisce
Danielle Harris, ed è forse uno dei pochi motivi validi per vedere questo film. Insieme a uno dei finali più agghiaccianti e perfidi mai concepiti. Due minuti conclusivi in cui il Male trionfa senza lasciare nessuna possibilità di salvezza, in cui un redivivo dottor Loomis, sconfitto in maniera definitiva, non può che contemplare attonito il fallimento di tutta la sua esistenza. La saga avrebbe anche potuto concludersi lì, e sarebbe stato un degno epitaffio su quella incarnazione di pura malvagità fine a se stessa che è la figura di Michael Myers. Con la piccola Jamie, vestita con lo stesso costume che indossava Michael la notte in cui uccise sua sorella, che impugna inespressiva il coltello, si poteva addirittura ipotizzare una rigenerazione del mito dei Myers da un punto di vista femminile (ipotesi anche sfiorata da Rob Zombie nello sciaguratissimo Halloween II del 2009). E invece no. Si mette subito in cantiere un
quinto capitolo, lo si mette in mano a un tizio dal nome esotico,
Dominique Othenin-Girard, si fa guarire Jamie dalla psicosi e si realizza un film che ha dalla sua un'atmosfera ossessiva e soffocante, basato quasi tutto su una persecuzione atroce ai danni di una bambina. La regia di Girard è confusa, ma con dei picchi di creatività fiabesca che evidenziano la morbosità del rapporto vittima/carnefice tra i due personaggi principali.
Le dinamiche tra Michael e Jamie sono forse la cosa più interessante di questo prodotto che per il resto assomiglia a un pessimo seguito di un Venerdì XIII qualunque. Halloween è entrato ormai a far parte della grande famiglia degli slasher anonimi, in cui il body count diventa sempre più elevato e si è solo curiosi di assistere alle dinamiche anatomiche del prossimo omicidio. Lo stesso Michael, con forse il look peggiore di tutta la serie, sembra una marionetta. Cammina un po' claudicante e dinoccolato, una specie di bamboccio tonto che non ha nulla del sinistro carisma che il personaggio aveva in quella ormai lontana notte dell'ottobre 1978.
Sul
sesto capitolo, in cui si va a riesumare il personaggio di Tommy Doyle, si parla di sette, conoscenza druidiche per mettere fuori combattimento Myers appellandosi a energie positive, e altre cose che non sono degne neanche di essere guardate di sbieco tra un cruciverba e l'altro, è meglio stendere una pietosa lapide di marmo e passare oltre.
Nel 1996 un uragano si abbatte sul cinema dell'orrore. Questo uragano si chiama
Scream. A prescindere dal giudizio critico sul film in questione, è evidente che l'opera di
Craven abbia lasciato strascichi (positivi e negativi) a lungo termine. Anche Halloween, che è una delle fonti primarie di ispirazione per Kevin Williamson, sceneggiatore di Scream, viene coinvolto dalla mania citazionista e dal nuovo teen movie. Con l'anniversario dei vent'anni alle porte, ad Akkad viene in mente di richiamare Jamie Lee Curtis a ricoprire il ruolo di Laurie Strode, adesso trasferitasi in California, insegnante in una scuola privata e madre iperprotettiva di un figlio adolescente.
Unico capitolo ambientato fuori da Haddonfield,
Halloween H2O, tenta di portare la saga di Michael Myers all'interno di un contesto più moderno, rilanciando la figura appassita di Michael Myers grazie alla presenza della sua prima, storica antagonista. Discendente diretto della Scream generation, Halloween H20 è un prodotto che autocelebra se stesso in maniera spudorata e, privo com'è di qualunque ambizione, risulta anche divertente e godibile. Il fatto che in cabina di regia ci sia un vecchio mestierante come
Steve Miner, rende l'operazione molto valida da un punto di vista professionale. Lo svecchiamento introdotto dalla sceneggiatura è evidente soprattutto nel personaggio di Laurie: quasi alcolizzata, sessualmente disinibita e dipendente da psicofarmaci, resta comunque l'eroina, il punto di riferimento, e il personaggio positivo per eccellenza del film.
Jamie Lee Curtis ancora una volta in Halloween H2O
Con Michael decapitato dalla sorella Laurie, sembrava davvero che fosse finita. Ma Halloween H20 viene premiato al botteghino, incassando più del previsto e alla Dimension film non si fanno sfuggire l'occasione di continuare a lucrare sui moribondi. Arriva quindi
Halloween: la resurrezione, in cui ritroviamo Jamie Lee Curtis chiusa in un manicomio criminale. L'espediente con cui Myers viene fatto tornare in vita fa ridere polli, galline e pennuti di ogni specie. Ma se non altro ci godiamo l'addio definito alla serie di sua maestà Jamie Lee, uccisa da Michael nei minuti iniziali del film. A quel punto, Halloween - La resurrezione si trasforma in un reality per gonzi, affossato ancora di più dalla presenza di
Busta Rhymes nel ruolo del cinico produttore di un programma televisivo. Tedio, tedio e ancora tedio.
La saga ufficiale finisce qui, con un episodio imbarazzante che è stato rimosso dalle coscienze di chi ci è inciampato sopra per sbaglio, ché solo per sbaglio si può assistere a un tale cumulo di merda. Oppure, se lo si fa consapevolmente, bisogna esser scemi come me. Passano cinque anni (La Resurrezione è del 2002) e, mentre impazza a Hollywood la mania del remake di film horror del passato, il signor
Rob Zombie viene rapito nottetempo dai Weinstein, preso a randellate forti sulla testa, narcotizzato e poi costretto con la forza a girare un rifacimento del primo, glorioso, epico
Halloween. Cosa ci azzecchi Rob Zombie con John Carpenter lo sanno solo i Weinstein. Quella che poteva sembrare una scelta coraggiosa e fuori dagli schemi, ovvero affidare un remake così difficile a un autore con un taglio estremamente personale e diametralmente opposto a quello del Maestro, si rivela invece una devastante arma a doppio taglio. Non per i Weinstein che cadono sempre in piedi. Per il povero Rob Zombie, che gira mezzo film alla sua maniera (prima parte ottima) e l'altra metà in uno stralunato scimmiottamento di Carpenter ma sotto anfetamine, in cui tutti corrono, urlano e dicono parolacce.
L'ultimo Halloween targato Rob Zombie
Non paghi di ciò, i Weinstein acchiappano uno Zombie in delirio di onnipotenza, e sotto minaccia di esser sodomizzato da un cavallo bianco, portato alla briglia da
Sheri Moon, lo costringono a girare il
sequel, ove il terribile incubo equino si incarna nelle visioni di un Michael Myers ormai partito per la tangente che si sogna la mamma vestita come un elfo mentre fa la pubblicità al bagno schiuma Vidal. Il tutto mentre il gore diventa così esasperato da sortire l'effetto di un grottesco carnevale, Laurie Strode bestemmia e come uno scaricatore di porto, Danielle Harris viene macellata ma prima ci mostra le tette, e comunque tutti corrono, urlano e dicono parolacce. Ripresi con la macchina a mano.
Immaginare soltanto quello che combineranno al povero Michael Myers in 3d, sarebbe troppo doloroso. Eppure, nonostante i ripetuti stupri che il personaggio ha subito nel corso dei decenni, la sua maschera bianca che emerge spettrale dal buio, vuota, incapace di pietà, The Shape, la forma essenziale di tutto ciò che temiamo, il non morto condannato a vagare sulla terra sterminando i vivi è sempre lì, alle nostre spalle pronta a colpire. Una forza incontenibile la cui unica volontà è uccidere. E che ogni Halloween che si rispetti, è pronta a tornare a casa. Per salutarci.
In un poco noto romanzo di di
Hubbard,
Le quattro ore del terrore, succede qualcosa di interessante. Il protagonista va a trovare un suo amico, e dopo aver chiacchierato del più e de meno, dopo una decina di minuti si congeda ed esce di casa. Punto. Solo che non sono passati pochi minuti, ma quattro ore. Scosso, il protagonista torna nell'appartamento e trova una strage. Sangue ovunque. Amnesia? Cos'è davvero accaduto? Ecco, anche a me capitano cose del genere. Non fare stragi, non ci sono ancora arrivato. Ma di subire dilatazioni temporali inconsuete se non in principi relativistici che richiederebbero che io viaggiassi ad una velocità simile a quella della luce. Di fronte alla granitica noia di certe pellicole, io stacco. E spesso, alla dilatazione temporale estrema si aggiunge, appunto, l'amnesia. Classica situazione: vai a vedere
Apocalypto. Il film inizia, e sono le 21:00. Dopo sei ore, controlli l'orologio; "tra un po' albeggia, sarà quasi finito". Sono le 21:15. Mi capita di alzarmi dalla poltrona, attraversare il corridoio e uscire dal cinema. Poi realizzo ed esclamo mentalmente: "Ehi, ma io che ci cazzo ci faccio qui?". Buio totale. Non so manco come ci sia arrivato, figurarsi ritrovare la macchina. Dove ho parcheggiato? E se ho preso un taxi? Alcuni film mi resettano. Ctrl+Alt+Canc. Poi, lentamente, grazie a training autogeni, ritrovo la memoria. Così scopro che nella mia misera vita ho persino visto
American gangster,
S.Darko,
La sottile linea rossa,
La passione di cristo. Grazie ad alcune tecniche sciamaniche, ho ripescato queste perle. Altre giacciono nell'oscurità. Perché nell'inventario della mia vita, la memoria mi è ancora in debito di una quarantina di ore. Ma non bisogna mai disperare. L'oblio può tornare utile. Volete dimenticare per sempre la persona che tanto vi sta facendo soffrire? Approfittatene, finché
Prometheus è nelle sale. Vedetelo con lui/lei. Non vi ricorderete nemmeno di un secondo d'amore inutilmente speso.
Eternal sunshine of the spotless mind era solo un'intuizione,
Scott ha portato la tecnica alla perfezione. Quando dovesse uscire la versione estesa, siate cauti: potreste perdere la memoria e regredire sino al vostro compleanno per i 18 anni.
Che però eran tanto belli...
Povero Ridley Scott. Il tuo “
Prometheus” è squilibrato, modesto, ridicolo sotto vari punti di vista. Non funzionano né i personaggi né alcune situazioni. Ma di questo hanno già parlato legioni di critici e spettatori. Però. A parte questo. In nome di quale ragione commerciale, Ridley, hai ritenuto di poter sporcare la faccia a uno dei tuoi due unici veri capolavori, accettando la sceneggiatura di Jon Spaihts e Damon Lindelof, che è così spudoratamente
reazionaria? Non è la prima volta che fai un film criptatamente politico. Ma doveva essere proprio così biecamente nostalgico verso gli Stati Uniti di Bush? “Prometheus” è repubblicano sino al midollo. E, in questo momento, anti-Obama. Ottuso, gretto, è stato concepito da menti che stanno agli Stati Uniti progressisti come il Kowalski all’inizio di "
Gran Torino” sta al Kowalski che si immola nel finale del film di Eastwood del 2008. Anti-democratico, “Prometheus” è tristemente anti-idealista. E anti-“
Avatar”.
Di solito mi guardo dal manicheismo: ma in questo caso voglio essere manicheo. "Avatar" è altrettanto politico di “Prometheus”. Ma “Prometheus”, oltre a essere fatto parecchio male, è intriso di negatività e pessimismo, e – ciò che è peggio – se ne compiace. “Avatar” è un film meraviglioso, innovativo se non altro tecnicamente, ma soprattutto regala un sentimento di speranza coniugato a valori molto importanti*: “Prometheus”, oltre a utilizzare il 3D in maniera completamente insulsa (il 3D che proprio “Avatar”, nel bene e nel male, ha sdoganato) deliberatamente distrugge ogni speranza, e nemmeno ci regala la soddisfazione di spiegarci perché.
Elizabeth Shaw e Charlie Holloway sono descritti come due ingenui idealisti che credono nelle favole: l’universo là fuori non è popolato da alieni che potrebbero insegnarci quell’armonia che la genìa umana ha perduto, ma bramano solamente di distruggerci come fossimo un fastidioso formicaio. “Prometheus” si rivolta sadicamente contro quello spettatore che, credulone, si era illuso di poter contare su una trama diversa, ricca di chissà quali rivelazioni, dopo quell’incipit prometeico che rimane irrisolto e avulso rispetto agli sviluppi della trama. “Prometheus” è un film oscuro, che è rimasto fermo al cinema di fantascienza degli anni ’50: in piena guerra fredda, quando gli alieni erano cattivi e ci volevano distruggere. Il che, oggi, equivale un po’ a fare un film western in cui gli indiani siano collezionisti di scalpi: potrebbe funzionare solo come parodia (ciò che nella fantascienza fece Tim Burton con “
Mars attacks!”). E non mi si dica che pure “
Alien” era sostanzialmente fermo a quel tipo di fantascienza, perché in "Alien" non c’era alcuna intelligenza nemica che volesse la nostra distruzione, e la denuncia sottesa al film era piuttosto contro le logiche distorte che presiedono spesso le scelte compiute dagli uomini: la Compagnia aveva tenuto l’equipaggio all’oscuro dello scopo della missione (introdurre l’alieno a bordo, per fini militari). “Prometheus” deliberatamente ignora oltre quarant’anni di cinematografia hollywoodiana, da “
Piccolo grande uomo” ad “Avatar” passando per “
Incontri ravvicinati del terzo tipo” e
Balla coi lupi.
Ne esce un film che, ad ogni modo e comunque la si pensi, resta squilibrato, modesto, ridicolo e patetico. Non so come fare per accontentarmi del baraccone. Non so che farmene, di questo baraccone. Ma so che, se Bush non avesse vinto le elezioni del 2000 (coi brogli in Florida), probabilmente il XXI secolo sarebbe cominciato in modo diverso. E di questo stiamo ancora scontando tutti le conseguenze. Un film non è mai solo un film. Specie se è un blockbuster.
* sul mio alto concetto di Avatar rimando al mio
commento al film