Con un ottimo lavoro di regia che si cala meticolosamente in tutte le parti fondamentali della struttura del film, Annamaria Lorusso ha completato, dopo il catalizzante "Il Tempo di un Respiro" diretto con Emilio Perrone, un'altra opera di qualità dal titolo Ombre nella memoria di cui è anche sceneggiatrice e produttrice.
E' un cortometraggio di genere thriller/drammatico che pur nella sua brevità dei 16 minuti riesce a suscitare emozioni e pensieri di livello decisamente alto, cosa che fa pensare a un potenziale espressivo presente nella giovane regista in grado di porre risolutamente in breve tempo i suoi film su un piano di qualità superiore alla media annuale dei film, sul genere, che escono in sala.
Annamaria Lorusso stupisce per come sa raccontare, e per la padronanza dimostrata nel mettere in pratica una sceneggiatura difficile che non ammetteva pause o sequenze frondose, un copione che puntava diritto a uno scorrimento narrativo di livello superiore, privo di ogni inceppo fantasioso di origine commerciale.
Sorprende inoltre l'abilità e la competenza estetica nella ripresa fotografica. La lingua fotografica di Annamaria Lorusso appare ricercata ed efficace, sopratutto nel sostituire, prevedendola, la parola eccessiva, un aspetto che ha evitato più volte nel film il formarsi di verbosità sgradevoli.
La fotografia suscita anche diverse emozioni nei dettagli di rinforzo, in particolare in quelli che sono più in relazione con le parti drammatiche delle scene.
Da sottolineare nel film anche i suoi contenuti socio-esistenziali, le cui problematiche umane sono espresse con chiarezza in tutte le loro specificità, quest'ultime leggibili senza sforzi negli sguardi, nei dialoghi, e nei comportamenti più estremi della gestualità dei personaggi.
Il film è supportato da una tecnica letteraria che riesce a metterne meglio in risalto la forza drammatica, essa consiste in un gioco di contrasti estremi tra pulsioni di vita e pulsioni di morte, qualcosa che riesce ad avvincere senza rinunciare mai ai toni di vero, così importanti quest'ultimi per mantenere in equilibrio un racconto.
Questo film sembra riuscire a dare un contributo significativo alla crescita di quella attendibilità artistica e qualità letteraria che il Cinema Indipendente merita da tempo. L'opera di Annamaria Lorusso è un'ulteriore dimostrazione della possibilità di creare ottime pellicole con progetti a badget irrisori, alla sola condizione di avvalersi di tutto un cast che crede senza riserve nel piacere e nella importanza della creazione di un prodotto artistico bello e privo di condizionanti preoccupazioni di mercato.
Il film si muove culturalmente su un versante dai forti richiami psicanalitici, teoricamente allusi, deducibili solo attraverso gli episodi, essi non fanno mai parte riflessiva diretta del film cosa che avrebbe fatto rallentare il ritmo della narrazione. Un altro aspetto positivo del film infatti è che si capisce bene come certi disagi apparentemente generici, causati da questioni familiari e sociali, siano in realtà costituiti da sintomi nevrotici precisi e di una certa gravità: come l'ossessione di ricordi legati al rimosso traumatico, gli irrefrenabili desideri patologici in forte relazione con una sessualità perversa e dissociativa; e per finire le vere e proprie forme di psicotizzazione tra cui spiccano i desideri incontrollati di eliminare fisicamente l'altro percepito fantasmaticamente come seduttore e carnefice responsabile del proprio destino esistenziale.
Nel cast sono presenti Roberto D'Antona, Greta Armenise, Luna Cacciatori, Domenico Uncino, Annamaria Lorusso, Marco Pagani, Stefania Chiodi, Emilio Perrone e Danilo Uncino.
Trama: "Ci sono ferite che non possono essere cancellate..."
Un giovane uomo inquieto, nevrotico forse per cause oggettive, disoccupato, fuggito di casa, è tentato continuamente di addossare la colpa di alcuni suoi mali a una giovane ragazza. Questo porterà l'uomo a perseguitarla? Quale segreto di origine biografica è presente nell'inconscio, tanto da renderlo così ossessivo? Chi è la giovane ragazza? Essa ha in qualche modo delle responsabilità sul disagio dell'uomo?
Il film sarà presentato in diversi festival e sarà possibile vederlo, almeno inizialmente, anche su You Tube.
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"SENTO SUL COLLO IL FIATO CALDO DELLA LEGGE, LI SENTO CHE FANNO LE LORO MOSSE, PIAZZANO PUPE DIABOLICHE COME INFORMATORI E CANTICCHIANO DAVANTI AL CUCCHIAINO E AL CONTAGOCCE CHE BUTTO VIA ALLA FERMATA DI WASHINGTON SQUARE, SALTO UN CANCELLETTO GIREVOLE, SCENDO A PRECIPIZIO DUE RAMPE DI SCALE DI FERRO, PRENDO LA METROPOLITANA IN DIREZIONE UPTOWN..." Cfr. The Naked Lunch, William Burroughs
La letteratura ha avuto il suo William Burroughs, e il rock ha avuto il suo Lou Reed. La sua scomparsa (avvenuta il 27 ottobre 2013) va ben oltre il semplice lutto per una delle più seminali e rivoluzionarie figure musicali di sempre, per tutto quello che ha rappresentato anche al di là della musica, per i suoi eccessi, per la teatralità e nondimeno per aver insegnato agli ascoltatori più incalliti che il rock non poteva essere più quel verginale paravento trasgressivo che comunicava qualcosa tipo il furore di vivere.
Per quanto Lou Reed sia stato, insieme forse al solo Iggy Pop, il personaggio più "adulto" e importante di una certa storia, non ha mai goduto del prestigio popolare di John Lennon, di Dylan, di Jim Morrison, avendo fin dall'inizio contribuito a rendersi ostico alle orecchie di quanti credevano veramente di conoscere la dimensione culturale del rock.
I Velvet Underground, prodotti da Andy Warhol, sembrano esistere nel mezzo di un
vernissage o un party tra intellettuali che leggono Baudelaire e Von Masoch, abusano di droghe, si vestono di nero come gli esistenzialisti francesi di qualche anno prima, amano la pittura e la poesia, le distorsioni e il cinema indipendente della Factory, ma soprattutto voltano le spalle al pubblico, e non portano camice a fiori. Quel lato perverso e diabolico dell'era Beat i Velvet lo hanno imparato grazie a Burroughs, ma anche a Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Sade, Jean Genet e altri ancora. Il loro nichilismo esasperato raggiunge il culmine con "Sister Ray", 8 minuti di distorsioni che sembrano indicare l'unica strada aperta per la Rivoluzione futura, un pessimismo invadente e irritante, una luce sinistra sulle future e purtroppo brevi aspettative della gioventù dei figli dei fiori.
Gli stessi Beatles avvertono questo malessere consegnando ai fans interdetti "Helter Skelter" e "Revolution 9", ma anche "A day in the life", mentre molti gruppi rock parlano apertamente di droga (Fugs, Jefferson Airplane, Rolling Stones, 13th floor elevators) ma quasi mai raccontando il grado di Separazione o disperazione dalla realtà terrena. Lou Reed in "Heroin" cita involontariamente il Burroughs di "La scimmia sulla schiena", riflettendo sul Malessere urbano, sull'autodistruzione fisica che porta all'abuso di certe sostanze. Non sono più Paradisi Artificiali, ma vere e proprie trappole di morte per uomini soli. E in fondo resta, prevale un sentore romantico, la Poesia decadente, che brucia nelle notti ai margini della tossicodipendenza e della fuga chimica.
E a tutto questo si oppone una musa bellissima e appariscente che ha lavorato con Federico Fellini ed è stata l'amante di Alain Delon, fotomodella tedesca e cantante, Nico. O la viola di John Cale, a invadere insinuanti, false ballate romantiche o tessere inascoltabili alchimie sonore minimaliste ("The black angel's Death song").
Occorre una notevole forza d'animo per capire che non sempre l'esperienza musicale può essere piacevole, anzi il disagio uditivo che provoca è forse l'elemento primario della sua innovazione, perché ha il dono sporco e proibito della verità.
E probabilmente è (anche) grazie a Lou Reed che oggi siamo in grado di ascoltare i dischi della Ug Records, la no-wave giapponese, il punk sperimentale e lisergico, le industrial-band, il dark contemporaneo e quello dei primi anni 80", e, perché no?, l'Heavy Metal. Probabilmente nessuno ha mai speso tempo e denaro ad acquistare o ascoltare i Velvet Underground o il primo Lou Reed, pochi tra gli adepti del black metal nordeuropeo l'hanno fatto, ma in un certo senso senza Lou Reed e il suo linguaggio musicale non avrebbero mai potuto capire o apprezzare gli Immortal o i Dimmu Borgir. Non si tratta certo di affinità musicali, ma di strane e lontanissime alchimie che richiamano all'iconoclastìa deviante di certe sonorità fuori dal comune.
Se (anche) la musica complessa e disturbante gode di una certa fama tra i giovani, le radici di questa attitudine sono anche qui, e non solo nelle chitarre lisergiche di Hendrix o nelle chitarre grintose degli Steppenwolf o Blue Cheer. Non c'è da stupirsi, pertanto, se l'ultimo album di Lou con i Metallica (Lulu) sia stato un insuccesso, e se detiene il primato di inascoltabilità - a detta di qualcuno - che molti hanno attribuito ai suoi tempi al micidiale "Metal machine music", che lo stesso Reed definiva con ironica saggezza "un album di musica classica".
"Lulu" è uno splendido concept che disintegra volontariamente il quartetto di James Hetfield, lasciando che il ruolo di distorsori siano i tanti sopravvissuti all'estetismo Metal degli anni 80'. E' una linea narrativa che fa a pezzi abiti neri e grand-guignol, consegnando alla storia un mosaico che parte da Pabst per arrivare a quel disco maledetto e "occidentale" che fu "Berlin".
Di solìto a parlare di Lou Reed si racconta sempre della sua tossicodipendenza, dell'omosessualità, di aver osato fare di "Transformer" - suo secondo album solista e primo capolavoro - un'Icona del movimento Glam. Perché - a dirla tutta - "Transformer" non ha molto a che vedere con i lustrini e tantomeno le voci in falsetto degli Slade o degli/lle? Sweet, ma sembra la lucida metamorfosi/trasformazione del sobrio cantore di vizi in un fantasma del Novecento, che attraversa il nazismo e Marlene Dietrich, Kurt Weill e Christopher Isherwood, proiettando su di sé la luce inquietante di un passatismo barocco e incisivo, ma al tempo stesso radicale.
Si autocelebra per la prima volta in uno dei più grandi dischi dal vivo mai realizzati, quel "Rock and roll animal" che dedica spazio ad altri fantasmi, come Billie Holiday, mentre il peccato ("Walk on the wild side") è esibito come scelta, condanna, esperienza, quasi come quegli attori di Hollywood costretti a dimagrire o ingrassare per avere il ruolo in un film.
"Venus in furs" viene citata spudoratamente nell'ultimo film di Roman Polansky, ma è anche l'unico momento davvero persuasivo dell'irritante "Last days" di Von Trier, perché celebra quella sorta di disonorata riconoscibilità che forse il buon Kurt Cobain non ha voluto cogliere.
"Berlin", il disco, che fece uscire di senno il produttore per averne riconosciuto, tra le righe, tracce della sua vita privata, è GIA' un film. Il film che non hanno mai potuto realizzare, che sarebbe piaciuto a Douglas Sirk o a Fassbinder, litania di quel vago senso di morte e separazione che racchiude ogni storia d'amore quando tracima nella tragedia.
Gli anni 60', il Beat, la Psichedelia finiscono con la morte di un giovane a un concerto degli Stones ad Altamont, la strage di Bel Air per opera di un fanatico satanista mancato folksinger (Charles Manson), la fuga mentale di Syd Barrett e tanti morti illustre sopravvissute a malapena ai trent'anni (Janis, Jim, Jimi, Buckley).
Il mondo mostra sempre più apertamente il suo lato oscuro e marcio, e Lou Reed è stato lo sciagurato profeta di quel futuro prossimo.
L'odio per le convenzioni e le autorità, la macchina del successo che ancor oggi miete vittime anche nel mondo del pop (Witney Houston, Micheal Jackson, Amy Winehouse) vengono ogni volta messe in discussione da quest'uomo antipatico e indisponente che, come l'Orson Welles nel cinema, semina per la strada operazioni velleitarie o incompiute, rari successi e sonori fiaschi annunciati.
Protetto forse dall'atteggiamento di chi per tutta la sua vita ha tentato di farsi capire, dedica alla musica una serie di opere sbagliate e controverse ("Sally can't dance", "The bells", "New sensations") e fugaci capolavori ("Street hassle", "New York", "Magic and loss", "The Raven") alternando il palcoscenico alla dimensione
spoken word, da narratore ma non proprio alla maniera di Lenny Bruce, e cucendo o rovinando definitivamente i rapporti con i vecchi amici (John Cale, Bowie, Nico, Maureen Tucker).
E' di pochi anni fa l'adattamento teatral-cinematografico di "Berlin" per opera di Julian Schnabel. A dirla tutta, l'operazione ricorda fin troppo certe operazioni di Andy Warhol, altro fantasma che emerge quando sembra troppo tardi, specialmente nel disco-tributo "Songs for Drella".
Il cinema gli deve molto, e persino i politici. Vaclav Havel pretese di essere intervistato dal suo idolo durante e dopo la sua campagna elettorale. E nel cinema di Leo Carax, Von Trier, Van Sant, Tarantino e Skolimosky, troviamo qualcosa che indirettamente porta a Lou e alle sue oscure canzoni.
Si innamora guardacaso di Laurie Anderson, artista d'avanguardia amica di William Burroughs e anima creativa di quella scena Newyorkese che, come ai tempi dei Velvet, percorreva i tempi con l'aria di chi ne conosceva la fine. Ne nasce un matrimonio anche professionale che rilegge Edgar Allan Poe e il free jazz di Ornette Coleman, Edgar Varese e Hoffman, sempre più attratto dalle storie turpi e crudeli, mai un vero lieto fine.
Salvo quando, forse, cantava l'amore con la sua voce fredda e nasale e non poteva comunque comunicare altro di una leggera inquietudine.
Lo sanno bene The Smiths, Pavement, Television, Fall, Vic Chesnutt, Nick Cave, Arab Strap, Xiu xiu, i Sonic Youth, Rollins e tutti gli altri musicisti che ne hanno raccolto le redini.
O anche quando rovescia il Mito Tragico di Romeo e Giulietta sperando che in qualche modo quei due amanti perduti si possano ritrovare per sempre. Un desiderio di espiazione virtuale, probabilmente