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"Io ne ho viste cose... Che voi umani non potreste neanche immaginarvi...". Alzi adesso la mano chi, tra i cultori del cinema, non riconosce in queste frasi l'inizio di uno dei monologhi più intensi e più belli che la storia del cinema ricordi, entrato ormai da più di vent'anni nell'immaginario collettivo del cinema, e non solo di fantascienza.
Questo monologo riusciva a comprendere, in poche frasi ed in pochi istanti di pellicola, la summa di un film destinato a fare scuola e a diventare forse il cult più cult della storia del cinema: sto parlando, naturalmente, di Blade Runner, girato da Ridley Scott nel 1982 e interpretato da Harrison Ford e Rutger Hauer.
Liberamente tratto dal romanzo di Philip K. Dick, Il cacciatore di androidi (di cui sono rimasti giusta l'idea di base e i personaggi) dagli sceneggiatori Hampton Fancher e David Webb Peoples, il film racconta le vicende di Rick Dekard (Harrison Ford), un "blade runner", ovvero un cacciatore di taglie del 2019, che riceve l'incarico di trovare ed eliminare cinque androidi fuggiti dalle colonie "extra-mondo" e giunti sulla Terra apparentemente con cattive intenzioni. In una cupissima e sinistra Los Angeles del futuro, sferzata costantemente dalla pioggia e dove il sole sembra non battere mai, Deckard inizia le sue indagini, che lo portano nei ghetti più malfamati della città, ormai popolata solo da personaggi bizzarri in cerca di una disperata sopravvivenza, in un mondo ipertecnologico ma allo stesso tempo disfatto che sembra aver inghiottito ogni rimasuglio di umanità. Ed ecco il fantastico paradosso: ben presto Deckard scopre il vero motivo della fuga di questi androidi, alla ricerca del loro padre-creatore, affamati di domande e di vita, consapevoli di essere destinati a spegnersi dopo solo quattro anni di attività e non disposti ad accettare questo destino, aggrappati alla vita forse più dei personaggi umani del film.
E incontrerà anche una ragazza splendida (Sean Young) nella sua innocenza di cui si innamorerà, ma su cui cadrà l'orrendo dubbio: sarà anche lei tra gli androidi che lui sta cercando?
Quando un film diventa di culto una motivazione ci deve essere, esistono, secondo me, film che forse grazie ad un'ispirazione generale di tutte le persone che ci lavorano, che entrano magicamente in sintonia tra di loro, sono destinati ad essere praticamente perfetti. Blade Runner è sicuramente tra questi, e costituisce senza dubbio una pietra miliare del cinema di fantascienza, paragonabile forse al Metropolis di Fritz Lang, e in generale della storia del cinema.
Ridley Scott, già autore del precedente Alien, dimostra di trovarsi a suo agio nel genere fantascientifico e gira il suo capolavoro più importante, regalandoci atmosfere e ambientazioni di grande suggestione che ancora oggi, a distanza di quasi 22 anni, nessuno è mai più riuscito a rievocare, nonostante alcuni tentativi (Minority Report). Indimenticabili le sequenze aeree iniziali su una Los Angeles notturna e agghiacciante nella sua cupezza, sferzata da macchine volanti e sullo sfondo illuminate da sinistri sfiatatoi infuocati: una metropoli in cui accanto ad immensi cartelloni pubblicitari, che campeggiano rumorosi su indifferenti cittadini occupando intere facciate di grattacieli, convivono ghetti suburbani in disfacimento, dove la tecnologia sembra essere stata solo autrice di corruzione fisica e mentale (il personaggio di Sebastian, ingegnere di grande importanza ridotto a fenomeno da baraccone da una rara malattia e costretto a vivere in un intero edificio deserto e abbandonato insieme a sinistri robot-giocattoli da lui stesso costruiti che gli tengono compagnia).
Un'ambientazione in cui Scott non concede nulla all'umanità: tutto è caos e confusione, o deserto e abbandono, mentre Deckard attraversa una strada di mercato popolata da gente di ogni razza che cicaleggia, si ritrova poco dopo nel suo appartamento, attraversato da ombre e cangiante, un posto dove regna anche lì il dubbio e l'incertezza, dove poter stare in solitudine e scoprire, forse, in un mondo che priva di certezze, di non conoscere nemmeno la propria identità o quella di chi lo circonda.
E la chiave di lettura del film va individuata attraverso il punto di vista degli androidi alla ricerca del loro creatore, tra cui spicca Roy, interpretato da Rutger Hauer: è soltanto attraverso la sua disperata rabbia verso il proprio "padre", colpevole di averlo creato con soli quattro anni di autonomia, e attraverso il suo splendido monologo recitato poco prima di morire/spegnersi davanti a uno stupefatto Harrison Ford al quale ha appena salvato la vita, che riusciamo a scorgere un barlume di speranza e umanità, paradossalmente in chi non avrebbe dovuto averla. E le parole finali dell'androide sono anche rappresentative della cupa e tragica disperazione di fondo che aleggia attraverso tutta la pellicola, e che finalmente si libera e si rende visibile, sottolineata anche dalla colomba bianca che vola via dalle mani di Roy verso il cielo: è tempo di morire...
Una nota di merito agli attori, sia ad Harrison Ford, qui alla sua prova migliore e alla sua parte più importante della sua carriera, che a Rutger Hauer, attore che ha saputo dare il giusto carisma all'importantissimo personaggio di Roy. Ottime anche la fotografia e soprattutto la struggente colonna sonora composta da Vangelis, che sottolinea in maniera perfetta le atmosfere e le ambientazioni del film, e in particolar modo il legame di Deckard con Rachel.
Per concludere, una curiosità sul film: la pellicola attraversò alcune vicissitudini di produzione, in quanto il produttore, una volta concluse le riprese, riteneva che il film fosse troppo cupo e pessimista ed impose così che venisse girato un finale alternativo, che è poi quello ufficiale in cui Deckard e Rachel si allontanano in macchina attraverso un paesaggio finalmente illuminato dal sole e verdeggiante (una sorta di e vissero felici e contenti, insomma). Non essendoci il tempo per fare delle ulteriori riprese aeree con l'elicottero, Stanley Kubrick offrì il suo aiuto all'amico Scott e gli regalò alcune sequenze da lui scartate, da poter utilizzare per il finale di Blade Runner.
La sequenza finale del film, in pratica, cioè la ripresa aerea tra le nuvole che segue la macchina di Deckard, non è altro che una sequenza scartata per la scena di apertura del film Shining di Stanley Kubrick!
E dopo questa "chicca", non mi rimane altro da fare che definire Blade Runner un capolavoro, una pellicola assolutamente imperdibile per qualsiasi amante di cinema. Non vedere questo film significherebbe perdersi un tassello fondamentale della cinematografia contemporanea.
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Recensione a cura di stefano76 - aggiornata al 30/12/2003
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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