Recensione dead or alive regia di Takashi Miike Giappone 1999
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Recensione dead or alive (1999)

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locandina del film DEAD OR ALIVE

Immagine tratta dal film DEAD OR ALIVE

Immagine tratta dal film DEAD OR ALIVE

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Immagine tratta dal film DEAD OR ALIVE

Immagine tratta dal film DEAD OR ALIVE
 

"I generi sono per i distributori e per gli spettatori. Penso non abbiano nulla a che fare con chi realizza il film".

All'inizio si ha la sensazione di assistere a qualcosa di nuovo. Poi, il tutto raggiunge un precario equilibrio che si sfalda nuovamente alla fine. "Dead or Alive" è questo; un film "imploso", un lungo discorso fra parentesi reso quasi aleatorio proprio a causa di quelle pesanti e indimenticabili parentesi: i primi 5 minuti e gli ultimi 5 minuti. E' grazie a codesto film che Tom Mess partorì la bibbia miikiana "Agitator: the cinema of Takashi Miike", fino a poco tempo fa unico saggio dedicato all'imprendibile Miike.
Saggio nato proprio dall'incredulità e sgomento di Mess dinnanzi alle due ingombranti parentesi di "Dead or Alive", le quali non possono certo lasciare indifferenti. Queste saranno discusse in seguito; ma la sfida è riuscire a parlare di "Dead or Alive" occupandosi anche del contenuto delle parentesi, ovvero il film in se. Cosa non facile. Proviamo.

Nel caotico universo miikiano il genere non è essenziale, raramente un suo film non è imbastardito da varie contaminazioni. "Dead or Alive" non fa eccezione, e si consideri che è opera comunque ancorata ad una certa logica narrativa, abitudine che verrà poco a poco messa in disuso (anche se non abbandonata) in favore di quella che potrebbe essere definita una sorta di libertà dalla coerenza razionale, libertà ostentata con pellicole quali "Gozu" e "Izo".
"Dead or Alive" è ancora un film "normale", che per gli standard di Takashi vuol dire ancora indigeribile per parecchi. Come detto in precedenza, a Miike di stare all'interno di un genere proprio non gli va giù, ma tuttavia questo primo capitolo di una fortunata trilogia è di fatto uno yakuza movie, anche se qui i toni sono ben distanti dall'altra trilogia della guerra delle mafie; tanto era serio e coerente quel trittico quanto qui si assiste a notevoli sbandamenti della ragione.
Non pare il caso di pontificare troppo sulla trama che, diciamocelo, non è poi così né originale né dissimile dal canovaccio che Miike spesso ci presenta. Gli archetipi, del resto, sono condannati ad essere archetipi, con buona pace della ricerca dell'originalità a tutti i costi. C'è il tema del gruppo "dissociato" degli yakuza, che non vuole stare da nessuna parte ma vuole invece prendere il controllo delle varie parti.
Ci sono i personaggi che sembrano non avere radici, che paiono estranei ovunque li si metta. E c'è l'eterno conflitto tra il poliziotto e lo yakuza, i cui ruoli spesso si invertono. E soprattutto, non c'è uno sguardo privilegiato su nessuno; Miike sceglie di stare con entrambi i suoi due protagonisti, è affezionato ad entrambi alla stessa maniera, tanto da far perdere la nozione di protagonista/antagonista. Ama talmente la coppia che piuttosto che vedere morire solo loro fa in modo che i due si portino appresso il mondo intero, nel momento del fatale trapasso. Non so voi, ma io non avevo mai visto una tale dichiarazione d'amore di un regista nei confronti dei suoi personaggi.

Un dato che mi pare non trascurabile è l'ammirazione che Miike (da lui confermata) prova per l'universo yakuza. Quanto afferma chiaramente non fa riferimento alle loro metodologie criminali - cioè metodologie deprecabili e molto poco carine nei confronti di qualsiasi istituzione legale - ma alla yakuza come espressione di una microsocietà perfettamente autosufficiente e autogestita, la cui sopravvivenza è determinata da ferree ed inappellabili regole di sopravvivenza. Nella rigida società giapponese, in cui il rapporto maestro/allievo è pressoché ineludibile, l'infrazione alla regola è celermente punita. La pratica è portata all'estremo nel micromondo yakuza, dove anche i più piccoli errori si pagano con le falangi asportate.
E il gruppo di Ryuichi fallisce per aver cercato l'indipendenza, così come il poliziotto Jojima fallisce per non essere in grado di provvedere alla sua famiglia. Non c'è da meravigliarsi che i due siano in qualche modo a caccia l'uno dell'altro. Lo sfaldamento del poliziotto si fa concreto quando per procurarsi dei soldi necessari ad un'operazione per la figlia è costretto ad affidarsi alla yakuza, la medesima organizzazione che dovrebbe contribuire ad eliminare e alla quale invece si affida.
Ryuichi non riesce invece a gestire la sua nuova condizione di dissociato. Prima elimina un membro della sua gang, non ravvedendo in quest'ultimo lo stesso tipo di tradimento che lui stesso ha appena compiuto nei confronti del gruppo più grande.
Poi perde la fiducia del fratello, mentre questi perderà la sua vita poco dopo.

Lo sradicamento dal territorio di Ryuichi è totale, e si completa con la cessazione degli ultimi legami che lo legano ad un nucleo familiare. Divenuto autentico "rainy dog" non riesce nemmeno a proteggere la sua donna, affogata nella sua stessa merda.
E il poliziotto segue bene o male le stesse vicende, solo "dall'altra parte", dalla parte a cui fanno solitamente capo i "buoni". Poliziotto dalla deontologia professionale quantomeno dubbia, perde anch'esso, in sequenza, prima il collaboratore e poi la famiglia.
E' solo dopo essersi liberati degli ultimi affetti che i due possono finalmente affrontare se stessi in una lotta non priva di conseguenze ecologiche.
Il tutto orchestrato da una regia che si potrebbe definire empatica, nel senso che non c'è quasi mai contrasto fra lo stile registico adottato e lo stato delle vicende presentate: fotografia scura nei momenti di particolar rilevanza pessimistica, lunghi piani sequenza a cui fanno eco momenti densi di phatos, rari primi piani che tendono ad enfatizzare una figura piuttosto che un'altra. Non si assiste quasi mai a regie coreografiche come quelle di un certo Woo, in cui l'eleganza della costruzione del découpage la vincono sul film stesso.
Tutto questo, of course, per ciò che riguarda il contenuto delle parentesi.
Perché nei primi e negli ultimi 5 minuti tutto va a farsi benedire, e a ben guardare un incipit e una conclusione del genere non possono che essere realmente benedetti.
Se non si è disposti a sospendere per 10 minuti il nostro eventuale ateismo non possiamo comprendere l'immensità divina di ciò che abbiamo di fronte.

Intendiamoci subito, a scanso di equivoci: per chi scrive un inizio del genere è insuperato e ineguagliabile, dalla nascita del cinema sino ad oggi. Un inizio talmente forte e potente da far quasi chiudere un occhio sul fatto che il film in se non sia poi tutto sto capolavoro; sicuramente "Dead or Alive", se evirato dei primi 5 minuti non vale un millesimo di un "Ichi the killer", di un "Visitor q", di un "Gozu" o di un "Audition".
In 5 minuti si assiste praticamente a tutto ciò a cui è possibile assistere: omicidi, stupri anali, sadomaso, pippate di una pista di coca di almeno 3 metri, omicidi brutali, gente buttata dal balcone come un mozzicone di sigaretta, ristoranti che esplodono, carrelli della spesa con armi da fuoco varie tra le verdure, il contenuto di una cena cinese evacuata non dal sedere ma direttamente da un buco nello stomaco, gang che lottano per il possesso di una mega partita di coca, zampilli di sangue in luogo di quelli allo sperma.
Insomma, c'è materiale sufficiente per almeno due film autonomi, ma Miike è riuscito, probabilmente non sa bene manco lui come, a condensare il tutto in 5 minuti.
Sequenze al fulmicotone, passaggi che rasentano il subliminale, violenza esplicita ma flusso narrativo costante, chiaro e limpido, a prova d'imbecille.
E fatto un miracolo se ne fa un altro. Il miracolo è esser riusciti ad incastrare tutto ciò in una costruzione sintattica che denota una sapienza del montaggio che un eufemista definirebbe "praticamente rara"? Bene, ecco l'altro capolavoro: riuscire a montare questi frammenti di sequenza urlanti e lacerati in formato videoclipparo senza essere videoclipparo.
Nel senso che non c'è un grammo di cialtroneria videodilettantesca, non c'è indulgenza naif ma solamente ottimo cinema. L'incredibile incipit è supportato da un'altrettanto martellante colonna sonora heavy metal, ma nonostante ciò non c'è un grammo di Mtv in tutto questo. Lo ripeto, solo estrema consapevolezza cinematografica che prende fermamente le distanze da quell'insopportabile metodologia di sfornare film, che tanto piace ad un certo tipo di pubblico odierno... un pubblico che poco o per nulla ama ciò che fagocita con insolente bulimia avanzata e cronica.
Il giorno in cui qualcuno riuscirà a "doppiare" Miike in quest'inizio producendo cinema e non video mi faccia un fischio.

Come già sostenuto, una visione del genere basta a tener occupata la mente per un'oretta buona, probabilmente infondendo un valore aggiunto al film che segue. Ripeto, film che preso in se non è certamente un capolavoro, ma che ha però la rara fortuna di sovrapporsi alla sua prima parentesi che lo delimita.
Ma proprio quando la coscienza del piccolo cineasta che è in noi fa capo per farci timidamente notare di svegliarci da quella visione di sogno, ecco che il film termina.
E la parentesi si chiude; ma che parentesi.
Siamo all'inevitabile resa dei conti, che in questo caso trascinerà nella distruzione qualche persona in più rispetto a quelle a cui siamo abitualmente soliti assistere. Ryuichi e Jojima hanno iniziato a darsele per bene, quando i due si crivellano frontalmente grovierandosi a vicenda. La logica vorrebbe che i rispettivi corpi si accasciassero a terra, esanimi.
E mentre ciò sta effettivamente per accadere, "qualcosa" interviene per infondere una nuova vitalità alla coppia. Si noti il loro sguardo, ben diverso da quello da cui erano in precedenza animati. E'uno sguardo che non appartiene più ai due esseri umani, bensì alla volontà che stanno in quel momento incarnando.
Jojima estrae dalla schiena un bazooka e Ryuichi immerge la mano nel petto estraendo una palla d'energia che lancia al poliziotto mentre questi fa fuoco. I due colpi si intercettano e detonano, lasciandoci con l'immagine del globo terrestre distrutto dall'anello di fuoco che si genera e che ha come epicento il Giappone. Fine.
Se non siete avvezzi all'estetica di un certo tipo di manga potreste rimanere alquanto disorientati.
Ma il problema è tutto vostro.

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Recensione a cura di cash - aggiornata al 24/05/2006

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