Voto Visitatori: | 8,67 / 10 (27 voti) | Grafico | |
Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
Un'altra emersione dagli abissi umani, un racconto struggente sulla morte come delitto, incidente, condanna. All'interno della serie scritta da Kieslowski e Piesiewicz, "Decalogo 5 - Non uccidere" si distingue per la forte tinta socio-politica dei contenuti, ma anche per la resa visiva volutamente divergente. L'angoscia, vera sostanza atmosferica della pellicola, è battezzata sentimento stilistico: le inquadrature sono soffocate da una cornice atra, deturpate da una sgradevole cromia gialla. Varsavia sembra paralizzata negli attimi che precedono il tramonto, abbacinata da un'ultima violenta esplosione di luce. Gli edifici e i corpi subiscono riverberi verdognoli, quasi espressionisti.
L'intreccio narrativo per l'appunto intreccia. Tre i personaggi principali: il ventenne Jacek, il tassista, il giovane avvocato Piotr. Nella parte iniziale le loro vite scorrono disunite, talvolta simultanee, talvolta asincrone. Ma netta è la sensazione che siano in qualche modo simmetriche, destinate ad urtarsi.
Lo spettatore è chiamato ad intuire, a registrare gesti, parole, espressioni. I dettagli pulsano, i profili iniziano ad affiorare dalla loro perturbante complessità.
Studio di Jacek
Ci imbattiamo in Jacek mentre girovaga per le vie cittadine in cerca di un taxi. Incontri fortuiti: un gruppo di teppistelli, una vecchia burbera, un artista di strada e la sua piccola modella. Qualche scena più avanti lo vediamo appoggiarsi a un cavalcavia e spiare la stazione dei taxi dietro di sé. Sta elaborando un'idea precisa, ma una pietra distoglie la sua attenzione. Con un tocco leggero la fa precipitare nel vuoto, giù nella trafficata strada sottostante. Udiamo vetri che si rompono, clacson impazziti. In seguito percuoterà un ragazzo nel bagno pubblico, sputerà nella tazzina dopo aver bevuto il suo caffè. Jacek esterna disprezzo, appare nauseato da qualcosa, forse dal fardello di un ricordo. Ad un certo punto decide di far ingrandire la foto di una bambina. Alla commessa dello studio fotografico chiede: "E' vero che da una foto si può capire se uno è vivo o no?" Sentiamo che il presente è una patina sottile, il passato una massa incandescente.
Ritroviamo Jacek in un bar. Scherza con due ragazzine al di là della vetrina, ed è ermetico ma significativo quel suo sorriso di penosa dolcezza. Qualche istante dopo, nascosto dal tavolino, si attorciglia la mano con una corda bianca.
Ritratto del tassista
Il tassista, uscendo di casa, viene quasi colpito in faccia da uno straccio caduto dall'alto. Chiede ad un condomino se sa di chi sia, sottintendendo che gli è stato gettato addosso di proposito. L'ingresso nella storia denota subito il fare astioso del personaggio. Le sue comparse successive ce lo confermano: prima sghignazza compiaciuto verso una garzoncella in abito corto, poi lascia a piedi una coppia infreddolita. Crediamo di scorgere un briciolo di amabilità quando rinuncia al pranzo per darlo ad un cane randagio. Ma poco dopo, in tediosa attesa fra gli strombazzi della città, spaventa divertito due cagnolini al guinzaglio.
Siamo di fronte ad un uomo frustrato, disgraziatamente anonimo, annichilito dalla noia; a placarla becere birichinate, piccoli insulsi atti quotidiani.
Ritratto di Piotr
Incontriamo Piotr pochi istanti prima dell'esame da procuratore. Impaziente, sigaretta alla mano, ripercorre con la mente i passi di un discorso. Finalmente viene accolto in aula e si è colpiti dal suo fremente entusiasmo, dal graffio educato ma puntuale con cui sottolinea la fallibilità della "macchina della giustizia" e la funzione "intimidatoria" della condanna. I frammenti dell'oratoria tratteggiano un animo limpido, caparbio. In questa fase della narrazione Piotr è il personaggio più statico e insieme il meno inibito: lo si vede di rado, seduto davanti ad una tazza di tè, nell'unica azione del parlare. La voce oltrepassa le pareti, invade e in qualche modo delinea le vie di Varsavia, le stesse percorse da Jacek. I due giovani non si conoscono ancora, eppure sono già idealmente legati. Suona profetica una frase di Piotr: "(questa professione) è interessante perché mi permette di conoscere e capire persone che altrimenti non incontrerei mai".
Delta di vite
La svolta cruciale della storia corrisponde ad un evento di sangue: Jacek uccide il tassista, Piotr assume la difesa giudiziaria. Innanzitutto val la pena soffermarsi sul delitto, sulla straordinaria cura registica in questo frangente di massima tensione. Non assistiamo ad un omicidio "pulito", rapido, da professionisti. Quando il tassista, forse avendo notato un passante, suona il clacson con insistenza, Jacek va nel panico. Assicura al sedile la corda bianca con cui sta strangolando la vittima e cerca di staccarle la mano dal volante. Ci riesce, ma l'andatura rumorosa di un treno rompe nuovamente il silenzio della vallata. Jacek percuote l'uomo con una spranga; "Oh Gesù" sussurra, vedendo i rivoli vermigli sul volto che gli è di fronte. La morte tarda beffardamente a sopraggiungere e Jacek, prima di gettare il corpo in una pozza, è costretto a finirlo con una grossa pietra. Quindi torna nel taxi, cercando di sopprimere il terrore con un atteggiamento di fredda disinvoltura: mangia qualcosa, accende la radio. Presto però la gaia canzoncina diventa insopportabilmente grottesca.
Kieslowski non censura nessuna fase della vicenda, costringendoci a vedere tutto, ogni titubanza di colui che uccide e ogni convulsione di colui che sta morendo. Noi siamo lì, testimoni oculari onniscienti. L'obiettivo della cinepresa reclama l'obiettività del nostro sguardo.
"E' tutto finito signor avvocato?" chiede Jacek. "Finito" risponde Piotr. Sono in un tribunale, un anno dopo. Jacek è stato condannato alla pena capitale. Piotr è turbato dal fallimento, si chiede se abbia fatto tutto il possibile. Scopriamo che il giorno dell'esame era stato nello stesso bar in cui Jacek maneggiava la corda. Piotr sente su di sé il peso della responsabilità, come avvocato e come uomo. "Oggi lei è diventato un po' più vecchio" gli annuncia con benevola saggezza un vecchio giudice.
Le ore che precedono l'impiccagione sono scandite dai consueti preparativi; l'allestimento minuzioso dell'esecuzione, la calma con cui la guardia carceraria svolge le mansioni, la comparsa sulla scena di un'altra corda bianca percuotono l'emotività dello spettatore.
Jacek intanto ha chiesto di parlare col suo avvocato. Verremo a sapere che da poche ore Piotr è diventato padre: nascita e morte si abbattono trasversalmente su di lui quasi nello stesso momento. In tutto il "Decalogo" il caso non disegna tracce casuali, piuttosto segue una logica di contrasti, percorre i solchi di un'ironia sempre sprezzante, quando non crudele.
Ritratto di Jacek : il "non finito" di Krzysztof
Il dialogo fra Piotr e Jacek offre la possibilità di accendere l'interruttore. Fino a questo momento ci siamo mossi a tastoni in una dimensione ambigua, costellata di indizi, rischiarata dall'evidenza di alcuni fatti, ma pur sempre incompiuta e disorientante. C'è un profilo ancora abbozzato, un elemento impalpabile che disturba: Jacek, chi è davvero? I due Krzysztof sceneggiatori sono troppo rispettosi delle zone sfumate della realtà per dare una risposta univoca. Ci concedono un ritratto coerente ma "non finito", una sagoma riconoscibile ma schiusa.
Parlando, ponendosi come oggetto di ascolto, il personaggio di Jacek trasfigura la propria consistenza: prima animale schivo, ora individuo vibrante. Piotr, dal canto suo, si fa amico silenzioso, composto ma partecipe. Fra i due uomini viene a stabilirsi lentamente una connessione fraterna.
Jacek prega Piotr di occuparsi della madre dopo che sarà morto, quindi esprime la volontà di essere tumulato vicino al padre e alla sorellina. Marysia, racconta, giace nel cimitero da cinque anni, dopo essere stata investita in mezzo a un prato da un trattore. Il ragazzino alla guida si era da poco ubriacato insieme a Jacek. Ecco, l'interruttore.
Jacek non riesce a perdonarsi un tragico errore di distrazione (distrazione: il pensiero si disgiunge dalla realtà). Noi tutti ne veniamo affetti innumerevoli volte nel corso della vita. Densi di un'ingenuità che non può definirsi colpa, sottovalutiamo il riflesso delle piccole scelte sulle esistenze altrui. Jacek ha combinato una mascalzonata da adolescente, e ha creduto, com'è normale, di poter tornare tranquillo al suo letto la sera. Nessuno potrebbe mai biasimarlo per essersi cullato in una tale convinzione, perché nessuno è immune da una certa presunzione difensiva (presunzione difensiva: l'orribile accade, ma accade agli altri, non può accadere a me, né a chi mi è caro).
Il gioco dell'impiccato
Gli ultimi anni di Jacek prima della condanna paiono far parte di un crudele gioco dell'impiccato. Egli ha cercato disperatamente di risolvere l'enigma del proprio dramma, sino ad esaurire i tentativi.
L'oscenità che spesso investe la morte obbliga ad interrogarsi su quella che è forse la più banale (e dunque la più difficile) delle questioni umane: il senso. La morte brutale di Marysia rivela la convivenza di due forze: una legata alla volontà individuale; l'altra burattinaia, ignota, fatale. Jacek si convince d'essere come quell'Achille zenoniano che non può mai raggiungere la tartaruga. A che pro agire in base a determinati valori se correre a fianco del caso non si può? E com'è possibile che il caso (o Dio) punisca senza pietà i passi falsi dell'uomo durante la corsa? Intuiamo che Jacek non ha trovato risposte a queste domande, né si è rassegnato con serenità al dubbio. Ha riprodotto sulla propria anima gli strappi intravisti nella realtà, si è ribellato attraverso il disprezzo, ha ammazzato l'atro per squarciare se stesso.
"Il signor direttore e il signor procuratore chiedono se siete pronti". Così viene interrotto il colloquio fra Jacek e Piotr. La risposta di quest'ultimo è esasperata: "Io non sarò mai pronto. Glielo vada a dire al signor procuratore". Il tempo è ormai scaduto e Jacek viene prelevato dalla cella per essere condotto al patibolo. "Non voglio" mormora, divincolandosi per sfuggire alla presa delle guardie. Sul volto leggiamo i segni lasciati dalla prigionia, da quell'attesa atroce che porta con sé un eccesso di consapevolezza. Jacek è come chi, svegliandosi di colpo la notte, adocchia accidentalmente le lancette della sveglia ed è sorpreso dall'agonia di sapere quanto sia tardi.
Viene data lettura della sentenza, un excursus di date e codici spaventosamente formale. Al condannato è concesso di fumare un'ultima sigaretta, ma gli spasmi della paura sono incontrollabili. La benda viene legata agli occhi, il cappio regolato al collo, la botola aperta sotto i piedi. Tutto si svolge con pragmatica fretta e ancora una volta Kieslowski ci chiama a conservare ogni istantanea. Stavolta sì, assistiamo ad una morte "pulita", inflitta in tempi brevi e senza eclatanti imprevisti, secondo la deontologia professionale.
Il film si chiude con le grida reiterate di un Piotr ormai sfinito, disincantato, sconfitto. "E' rivoltante!". "E' intollerabile!". Sono parole volutamente enfatiche, eccedenti, quasi superflue, una pecca di sceneggiatura necessaria.
"Decalogo 5" è stato trasmesso dalla televisione polacca nel 1990. La Polonia ha abolito la pena di morte nel 1997.
Violato da due penne laiche, il quinto comandamento biblico ha oltrepassato la sua valenza imperativa, si è fatto scherno per chi ha ucciso senza volontà, sfida per chi ha ucciso per disintegrarsi, vergogna per chi ha ucciso in nome della legge.
Post scriptum
Occhi che danno l'impressione d'aver visto tutto e di poter vedere tutto: il personaggio muto del "Decalogo" qui compare nelle vesti di un operaio. Incrocia Jacek poco prima del delitto, Piotr poco prima dell'esecuzione. Quello sguardo fisso, combinazione straordinaria di gelidezza e complicità, instilla compassione nel nostro. Sembra scorgere le venature più eclissate dei cuori, fotografare le lacerazioni più dolorose ancora prima che vengano inferte.
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Recensione a cura di pier91 - aggiornata al 15/02/2013 16.10.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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