Recensione departures regia di Yojiro Takita Giappone 2008
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Recensione departures (2008)

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Miglior film straniero
VINCITORE DI 1 PREMIO OSCAR:
Miglior film straniero
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locandina del film DEPARTURES

Immagine tratta dal film DEPARTURES

Immagine tratta dal film DEPARTURES

Immagine tratta dal film DEPARTURES

Immagine tratta dal film DEPARTURES

Immagine tratta dal film DEPARTURES
 

Daigo Kobayashi suona il violoncello in un'orchestra di Tokyo. Quando questa viene sciolta decide, con sua moglie Mika, di tornare nella sua città natale. Là accetta, all'insaputa di Mika, un lavoro come cerimoniere funebre. Il contatto con la morte e la ritualizzazione dell'ultimo saluto ai defunti, se dapprima lo avevano spaventato, in seguito gli offriranno l'occasione di guardare alla vita da una prospettiva differente.
Daigo ha appena perso il lavoro, e questo prelude sempre ad un cambiamento della propria vita. Nel suo caso il tutto si traduce con la decisione di tornare al paese dei suoi genitori e là ricominciare accettando un lavoro del tutto nuovo. Venduto il violoncello e accantonato così il suo passato, Daigo si trova di fronte alla scelta se accettare un lavoro come cerimoniere funebre, ben retribuito e di cui in parte teme l'impatto, o rimanere in attesa di qualcosa di diverso. Decide, soprattutto perché travolto dal fervore del suo nuovo datore di lavoro, di cimentarsi nella composizione e nella vestizione rituale dei corpi prima della cremazione, ma senza avere il coraggio di parlarne con la moglie. Quello che però Daigo aveva sottovalutato è l'effettivo impatto di un rapporto così ravvicinato con la morte.

La vasta filmografia di Yojiro Takita comprende titoli che sono giunti anche in Europa, come il fantasioso "The Yin Yang Master" ("Onmyoji", 2001) e il suggestivo "Ashura" ("Ashura-jô no hitomi", 2005). Ma con questo "Departures" ("Okuribito") il regista supera di molto i suoi lavori precedenti, rivelando una sensibilità stilistica di rara intensità e, collocandosi tra i più poetici cantori dell'ultimo cinema giapponese, vince un meritatissimo Oscar come miglior film straniero.

L'intero racconto non è altro che la rappresentazione rituale dell'accettazione del destino ultimo, che se è pur vero che è condiviso da tutta l'umanità, viene comunque celebrato in modi radicalmente diversi in ogni cultura. In Asia, e in particolare in Giappone, dove la cremazione è la pratica più diffusa, la vestizione e l'estremo saluto assumono connotati assai ritualizzati, dal momento che venendo meno l'inumazione e il successivo rituale della visita al sepolcro, si tratta dell'ultima occasione per i parenti di omaggiare il defunto e di salutarlo per sempre. Il corpo verrà successivamente cremato e le ceneri conservate sull'altare di famiglia insieme alla foto davanti alla quale verrà tenuto costantemente acceso un incenso.

Se già nel capolavoro "Vital", del maestro Tsukamoto Shinya, avevamo avuto modo di sbirciare attraverso il velo dell'universo sospeso tra il mondo attuale e quello fantasmatico di un Oltre che non conosce definizioni religiose sia pure di valenza consolatoria, in questo Departures ci troviamo davanti al passaggio come segno e simbolo di quello che è stato e del significato che ciascuno di noi assume nella propria vita agli occhi dei propri cari.
Daigo rappresenta in parte lo spettatore che viene accompagnato nell'universo dell'ultimo saluto da un maestro cerimoniere, il quale attraverso la celebrazione dell'antico rito della vestizione rende solenne il passaggio e tollerabile la separazione dai defunti. Il rituale della vestizione è uno dei momenti più poetici del racconto, e se dapprima sia lo spettatore che il protagonista si avvicineranno con certo timore alla pratica rituale che rivela la caducità dell'esistenza, sarà con un certo sollievo che, successivamente entrambi scopriranno il valore catartico di un processo teso a rendere solenne l'inevitabile saluto.

Attraverso l'acquisizione della tecnica e la padronanza del rituale Daigo imparerà a guardare alla vita da una prospettiva nuova e questa capacità gli tornerà utile nel momento del recupero del suo passato e della storia familiare interrotta e perduta lungo il cammino.
L'incontro con il padre che lo aveva abbandonato, e che da morto lui non riconoscerà, sarà segnato dall'acquisita capacità di perdonare e di decidere a partire da sé stessi e non più dal rancore accumulato negli anni.

La bellissima fotografia e la regia sobria suggeriscono una dimensione altra, alternativa al mondo degli affanni quotidiani e del continuo inseguimento dei propri obiettivi. E la misurata intepretazione di Masahiro Motoki stabilisce quella complicità con lo spettatore che sola rende comprensibili le scelte esistenziali di un uomo semplice e l'infinita capacità di trasformazione dell'animo umano.

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Recensione a cura di Anna Maria Pelella - aggiornata al 16/04/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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