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"Non pulire questo sangue" è la frase che un'anonima ragazza scrisse sul muro della scuola Diaz il giorno seguente i drammatici fatti accaduti durante il G8 di Genova, nel luglio del 2001. Come dire nessuno cancelli la prova di quanto successo, nessuno osi dimenticare i fatti accaduti dentro queste mura.
Fatti che Amnesty International ha definito "la più grave violazione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale", come recita lo slogan sui poster promozionali del film di Daniele Vicari.
La più grave violazione dei diritti democratici o la più grossa vergogna di un paese civile? Perché è la più grossa vergogna di un pese civile vedere i tutori della legge, che tra gli altri hanno il compito di garantire l'incolumità dei cittadini, che si trasformano in macellai di quelle stesse persone che dovrebbero tutelare.
Il film di Daniele Vicari ricostruisce quei fatti e testimonia una verità incontrovertibile, per ricordare (o far conoscere) gli eventi drammatici e scandalosi accaduti "la notte in cui la democrazia fu sospesa". Eventi che con estrema (e interessata) facilità sono stati rimossi o dimenticati (o nascosti).
Il 21 luglio del 2001 è il giorno più nero del G8 di Genova; il giorno prima, mentre i potenti della terra sono riuniti per discutere dei problemi mondiali, la città è messa a ferro e fuoco dagli scontri tra le forze dell'ordine e i Black Block, che sono stati fatti infiltrare tra i cortei dei no-global e pacifisti che manifestano il loro dissenso alla politica economica neoliberista dei governi dei maggiori paesi industrializzati.
Già dalla mattina di venerdì 20 le forze dell'ordine apparivano scatenate come non accadeva da molti anni nel nostro paese: picchiano tutti, medici, sindacalisti, giornalisti, operatori tv e fotografi, finanche alcuni parlamentari, mentre le tute nere, che accendono incidenti un po' dappertutto, vengono sostanzialmente lasciati liberi di agire indisturbati e di violare la "zona rossa", l'area del centro storico resa inaccessibile per proteggere il vertice in corso a Palazzo Ducale.
Dopo ore di aggressioni poliziesche in mezza Genova, in piazza Alimonda si consuma la tragedia: un colpo di pistola sparato da un poliziotto ferisce gravemente alla testa il 23enne Carlo Giuliani, che cade sull'asfalto e viene travolto dalla camionetta della polizia da cui è partito il colpo.
Dopo l'uccisione del giovane, a Genova la tensione sale alle stelle e le strade si trasformano in un enorme campo di guerriglia urbana, mentre molti manifestanti scappano e trovano rifugio per la notte presso la palestra della Scuola Media Diaz, divenuta sede del coordinamento del Genova Social Forum e dormitorio per i manifestanti venuti da tutta Europa (per lo più dalla Germania, dalla Francia e dall'Inghilterra).
Quando tutto sembra finito, tra le 22 e mezzanotte, mentre i carabinieri circondano l'edificio, nella scuola fanno irruzione più di 300 fra agenti della DIGOS e delle forze dell'ordine con in testa il VII nucleo della polizia di Stato che, con il pretesto di disarmare pericolose tute nere, con sadica crudeltà e inaudita violenza, danno libero sfogo ai loro primordiali istinti nei confronti di giovani inermi e innocenti.
Nel corso dell'irruzione, come scrisse il giornale inglese The Guardian, fu ordinato a uomini e donne di inginocchiarsi in modo da poterli colpire facilmente sulle spalle e sulla testa, uno studente di violoncello di Berlino ebbe lo strumento brutalmente spaccato sulla testa al punto che si rese necessario un intervento chirurgico per fermare l'emorragia cerebrale; gli agenti impugnavano i manganelli dalla parte terminale in modo da usare l'impugnatura ad angolo retto a mo' di martello, un agente fece inginocchiare una ragazza, poi gli spinse l'inguine contro il viso, e dopo aver fatto lo stesso con il ragazzo che le stava accanto, prese un coltello e tagliò ad entrambi i capelli.
Il sanguinoso blitz si concluse con 93 arresti e 82 feriti, di cui 3 in prognosi riservata.
Degli 82 feriti, 69 sono stati condotti in ospedali, mentre i rimanenti 19, assieme ai 93 in stato di fermo sono stati condotti forzatamente nel carcere provvisorio allestito nella caserma di Bolzaneto, dove le sevizie e i massacri sono proseguiti, senza nessun motivo plausibile, senza alcuna copertura giudiziaria, senza avvisare le famiglie e soprattutto senza nessun rispetto per la dignità dell'uomo.
Tutto questo accadeva a Genova nel 2001 e oggi, a dieci anni di distanza, quei fatti, le verità celate e i depistaggi diventano un film che riapre la vecchia ferita non ancora sanata.
La ricostruzione è stata fatta sugli atti processuali e sulle sentenze della Corte d'Appello, mentre le storie che si intrecciano sono vere e proprie drammatiche testimonianze.
Tra le macchie più scure nei ricordi di quei giorni, oltre alla tragica morte di Carlo Giuliani, emerge l'ordine dell'allora Ministro dell'Interno Claudio Scajola di sparare sui manifestanti nel caso avessero sfondato la "zona rossa".
Protagonista del film è il giornalista della Gazzetta di Bologna, Luca Gualtieri (in cui è facile riconoscere il giornalista de Il Resto del Carlino, Lorenzo Guadagnucci, cioè il giornalista di un giornale di destra), il quale, mentre si trovava nella redazione del suo giornale, apprese dei disordini di Genova e della morte di Carlo Giuliani e immediatamente decise di prendersi un giorno libero e di recarsi nel capoluogo ligure per vedere di persona cosa stesse succedendo, perché "non si può stare davanti al computer a scrivere tutti la stessa cosa", mentre fuori succede il finimondo.
Arrivato a Genova la sua storia si intreccia con quella di centinaia di altre persone che quel giorno si trovavano lì, chi per caso e chi per scelta personale. Vediamo così Marco, un ragazzo volontario, responsabile del Genova Social Forum e Alma, un'anarchica tedesca coinvolta negli scontri, che ora insieme si occupano della ricerca delle persone disperse. Poi c'è Franci, una giovane avvocato del Genoa Legal Forum. E poi ancora Nick, manager che si interessa di economia solidale, giunto a Genova per seguire un convegno dell'economista Susan George; c'è Anselmo, vecchio militante della CGIL che insieme ai suoi compagni ha partecipato ai cortei anti G8, Etienne e Cecile, due anarchici francesi coinvolti nelle devastazioni di quei giorni. Bea e Raf invece sono di passaggio e mentre cercano un posto dove passare la notte, trovano rifugio alla Diaz prima di ripartire; il classico posto sbagliato nel momento sbagliato.
Infine c'è Max, vicequestore del reparto mobile di Roma che comanda il VII nucleo e non vede l'ora di tornare a casa dalla moglie e dai figli.
Questi e centinaia di altre persone incrociano il loro destino la notte del 21 luglio nella palestra della scuola Diaz, che ha segnato una delle pagine più buie della storia italiana, simbolo di un lungo periodo di tensioni sociali e fragilità istituzionale, in un clima torbido, alimentato da una classe politica imbelle che mostra i muscoli per camuffare la sua inadeguatezza e la sua incapacità.
Il film non accontenterà nessuno, dice l'attore Elio Germano, commentando la pellicola di Daniele Vicari, per interpretare la quale ha sospeso l'occupazione in corso al Teatro Valle di Roma.
Ma sicuramente un film come "Diaz" non deve accontentare nessuno, deve soltanto raccontare con obiettività e senza piegarsi a nessuna ideologia preconcetta quanto accadde la notte del 21 luglio, per rimuovere quella coltre di doloroso silenzio, colpevolmente calato su quei fatti, e farli conoscere a chi li ignora o li minimizza. Perché conoscere è l'unico modo per imparare a individuare la malattia e conoscerne i sintomi, per impedire che il virus si ripresenti ancora, come purtroppo sta accadendo in queste settimane in Val di Susa, trasformata in campo di battaglia, dove si fronteggiano polizia e manifestanti no-tav, come fossero eserciti nemici.
E allora, visto che quanto successo quella maledetta notte è stato ampiamente accertato in sede giudiziaria (anche se ancora non pienamente sanzionato), il vero mistero che rimane è capire chi dall'alto delle Istituzioni diede l'ordine, chi decise che era l'ora di "far sfogare sadicamente i poliziotti", chi stabilì che era giunto il momento di far loro scaricare la tensione accumulata nelle precedenti giornate di scontri per le vie di Genova.
L'obiettivo è puntato verso chi allora deteneva il potere, verso i piani alti della politica, dove prima della cattiveria pare alloggiasse la stupidità.
Ma ancora una volta il bisogno di verità sembra cozzare contro quel muro di gomma, da cui tante inchieste e tanti misteri sono rimbalzati verso il nulla.
Pur non avendo pretese documentaristiche, il film di Vicari ha il pregio di raccontare, come si fa con un fatto storico, esclusivamente (e volutamente) quanto accaduto, senza nessuna pretesa di indagare né le motivazioni politiche dei no-global, né le ragioni che spinsero le forze dell'ordine a dare inizio a quella che il comandante Fournier (Max Flamini nel film) ha definito "macelleria messicana".
È bene ribadirlo ancora una volta, tutto ciò che si vede nel film nasce dall'ostinata volontà di raccontare a tutti ciò che è realmente accaduto, perché storicamente e giuridicamente accertato.
Il film lascia che siano i fatti a parlare, nulla è lasciato al caso, nessuna battuta è inventata, non nega la presenza tra i manifestanti di componenti violenti, tutto è frutto di un grossissimo lavoro di ricerca, lettura e studio degli atti processuali, comprese le coperture, le bugie, le manipolazioni, i depistaggi, come i passamontagna e le molotov portati dagli stessi agenti all'interno della Diaz per esibirle poi come falsi elementi di prova.
L'unica licenza che regista e produttore si prendono, su richiesta degli stessi personaggi coinvolti negli scontri che appaiono nel film è quella di non comparire con i loro veri nomi; conseguentemente Vicari (il regista) e Procacci (il produttore) hanno poi deciso di cambiare anche quelli dei poliziotti implicati.
Con le armi della finzione il film ricostruisce, con crudo e agghiacciante realismo, il brutale, furibondo e isterico massacro di coloro che erano accampati nella scuola, le violenze e le umiliazioni inflitte senza pietà (anche verso coloro che imploravano di smettere) e con sadica ferocia. E così seguiamo i manifestanti dentro la Diaz, viviamo i momenti che precedettero l'irruzione, l'ammassarsi dei celerini all'esterno, lo sfondamento della cancellata, la caccia all'uomo di coloro che erano all'interno. E poi botte e ancora botte, una rappresaglia in piena regola: adolescenti manganellati, picchiati, denudati, presi a calci; sangue che schizza dappertutto, teste spaccate, denti rotti, braccia e gambe spezzate, umiliazioni al limite dell'indicibile, pianti, terrore e la frustrazione di sentirsi inermi di fronte a persone che avevano il dominio della situazione.
Poi il trasferimento dei fermati ancora sanguinanti a Bolzaneto, dove il sangue ha continuato a scorrere a litri, dove le torture sono continuate con ferocia inaudita, senza pietà, roba da far rabbrividire Abu Ghraib.
Fatti che hanno messo in crisi il nostro sistema democratico, tanto sono simili a quelli che accadevano in una delle tante dittature sudamericane negli anni '70. E invece siamo a Genova, nel 2001, nella "democraticissima", "berlusconiana" Italia. Un'Italia che si credeva libera e invece si scoprì a democrazia limitata.
Ecco perché vengono i brividi quando si vedono scorrere le immagini di ciò che avvenne all'interno della Scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto.
Osteggiato e boicottato da più parti, girato per la maggior parte in Romania, "Diaz" è un film che nessuno vuole, tanto che la Fandango non ha trovato co-finanziatori in Italia e ha dovuto produrlo insieme ad una società romena e una francese.
La scelta vincente di Vicari, che rinnova la migliore tradizione del cinema italiano di impegno civile, è quella di aver scelto una narrazione di carattere corale, nel senso che di volta in volta adotta i diversi punti di vista dei vari personaggi, interpretati da un cast di attori che sono gli alter ego dei diversi personaggi realmente coinvolti nei fatti della Diaz e di Bolzaneto, a cominciare da Elio Germano (il giornalista Luca Gualtieri della Gazzetta di Bologna), e a seguire tutti gli altri: Jennifer Ulrich (la tedesca Alma), Davide Iacopini (Marco, il giovane volontario del GSF); Fabrizio Rongione (il Manager Nick), Renato Scarpa (Anselmo, il vecchio militante CGIL) e Claudio Santamaria (Max Flamini, il comandante del VII nucleo).
C'è un uso molto efficace del mezzo cinematografico, capace di creare continuamente quella tensione che porta lo spettatore ad empatizzare immediatamente con le vittime a partire dalle prime immagini dell'irruzione della polizia dentro i locali della scuola.
Questo perché "Diaz" è un film duro, doloroso ma importante, perché, come dice Vicari, "documenta un evento inaccettabile che intacca i principi democratici del nostro Paese e di tutta Europa".
E non è poco.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 17/04/2012 15.10.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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