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Voto Recensore: | 8,50 / 10 | ||
"Noi non vogliamo accettare che esistano forze che vanno al di là della nostra conoscenza".
Un fenomeno inspiegabile porta alcune persone a morire e/o uccidersi in circostanze terrificanti nel giro di pochi minuti. New York è sotto assedio, come nel famigerato 11 Settembre 2001: si parla di attacco terroristico ma i notiziari smentiscono presto questa possibilità.
La gente tenta disperatamente la fuga, partendo in treno verso altre zone apparentemente più sicure. Il professore di scienze Elliott Moore, (Mark Wahlberg), in crisi coniugale con la moglie Alma (Zrooey Deschanel) insieme a lei e all'amico/collega Julian, insegnante di matematica, e di Jess, unica figlia di Julian, partono per cercare una via di salvezza...
A metà tra le immagini del film e la sua trama, troviamo già elementi "devianti" che fanno pensare a qualcosa che si allontana dai cliché correnti, pur essendo imparentato a un certo filone in voga in questi anni:
A) lo spazio temporale è scandito dalla rapidità del dramma, mentre tutta la vicenda si svolge nell'arco di 36 ore.
B) Il mezzo per la fuga non è predestinato a distanze sconfinate, come nel caso dell'aereo, e il treno diventa l'inedito mezzo di fuga dei cittadini americani.
C) L'amico di Elliott, Julian, ha una figlia, al contrario del protagonista. La famiglia afferma il bisogno di mantenere un proprio nucleo, o di allargarlo (come vedremo nel finale).
Pochi minuti di quiete, un giorno come un altro al Central Park di New York: e poi l'inizio della fine. Uomini che crollano come uccelli morti dalle impalcature, operai che si schiantano a terra in pochi istanti, torna alla mente Carpenter ma un attimo dopo la mente si rivolge a Chuck Palahniuk ("Esiste davvero un dio a stabilire o imporre tutto ciò che diciamo o desideriamo? Possediamo il libero arbitrio o sono i mass-media e la cultura che ci controllano, che controllano i nostri desideri e le nostre azioni sin dal giorno in cui veniamo al mondo?").
Non c'è alcuna "favola della dolce morte" ad annientare il mondo di Shyamalan, bensì l'improvviso abisso dell'umanità alla quale il regista rivolge le proprie paure. E', ancora una volta, un film che esprime il suo concetto radicale di "carenza" ("Tutti i miei film hanno una forte spiritualità" cfr. Shyamalan): del resto, "E venne il giorno" appare come una logica prosecuzione di "Signs", al quale è indubbiamente superiore per la capacità di evitare la rappresentazione "fisica" del fenomeno, e avverso di fatto alla metaforizzazione simbolica del pericolo.
E' un film che ha il merito di riscrivere un nuovo, controverso capitolo del cinema di fantascienza, non più preda di riflussi ideologici o culturali (gli insetti giganti di Jack Arnold degli anni Cinquanta, come gli zombi di Romero di decenni successivi), ma l'America, questa, di Bush (come stanca ripeterlo continuamente...), catapultata improvvisamente in una realtà/follia/utopia collettiva: i vecchi eserciti che un tempo salvavano le città dalle invasioni di cavallette e ragni giganti (o dall'invasione del nemico nella guerra fredda), o annientavano - con tutti i metodi possibili - i morti viventi che minacciavano l'umanità dei vivi - non esistono più: sullo sfondo di un conflitto impossibile come quello iracheno, un'intera truppa è stata decimata, e resta soltanto la figura informe e smarrita di un soldato (sopravvissuto) che tenta di fuggire come tutti gli altri dai luoghi designati alla strage.
"La verità è che qualcuno insegue sempre qualcuno".
Shymalan annienta, stordisce, genera imbarazzo, ma non lascia indifferenti.
Lo spettatore, smussato da troppe "rivelazioni profetiche" sul futuro dell'universo, comincia a sentire il peso dell'abitudine.
In realtà l'oltre(passare) del regista è il confronto con qualcuno di inappagato e latente, e - nella misura dei fenomeni ambientali - si spiega l'incapacità di provare stupore (orrore, sì) per qualcosa che non ha ancora una risposta.
Interrogativi ultramillenari (l'alba dell'uomo? L'esistenza Divina? Concezione "umana" del mondo vegetale? L'esistenza degli extraterrestri, di altre forme di vita? O di un destino scritto? Persino le oscure e "occulte" trame di governo nel corso del tempo) cedono il passo al confronto urbano e "polarizzato" delle grandi città rispetto all'apparente salvezza della provincia.
Sono "favole di morte", quelle di Shyamalan, che non hanno nulla da invidiare a quelle di Palahniuk, mentre si avverte l'eco distante e indistinto di Nevil Shute ("L'ultima spiaggia", il romanzo).
Il mondo, prigioniero delle proprie abitudini, vive il confronto aspro e traumatico con i propri simili: umanità unita nel dramma, e divisa dalla propria "locale" brama di salvezza.
Un cinema che sa già di plot narrativo, come una puntata di "Lost" girata negli stessi anni di "Body Snatchers" di Siegel, ovvero la più grande metafora sull'annientamento mentale dell'umanità mai partorita dalla storia del cinema.
Geograficamente monolitico, con quel nord-est che attraversa le grandi distanze ma arriva fino alla Pennsylvania, con quel mondo di profughi che tentano fatalisticamente di oltrepassare un territorio insidioso per fermarcisi definitivamente (un tema caro a Shyamalan fin dai tempi di "The village"), il film sente crollare il supporto urbanistico e capitalista delle grandi città a favore di un confronto diretto con una dimensione rurale ormai estinta.
Si direbbe una visione alla Wenders, dove risiede quel senso di continuità ad ogni costo che ben rappresenta la visionarietà del regista di origine tedesca negli ultimi venti anni.
Forse è l'amore che salva l'umanità, forse no: Shyamalan non offre risposte, salvo soffermarsi (magari un po' troppo) sulle bizze di coppia del professor Elliott Moore e della moglie, e sulla successiva, precoce e forse comprensibile riconciliazione, tra le note del "Concerto n. 21" di Mozart o di altri "nobili effords".
Tutto ciò, ovvero l'elementarità dell'intreccio atto ad innescare un processo di paura nello spettatore, rischia di non sfruttare abbastanza personaggi di notevole spessore, come l'anziana e solitaria Betty Buckley ("Il mondo non si interessa a me e io non mi interesso a lui") o il vecchio esperto di piante (rubato, a quanto sembra, all'ornitologa supponente de "Gli uccelli" di Hitchcock).
E il professor Moore, monitorato dalle proprie convinzioni, influenzato inizialmente dalle dicerie sul conflitto politico- ideologico-chimico (v. terrorismo internazionale, armi chimiche e batteriologiche e paura nucleare) altro non è che l'alter-ego dell'ex reverendo interpretato da Gibson in "Signs": altro esempio di uomo che deve affrontare le sue reticenze e aprire la sua mente a svariate possibilità.
Il punto di forza di "E venne il giorno" è la sua impalpabilità, la sua capacità di raccontare il pericolo occulto e invisibile affrontando per questo le sfumature del comportamento umano: la dissociazione, o la paura dell'ignoto attraverso l'annientamento dell'"altro" (emblematica la scena all'aperto vicino a una casa di campagna abitata).
La sua debolezza, forse, è di aver affrontato questi e altri argomenti ("Le piante reagiscono agli stimoli umani") provocando l'unica, facile contraddizione all'estinzione "(in)naturale" dell'uomo, ovvero la procreazione, la genesi del nuovo erede (Dio?).
Unica risposta plausibile? Non sembra. Certamente un modo non invadente e forse prevedibile di combattere la paura...
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 20/06/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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