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"[Il fascista] si è costruito o fatto costruire – tramite la disciplina,
l'addestramento, esercizi fisici – un Io esteriorizzato che si presenta come una "corazza".
Tale armatura trattiene nell'interiorità, a cui il fascista non ha accesso, tutte le sue pulsioni, le sue funzioni desideranti (...). Ma questo Io-corazza non è mai perfettamente ermetico, anzi è fragile; resiste solo grazie ad aiuti esterni: la scuola, l'esercito o persino il carcere.
Nei momenti di crisi si frantuma, e il fascista rischia di essere travolto dalle sue stesse produzioni desideranti incontrollabili"
Jonathan Littell, "Il secco e l'umido", Einaudi, 2009, p. 20
"Furyo" è un film del 1983 di Naghisa Oshima, tra i sommi maestri del cinema giapponese, attivo sin dalla fine degli anni '50, e le cui opere giovanili più iconoclaste e rivoluzionarie sono purtroppo poco note al pubblico italiano, soprattutto perché difficili da reperire. Quello di Oshima nasce come un cinema di rivolta, che si chiude progressivamente in una successiva disillusione. "Furyo" appartiene all'inizio di questa seconda fase.
La sua riflessione sulla realtà giapponese si concentra sulla sua essenza autoritaria e imperialistica, e su come essa si coniughi a soggettive pulsioni di desiderio, a ricorrenti fantasmi di morte, "e più ancora suicidi che omicidi, nella convinzione progrediente di una consonanza tra queste pulsioni e quelle profonde e autentiche della cultura giapponese".
Pochi anni prima di girare "Furyo" con un cast internazionale, Oshima aveva ottenuto la celebrità in occidente grazie al "dittico" costituito da "L'impero dei sensi" e "L'impero della passione", che nella seconda metà degli anni '70 fecero scalpore per un erotismo che all'epoca era ottusamente considerato "d'autore" semplicemente per il suo estetismo e la raffinatezza formale con cui era messo in scena il sesso.
Via via, Oshima realizzerà sempre meno film, con distacchi anche decennali tra le sue ultime opere.
Il suo ultimo lavoro risale al 2000, ed è il bellissimo "Tabù-Ghoatto" che molto riecheggia "Furyo", incentrato anch'esso su come bellezza, erotismo e desiderio possano minare alle fondamenta anche la più rigida disciplina.
Ancora in pochi, al di fuori degli esperti del cinema nipponico, hanno tentato un approfondimento dell'opera di Oshima nel suo complesso. Oshima non ha bisogno di essere "rivalutato", giacché la sua importanza nella storia del cinema è ben riconosciuta: tuttavia meriterebbe una diffusione e un apprezzamento maggiore fra gli appassionati, di tutto il cinema, invece di essere davvero familiare solo agli appassionati di cinema orientale.
L'angelo (sterminatore) della bellezza.
"Furyo" è tratto dal romanzo "The Seed and the Sower" ("Il seme e il seminatore", 1963) dello scrittore sudafricano Laurens Van der Post, ed è stato sceneggiato dallo stesso regista, insieme a Paul Mayersberg.
La vicenda si svolge sull'isola di Giava, nel 1942 (a seconda guerra mondiale in corso), in un campo di concentramento giapponese per prigionieri di guerra britannici.
Il film si apre su di un giovane coreano, guardia del campo, costretto a fare pubblicamente harakiri, per aver violentato un prigioniero olandese. Il maggiore inglese Lawrence viene percosso brutalmente per aver tentato di opporsi all'atroce rito. E' questo il prologo che introduce nel clima del campo (e del film), pervaso da una tensione spasmodica.
Ryuichi Sakamoto, rinomato compositore e prolifico autore di colonne sonore (è autore anche delle musiche di questo stesso film) interpreta Yonoi, il comandante del campo che viene soggiogato dal fascino, lievemente androgino, emanato dal maggiore Celliers. Questi appare subito come una sorta di angelo-demone, che assume su di sé i connotati della bellezza metafisica e insieme una premonizione di annichilimento, una minaccia di destabilizzazione. David Bowie è perfetto nella parte.
Il cuore del film sta nell'attrazione reciproca che si innesca tra Yonoi e Celliers. L'uno esercita sull'altro una morbosa fascinazione. C'è il gusto della sfida, la dialettica servo-padrone, la voluttà del sadico e il masochismo della vittima.
"Furyo" mette a confronto anche due modi diversi di vivere il senso dell'onore: tanto dissimili, quanto radicalmente inconciliabili sono le civiltà costrette a confrontarsi. Il senso dell'onore giapponese trova la sua massima incarnazione proprio in Yonoi, il quale disprezza i britannici, poiché si sono arresi, invece di combattere fino alla morte. Il senso dell'onore "europeo" è rappresentato, tra gli altri, proprio dal maggiore Celliers, che sfida Yonoi con un comportamento altero, arrogante, e mai prono.
Il tenente colonnello Lawrence (in quanto ex diplomatico, l'unico a conoscenza della lingua giapponese) fa in qualche modo da intermediario: dotato di senso pratico e più conciliante di carattere, cerca ad esempio di sottrarre i prigionieri alle durissime punizioni.
Tanto Yonoi è sofisticato e contratto, quanto il sergente Hara, suo coadiuvante (Takeshi Kitano), è più rude, perciò più lineare, meno inquietante.
Quando la tensione nel campo raggiunge l'acme, Celliers per la prima volta da quando vi è rinchiuso si espone in prima persona, con un gesto inaudito: afferra pubblicamente il capitano Yonoi, che resta teso e impietrito, per baciarlo su entrambe le guance. Il demone della bellezza mette così a nudo i desideri segreti del giapponese, distruggendone il prestigio di fronte ai soldati.
Umiliato, furioso, Yonoi lo condanna a morte, facendolo seppellire vivo fino al collo nella sabbia.
Nell'epilogo del film, a conflitto finito, il sergente Hara e il colonnello Lawrence – gli unici personaggi propensi a riconoscere propri limiti e debolezze (i propri, prima ancora di quelli altrui) – si incontrano nuovamente, stavolta in una prigione per giapponesi, a parti sono invertite. Hara, che aveva risparmiato la vita a Lawrence un giorno di Natale, non troverà altrettanta clemenza da parte delle forze alleate, in quanto "criminale di guerra".
"Merry Christmas, Mr. Lawrence" (altro titolo del film) è il saluto che, col sorriso amaro di chi è ormai oltre gli eventi, il sergente Hara rivolge dalla sua cella a un impotente Mr. Lawrence. Di lì a poco verrà giustiziato. Su quel sorriso, bloccato in un fermo immagine, il film si chiude.
Anche in "Furyo", come in altre opere del regista, il soggetto di fondo è il sadomasochismo che scaturisce dal conflitto interiore tra pulsioni e disciplina. E si converte in una sorta di cerimoniale dei supplizi, in cui vengono incanalate passioni sotterranee spinte all'estremo.
Benché la produzione internazionale ne smussa in parte il rigore, il film è ricco di invenzioni figurative, insolito nella struttura narrativa, e sostenuto da un linguaggio sobrio, estetizzante ma non compiaciuto.
Appartiene ad Oshima questa asciuttezza impeccabile (diremmo "rituale") della messinscena, che probabilmente risente pure della tradizione del teatro "nó" giapponese.
Un rigore formale talmente secco da risultare straniante, anzi persino stordente, per quanto è in contrasto con l'ossessiva violenza (psicologica prima che fisica) concentrata negli eventi narrati. A fare da ulteriore contrappunto, poi, le musiche suadenti ed eteree di Sakamoto (appartiene alla colonna sonora del film anche un bellissimo e assai celebre motivo melodico, "Forbidden colors").
Unico neo del film, il risvolto affidato a un flaskback: Celliers si porta dentro il rimorso di non avere soccorso in una data circostanza il fratello più piccolo negli anni di scuola. Una concessione allo psicologismo che appare superflua.
Le 120 giornate di Giava.
Il sadismo è esplicitato sin dall'inizio in forma di violenza culturale: costringere gli inglesi ad assistere ad un harakiri.
La guerra vorrebbe disciplinare pulsioni ingovernabili. E la disciplina cerimoniale giapponese pretende di ritualizzare anche il sadismo: lo punisce, lo vorrebbe inglobare. Ma ne risulta sconfitta.
Il desiderio è pulsione di mero possesso. C'è poco di "umano" nel film "Furyo". Non sembra possibile coltivare alcun vero affetto: salvarsi dal "morbo" diffuso – febbre tropicale in questa prigione umida, foresta claustrofobica – sembra possibile solo nel distacco ironico di Lawrence, che si sforza di capire, ma ha una pietà distante, avvizzita; o nell'ubriachezza di Hara che augura Buon Natale.
La prospettiva di essere vincitori o vinti, prigionieri e basta o soldati comunque, anche se prigionieri, cambia a seconda della cultura di appartenenza, ma non muta il destino: l'insensatezza di sopravvivere o soccombere è dettata dal caso, non esistono torto e ragione, esistono unicamente pulsioni di desiderio insoddisfatto.
La frustrazione crea violenza, la guerra ne è un prodotto.
Il desiderio può fare paura. Allora viene imprigionato, corazzato nella disciplina bellica: lo si vorrebbe auto-escludere. Ma è un tentativo impossibile: il desiderio fluisce tra le maglie della disciplina, destabilizzandola e distorcendola in sadismo.
Dunque la stessa violenza intrinseca nella disciplina bellica è un tentativo malriuscito e maldestro di governare pulsioni non soddisfatte, irrigidendole nella violenza inferta a sé e o all'altro. Perciò, come "disciplina", contiene dentro di sé il germe del proprio scacco: racchiude una sostanza di pulsione distruttiva, unico sfogo d'uno stato esistenziale insoddisfatto, in cui non si dà possibilità al desiderio di trovare sfogo e di sedarsi.
Di qui il clima raggelato del film, in cui l'atrocità viene sempre rinviata e trattenuta, tenuta a distanza; di qui anche una certa difficoltà per lo spettatore a prender parte alla vicenda – difficoltà che è voluta: un distacco narrativo ricercato, reso – anche – con piccole ellissi vagamente stranianti. E soprattutto con quella musica suadente che è in contrasto, enorme quanto impercettibile (per la sua ipnotica, iterativa costanza), con la lacerante violenza psichica. Che implode su se stessa. E trascende la pellicola, persistendo oltre essa. Oltre al sorriso-fermo immagine finale del condannato a morte Hara.
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 09/06/2010 17.26.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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