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C'era una volta il Cattivo tenente. E c'era una volta una Manhattan pre-Giuliani, fatta di ghetti, di periferie buie e disumane, androni gremiti di spacciatori e case luride in cui il corpo di Harvey Keitel ballava nudo ubriaco bagnato di whisky e di sesso.
C'era una volta Abel Ferrara (questo vale a prescindere da questo film), che non aveva timore di mostrare la droga come eccesso, scissa da qualunque legame borghese e la corsa notturna all'inferno di un uomo (cattivo, marcio dentro) diventava simbolo escatologico di una collettività egoista che trovava il suo lato morale solo sul fondo del barile per tornare "figliol prodigo" sacrificandosi come agnello sull'altare del Padre.
Ma sono passati 20 anni da allora.
New York è divenuta New Orleans. Siamo nel post Katrina (ma perché specificare questo dato temporale? Solo per giustificare la prima scena in cui un carcerato è rinchiuso in cella rischiando di affogare? I più malvagi potrebbero associare Giuliani a Katrina...) e a Terence McDonagh (N. Cage), appena diventato tenente, viene assegnato il caso di un omicidio plurimo. Deciso a fare giustizia si mette sulle tracce dei malviventi.
Che non sia uno stinco di santo, è intuibile dalle prime scene, così come da subito però si capisce che quel "cattivo tenente" in realtà sia un buon tenente a cui piace un mondo fare il cattivo. Il faccione mono espressivo di Cage campeggia nella sua inutile ebete espressività per le due ore di film in cui il talentuoso (?) nipote di Coppola ci delizia con un mix dei suoi personaggi più riusciti passando dal Ben Sanderson di Via da Las Vegas al Castor Troy del film di J. Woo. E siccome allo sceneggiatore non è dispiaciuta l'ultima serie di Dr. House, perché non inserire un piccolo fastidio fisico alla schiena, così da giustificare l'assunzione di Vicodin e altre medicine/droghe?
I due film sono troppo distanti per poter fare anche solo un accenno di paragone, pertanto se vi recate al cinema convinti di vedere il remake del film di Ferrara, state alla larga. Tolto il titolo e un paio di scene in prestito, di tutto il resto non c'è traccia. A ragion veduta, è una pessima scelta di marketing.
Basando, dunque, la critica solo su questa pellicola, rammarica constatare che un cineasta come Herzog torni alla regia di un film con un copione tanto scialbo (scritto da W. Finkelstein). Alcuni passaggi sono interessanti, ma sorgono molteplici perplessità: ad esempio il personaggio principale è completamente passivo, non ha una crescita interiore e non ha un dramma interiore. Si lascia scorrere sulla pelle il serpente della dannazione, accettandolo suo malgrado. Questo suo equilibrio è certamente l'aspetto più interessante del film. Tale costruzione, però, non viene supportata adeguatamente poiché la trama spesso risulta debole e i personaggi di contorno sono dei satelliti vuoti, cliché costruiti su orme lasciate da altri sceneggiatori e messi insieme per costruire un poliziesco imbolsito e sgangherato che ricerca Chandler e i film di Friedkin anni '70.
La costruzione di un poliziesco non viene legata bene alla passività del personaggio: la storia non decolla mai e il vortice di eventi giunge al ridicolo parossismo finale in cui tutto crolla per poi risorgere in una sola scena senza che avvenga alcuna svolta significativa e la scelta che il protagonista alla fine compie è assolutamente vuota e priva di ogni pathos perché il climax giunge alla fine di una sequenza quasi ridicola e risulta "fasullo", forzato e mal incastonato.
Si è parlato di de-mitizzazione del film di Ferrara. A parte l'assurdità di una tale azione, dato che stiamo parlando di un piccolo film d'autore e non certo del famoso titolo noto al grande pubblico, non si deve vedere il film secondo tale logica, perché non c'è una volontà di sgretolare, di decomporre per contraddire e mettere in ridicolo. Qui, invece, siamo di fronte alla volontà di rileggere spostando l'ottica e mancando clamorosamente il bersaglio. Spostare l'equilibrio del film da una posizione più minimalista e personale ad una più vicina all'architrama non giova.
Si guardi uno dei sistemi di immagini: in Ferrara l'esternazione nella visione del Cristo avviene in un climax che coniuga la crisi del personaggio al sistema d'immagini stesso (passando così da un sistema interiore ad esteriore). Tale passaggio però aveva anche la funzione di esteriorizzare, drammatizzando, il conflitto interiore del protagonista. Nel film di Herzog, invece, si usa un sistema d'immagini basato sui rettili e sull'acqua (iniziando con il serpente che nuota nell'acqua passando alle iguane protagoniste delle visioni di Cage), entrambi comunque elementi classici della simbologia cattolica. Ma tale sistema d'immagini, non sfruttato a dovere, non funziona né a livello conscio né a livello inconscio (o subliminale), rimanendo solo a livello simbolico (anche l'alluvione/uragano, è solo nella parte iniziale e tale riferimento, svanisce senza avere un ruolo fondante nel prosieguo).
Il protagonista vorrebbe essere contraddittorio, ma senza l'esternazione del suo conflitto interiore, la sua passività esteriore è l'unica qualità percepita. E così ogni azione diventa priva di profondità anche nella continua altalena tra buoni e cattivi sentimenti che non proferisce al protagonista nessuna tridimensionalità poiché oscillante sempre tra i due stessi poli senza svelare lo strato più interno dell'anima. Il galleggiare a livello sociale/extrapersonale di tale oscillazione genera noia e confusione; potrà andare bene ai palati meno esigenti, ma è come un sub che si limita a guardare l'abisso dal pelo libero dell'acqua perché ha paura di calarsi nelle profondità.
Il regista ha dichiarato che non era nelle sue intenzioni fare un remake e di non aver visto il film originale. Dichiarazione molto furba, ma poco efficace perché non importa quello che voleva o non voleva fare dato che la sceneggiatura l'ha scritta un altro che il film di Ferrara, evidentemente, l'aveva visto. Quindi, che Herzog non abbia dato l'impronta visiva seguendo il film precedente è comprensibile, ma il film non è carente da quel punto di vista (o comunque non è quello il peggior difetto). Il film è pietoso proprio nella sceneggiatura, nella schietta e approssimativa schermaglia di cliché che ci costringe a vedere ad ogni secondo di pellicola (la scena dell'interrogatorio, tanto per citarne una, è zeppa di frasi e situazioni trite e ritrite). E anche visivamente, a voler davvero essere pignoli, la regia è scolastica e l'impronta fotografica poco interessante.
C'è ben poco da dire su questo film, ma essere troppo duri con Herzog è difficile. La critica ha bacchettato il film, ma con moderazione e rispetto verso il grande cineasta. Ma a volte si dovrebbe vedere un film senza sapere di chi è, come quando si assaggia un vino senza avere visto l'etichetta.
Se questo film non lo avesse girato Herzog probabilmente il regista sarebbe stato linciato e infamato per il resto dei suoi giorni. Ma non è così e allora, sforzandosi (ma ci si deve davvero sforzare molto), come tanti hanno fatto, di trovare qualcosa che giustifichi questo spreco di pellicola, si può rileggere con ironia (la stessa usata secondo molti da Herzog nel film) il finale spento e privo di mordente: forse la vita borghese consiste nell'avanzamento di carriera e nello sposare una zoccola?
Speriamo che abbiano il buon gusto di risparmiarci il seguito: "Il cattivo capitano" sarebbe davvero troppo.
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Recensione a cura di fidelio.78 - aggiornata al 01/10/2009
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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