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Malato di un amore eccessivo per la figlia psicolabile, un modesto insegnante di disegno, artista fallito, non si rassegna a perderla, seguendone il destino fino alla fine; anche dopo che la povera demente uccide la migliore amica senza pietà, per una folle gelosia.
Mai come negli anni in cui viviamo la forma fisica e un bell'aspetto hanno condizionato l'esistenza delle persone, elargendo successo o infelicità; da cui una società schizofrenica, che persegue certi sogni ottusamente, coi miti del divismo, della giovinezza a tutti i costi e delle icone "velinare", trascurando, per contrapposto, valori effettivi di tipo spirituale, artistico ed intellettuale, riconosciuti da sempre come "bellezza dell'anima". Quella che dura, non muore, raggiungibile da tutti.
Il senso di inadeguatezza dell'adolescente che si sente come un "brutto anattrocolo" è storia però di sempre, databile anche nell'Italia fascista del '38, dove è ambientata la triste storia di Giovanna e del padre, Silvio Orlando, che sommerge la figlia di attenzioni esagerate per farle superare i sensi di inferiorità.
Fin qui sembra delinearsi un quadro di taglio Adleriano, in cui la genesi del disagio si collegherebbe al penoso senso d inadeguatezza della giovane. Ma la storia che Pupi avati ci racconta, al cinema ma anche nel romanzo omonimo, è molto più complessa e dolorosa, facendo emergere le sensibilità malate dei genitori per i loro stessi irrisolti. Il modesto professore sa di non essere mai stato amato dalla moglie, Francesca Neri, madre troppo bella della povera Giovanna, che peraltro non ha mai dimostrato affetto e comprensione verso la figlia.
Questa ne soffre al punto da uscire di senno, con forme ossessive di gelosia e possessività; sentimenti malati che la portano ad uccidere la migliore amica.
La vicenda spazia dunque al di là del semplice quadro psicanalitico, assumendo toni e colori della tragedia sofoclea, per ricomporsi nel finale sublimando, in una forma superiore di perdono evangelico, quando la madre rientra tardivamente nell'ambito della famiglia.
Il tutto raccontato con delicatezza e sussiego superiori, quasi di ispirazione mistica.
Ma la storia, come sempre nell'opera di Pupi Avati, anzi, forse mai come ora, non è tutta qui. Si dipinge, anzi, in un quadro ben più ampio, di caratterizzazione dei personaggi, di drammi familiari, profili psicologici, ambienti ed atmosfere d'epoca, in un grandioso affresco storico del periodo bellico fascista: come solo nel romanzo ottocentesco è dato di trovare.
Una sorta di "Guerra e pace" nostrana, dove emergono le figure dei nati perdenti, della malattia mentale, delle donne "fatali" a loro insaputa, dei piccoli funzionari arroganti, di buon cuore ma in definitiva vili, e di potenti spietati e vanagloriosi.
Sul piano puramente cinematografico vanno apprezzati i colori sfumati e le tonalità seppiate della fotografia, che ci calano nel contesto dell'epoca, come le scene più scure a tinte forti, quasi espressioniste, che descrivono i momenti tragici ed il terrore dei bombardamenti.
Quindi la recitazione: intenso come mai Silvio Orlando, padre morbosamente affettivo, pilotato dalla propria meschinità a compensare con la povera figlia la mancanza d'amore da parte della bella moglie.
Degni di menzione poi Francesca Neri, per una volta aiutata dal ruolo che la vuole inespressiva, ed il simpatico Ezio Greggio, dotato evidentemente anche di un misurato registro drammatico (una scoperta). Per finire la talentuosa Alba Rohrwacher, Giovanna, non nuova a ruoli primari (già vista in "Giorni e nuvole" di Soldini nel 2007).
Un capolavoro che le giurie hanno premiato per la sola recitazione, ma convincente sotto ogni punto di vista (da ricordare in particolar modo la colonna sonora di Riz Ortolani).
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 04/11/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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