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Conosciuto un po' ovunque dopo il successo internazionale (e l'Oscar) riscosso con il precedente "Una separazione", il regista iraniano Asghar Farhadi stavolta si è trasferito in Francia dove ha girato uno dei più bei film francesi degli ultimi anni, il cui breve e sintetico titolo, "Il passato", sintetizza e contiene in sé tutta l'essenza della storia che narra.
Quel passato che spesso riaffiora nelle nostre vite per ricordarci che noi tutti siamo ciò che è stato. Quel passato la cui eredità pesa e condiziona il nostro presente. Quel passato i cui residui inquinano non solo l'oggi ma anche il domani. Quel passato che ci ha formato e ci zavorra nella sua complessità e contraddizioni e da cui è difficile emanciparsi.
Ciò che colpisce subito de "Il passato", oltre alla forma elegante e raffinata, di scrittura e regia, è il tema ricorrente, che lo lega al precedente, bellissimo, lavoro di Farhadi: quello dell'atto finale di un matrimonio. Ma mentre nel primo la separazione avviene in quello stesso preciso momento, nel secondo la separazione è già avvenuta da un pezzo, è già stata elaborata e metabolizzata. Si tratta solo di formalizzarla e renderla definitiva dal punto di vista legale.
Per questo un uomo iraniano, Amhad, da Teheran fa ritorno a Parigi per firmare le carte del divorzio dalla sua ex moglie Marie. Una pura formalità se non fosse che le cose, come sempre accade nel cinema di Farhadi, quasi subito si complicano a partire dal loro incontro all'aeroporto quando Marie lo convince ad alloggiare nella sua casa, invece di accompagnarlo in albergo come lui avrebbe voluto.
Ben sapendo che in quella casa, dalla quale si era allontanato quattro anni prima, per motivi che non sapremo mai perché tutte le volte che cercherà di spiegarlo la ex moglie e gli altri personaggi in scena non glielo permetteranno mai, oltre a lei e le sue due figlie, nate da una precedente relazione, l'inquieta adolescente Marie e l'ancora bambina Lea, vivono il suo attuale compagno Samir, di cui scopriremo presto essere incinta, e il figlioletto di lui Fuad.
Come facilmente comprensibile, la situazione in cui viene a trovarsi lo mette visibilmente a disagio, anche perché non sapeva di questa nuova presenza nella vita di Marie, anche se lei insiste nel sostenere il contrario. Ed è lì, nel grigiore suburbano della Parigi di periferia, che comincia a delinearsi il complesso intreccio di rapporti che lega i diversi componenti di quella famiglia allargata.
Un complesso intreccio di rapporti fatto di rancori e passioni, rimorsi e sensi di colpa, conflitti irrisolti e forse anche di amore.
Lucie, la figlia sedicenne di Marie, non accetta il nuovo compagno della madre ed è angosciata all'idea che sposi quell'uomo che lei ritiene un intruso nella sua vita. Il piccolo Fuad odia quella casa e quella donna che ha preso il posto della sua vera mamma. Lea, la figlia più piccola di Marie è in balia di eventi, che rischiano di gettarla nella solitudine quotidiana, anche se ha stabilito un rapporto di gioiosa complicità con il figlio di Samir.
Ma il vero mistero è racchiuso nel passato di Samir, visto che sua moglie da otto mesi è in coma profondo in ospedale, dopo aver tentato di togliersi la vita.
All'intreccio familiare si aggiunge, dunque, il mistero riguardante quel tentativo che ha provocato alla donna il coma irreversibile, perché nessuno sa esattamente il motivo di quel gesto, né perché l'abbia fatto, né chi l'abbia spinta a farlo.
È stata veramente la depressione, come tutti sostengono, o qualcuno, dopo aver scoperto il legame tra Marie e Samir, l'ha indotta a bere quell'intruglio che l'ha ridotta allo stato vegetativo? Tutto è incerto, tutto può essere simulazione.
È veramente l' insofferenza verso la nuova situazione sentimentale della madre che spinge Lucie a vivere in perenne stato di conflittualità con lei, oppure la tenace incomprensione tra madre e figlia non è altro che un maldestro tentativo per mascherare tensioni e sensi di colpa mai del tutto risolti, che riguardano sia la scelta sentimentale della madre che il tentativo di suicidio della moglie di Samir?
E così, malgrado i tentativi di ognuno di proiettarsi verso il futuro, il passato non è mai sufficientemente remoto da impedirgli di condizionare il loro presente; e a nulla vale cercare di cancellarlo, perché è un fardello che tutti ci portiamo dietro, per tutta la vita.
Storie di vite, di sentimenti, di dolore, "Il passato" di Asghar Farhadi è un film complesso e sincero, vibrante nella sua analisi psicologica, un perfetto mosaico di dettagli, colpi di scena, insospettate rivelazioni e momenti piene di suspense, che spesso ci costringono a rivedere le nostre considerazione e a ridisegnare il film. Un film che racconta una storia avvincente che parla di temi che riguardano tutti, che tutti abbiamo vissuto o che tutti potremmo vivere. Un film, come da più parti è stato fatto notare, che è un mix di thriller psicologico e di dramma familiare filmato come un poliziesco, ma meglio sarebbe definirlo un melò contemporaneo, una istantanea intimistica di vita domestica e coniugale, talmente realistica al punto da coinvolgere e commuovere e assumere validità universale.
Nel cuore, prima che nella testa, rimangono impressi i gesti, le parole, i dettagli, l'attenzione per i personaggi.
Rimangono impressi: il dialogo muto dietro i vetri dell'aeroporto tra Marie e Amhad, di cui non sentiamo le parole ma ne cogliamo pienamente il significato, emblema dell'incomunicabilità tra gli ex coniugi; il parabrezza velato dall'acqua che continua a cadere incessante e su cui, nonostante che i tergicristalli in movimento continuino a spazzarla via, rimangono evidenti i titoli del film; la medicazione che Amhad applica sul dito del piccolo Fuad e che Samir poi rimuove, quasi un passaggio di testimone tra i due uomini; la riparazione del tubo di un lavandino che perde, contesa tra i due come senso di affermazione sul territorio; la vampata di calore che pare travalicare dallo schermo, nella tintoria gestita dall'uomo.
E poi il piatto di cibo iraniano preparato dall'ex marito, la vernice rovesciata sul pavimento di una casa in costruzione, il tintinnio di un lampadario trasportato su un furgoncino. Piccoli dettagli, particolari che ci rivelano il malessere che attraversa i personaggi, sfumature che li denudano nei loro risvolti emozionali.
Nel cinema di Farhadi ogni cosa e pensata e soppesata, c'è la ricerca della verità; il ricordo di uno stato d'animo; il dolore profondo di un evento drammatico, radicato nel passato, inevitabilmente vincolato al presente; la sofferenza per gli errori commessi e mai riparati; il rimpianto per le molte relazioni fallite, che invece dovevano essere eterne.
Farhadi intesse una ragnatela complessa di vicende che innescano una serie infinita di triangolazioni tra i personaggi, che annebbia il giudizio e sfuma il contorno delle cose, fino a stravolgere la nostra percezione dei fatti. Una ragnatela che svela una varietà multiforme e sfuggente di verità, che non è mai univoca e che spesso contraddice verità prima accertate.
Tutto è incerto, tutto può essere verità, tutto può essere menzogna; ognuno ne possiede una parte, ognuno ne ha un frammento con cui costruire il suo puzzle, che solo nel suo essere composto può dare compiutezza alla storia.
Farhadi conferma la sua grande capacità registica nel trattare i rapporti tra le persone e mettere in scena con maestria ogni più piccolo dettaglio, anche apparentemente insignificante. Ancora una volta nel cinema di Farhadi non c'è nulla di semplice o insignificante, e ogni personaggio, per motivi propri, tende a nascondere agli altri una parte della propria verità.
Queste caratteristiche, grazie anche alla cura della messa in scena e alla puntualità della sceneggiatura evitano il rischio al film di scadere nella soap-opera e ne rendono la fruizione un'esperienza unica e affascinante.
La caratterizzane psicologica dei personaggi, unita alla grande capacità di indagare nei segreti familiari e alla meticolosità di tirare le fila di storie solo apparentemente inestricabili, si coglie anche (e soprattutto) in quelle piccole sfumature che li rendono efficaci nella loro spettacolarità, la continua altalena tra le ragioni dei personaggi ci distrae dalla verità, perché troppo complessa e contraddittoria la loro esistenza, che ci sarà svelata solo da ultimo, ma non sarà quella che aspettavamo, lasciandoci così nel dubbio, all'improvviso, quasi inaspettatamente.
Esemplare la direzione degli attori, compresi i bambini (incredibili nella loro genuinità i piccoli Elyes Aguis e Jeanne Jestin), a cui Farhadi chiede il grande sforzo di conoscere bene il relativo personaggio prima di iniziare a girare.
Esemplare l'interpretazione di Bérénice Bejo (Marie), miglior attrice a Cannes 2013 che qui si fa interprete di un personaggio complesso e ambiguo fino all'insofferenza, e di Tahar Raim (un Samir inafferrabile, sfuggente, pienamente in parte), il quale, lanciato da "Il profeta" di Audiard, si conferma uno dei migliori giovani interpreti transalpini.
Controllatissimo l'iraniano Ali Mosaffa (Ahmed) e veramente sorprendente la problematica Lucie di Pauline Burlet.
In Francia "Il passato" è stato etichettato, forse non tanto ingiustamente, come un film tendenzialmente maschilista e anche un po' di destra. Queste critiche però non inficiano assolutamente la fruizione dell'opera, che rimane avvincente fin dal primo fotogramma, in grado com'è di offrirci la massima impressione della realtà, che a ogni istante si coglie nelle ombre dei volti, nelle pieghe degli sguardi, nel groviglio di passioni, rancori, desideri dei sui personaggi; di comunicarci che nella vita gli errori esistono e che l'unica maniera per ripararli è non commetterli.
In definitiva un film che rimane, come il passato.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 29/11/2013 16.02.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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