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Nuovamente si pone l'accento sull'accademismo, in funzione della divergenza di un pubblico tradizionale: onde evitare quella categoria di ingessati spettatori "faticosamente" intelligenti, che al cinema pretendono la massima concentrazione e che si credono in teatro, la visione di questo film è consigliabile attraverso l'uso del dvd domestico. Quanto ai suddetti spettatori, non sono certo migliori dei fan sguaiati di Van Diesel, anzi.
In realtà il film di Sokurov, ultimo di una trilogia di potere iniziata con Hitler ("Moloch") e proseguita nell'epilogo sulla vita di Lenin, non è affatto accademico, non nei termini abusati per autori come, per esempio, un De Oliveira, quando egli sembra talvolta imporre il rigore assoluto e PERSUASIVO delle sue tesi. E' un'esperienza più letteraria che visiva questo film (ma forse non è neanche un film) che ti assorbe a poco a poco, pone dubbi e interrogativi, cresce e si espande esattamente come la mai doma affermazione di un potere che non accenna, neanche ai giorni nostri, a dimostrare la propria viltà.
E' una dimensione di coerenza, proprio quando il cinema di Sokurov ci appariva sempre così splendidamente schematico, rigoroso ma anche profondamente discontinuo nel suo lucido formalismo. Lontanissimo, com'è ovvio, dalla spettacolarizzazione fine a se stessa di un Bertolucci (nel suo biopic sull'ultimo imperatore della Cina) ma distante pure dal didattismo filosofico-scientifico de "il nuovo impero" di De Oliveira, è un'opera che sembra - come del resto tutto il cinema di Sokurov - affrontare la storia del mondo con un'urgenza "embrionale", come se tutto passasse dal desiderio espressivo di lordare la sua dimensione di cinema.
L'imperatore Irohito, celebrato nella sua recente morte e riabilitato dal suo stesso popolo nel 1989, è una figura ascetica, che sembra condividere un'idea di potere predestinato a un'imminente fine. Nel film di Sokurov vede la "luce" soltanto quando è consapevole del disprezzo per il potere che, forse invano, ha esercitato: nel primo tempo del film noi vediamo soprattutto un uomo apparentemente non idoneo alle sue funzioni, un outsider inetto ma abbastanza cinico per controllare le sue evidenti carenze ideologiche e organizzative.
Ma l'uomo che si lascia vestire dai suoi "servi" prostranti, l'uomo che al Quartier Generale del Nemico Usa, si fa fotografare "a distanza di tre metri" con movenze à la Charlot (buffo che sia lo stesso Chaplin ad aver dissacrato, in un'operazione non dissimile da questa, il cieco furore di Hitler) e lo stesso che lascia pantomimicamente la giacchetta sulla sedia, non è mai lo stesso di prima.
E' lo studioso di biologia marina che Sokurov irride pensando a certi personaggi di ispirazione bulgakoviana (cfr. "le uova fatali"), che studia il comportamento animale con un indefesso stupore, meravigliandosi di non potere/volere conoscere con lo stesso amore gli uomini, o il popolo che ha mandato barbaramente a morire per una guerra della durata di quasi dieci anni (il conflitto con la Cina è durato dal 1937 al 1945).
"Mi ricorda qualcuno" dice l'interlocutore americano, e i rimandi a "Molochj" partono anche da qui.
Anche stavolta Sokurov racconta la fine di un'era, oscurando volutamente le ragioni che conseguono a Pearl Harbour da una parte o dell'attacco a Hiroshima dall'altra. Un confronto che ha inizio in un climax claustofobico e serrato, nei covi dove Hirohito - straordinaria la somiglianza di Issey Ogata con il vero imperatore - si nasconde dal nemico Usa.
In quel mondo occultato c'è tutta la dannazione e la salvezza di una "trincea umana" colta a respingere al mittente l'orrore di una guerra che ha insanguinato la nazione. Nella seconda parte del film, l'arresto di Hirohito come "ospite di riguardo" focalizza l'attenzione sulla sua fatalistica sovversione delle proprie responsabilità etiche e civili: ad esempio nella lettera che scrive al figlio ("l'idea di uguaglianza del Giappone, questo ha provocato la grande guerra Asiatica") o, poco prima, nel suo album-feticcio di icone hollywoodiane (lo sguardo si sofferma, non a caso, su Marlene Dietrich).
C'è uno stacco atemporale che lascia sbigottiti: se appare forse forzata la tendenza di Sokurov a rappresentare l'imperatore come un disilluso cinico o un inconscio umorista, "Il sole" è un grande film sull'inconsistenza ideologica delle scelte di potere, sul dissenso delle proprie responsabilità, sull'illogica ragione dei fatti e il disinteresse interiore verso la sola ragione delle proprie azioni.
Quando vediamo l'imperatore negare il carattere Divino e Ascetico della propria autorità, Sokurov ci fa dono della sequenza più bella: una scelta doverosa per amore dei figli, mentre la moglie lo incita a desistere da tardivi ripensamenti di coscienza.
Il titolo del film allude al mistero dell'aurora boreale, fenomeno che a Tokyo si vede raramente, e agli uomini che osservano di nascosto il Dio discendente della Dea Sole Amaterasu.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 27/01/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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