Recensione io la conoscevo bene regia di Antonio Pietrangeli Italia 1965
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Recensione io la conoscevo bene (1965)

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locandina del film IO LA CONOSCEVO BENE

Immagine tratta dal film IO LA CONOSCEVO BENE

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Gli anni del boom sono quasi un ricordo ma l'Italia vampirizzata esiste già: specchio di un futuro ahimè sempre più diffuso nei decenni successivi, squallidi personaggi si muovono e agiscono con l'aria di chi paventa già la prossima, definitiva, riabilitazione, o peggio la conseguente credibilità. E' strano che nello stesso periodo del film di Pietrangeli, che racconta l'"odissea" (fuga dai sogni di provincia) di una ragazza di campagna alle (ine)sperienze della città un film altrettanto "corale" e di costume, altrettanto pungente e satirico, fosse "Signore & Signori" di Germi, il contraltare antiborghese sui vizi deformi del popolo veneto. L'immagine è quella, moderna e antica insieme, della Mitologia del successo, quando oggi una ragazza come Adriana, vinte le illusioni di un'universo tanto stereotipato quanto falso (ma chi ci bada più ormai?) potrebbe realmente farsi strada. Non è tutta questione di apparenza, nè di perseguire degli obiettivi Adriana non è certo una creazione da laboratorio ma una ragazza che mantiene - con la sua apparente superficialità (che paradossalmente è voglia di vivere) tutta la dignità di tante imbarazzanti e traumatiche rinunce. Si "affida" agli altri soltanto per trovare la via di fuga impossibile da un mondo che ha già l'imperdonabile colpa di aver ucciso i desideri e le ambizioni di ciascuno. Per questo Adriana non è la Valentina che in un recente film di Muccino svuota tutti i meccanismi del business a suo favore.

Gioca, in tutto cio' la reticenza del mondo contadino, incapace a cogliere le inquietudini giovanili e il desiderio di librarsi in volo da una gabbia già incontestabilmente demodè ma fiera. Gioca a suo (s)favore il moralismo provinciale della famiglia, davanti a cui lei non si presenta come "star" ma specificatamente come "sgualdrina" (equazione che somma star-system e abbienza nella stessa terminologia secondo certi criteri). Un frutto puro, che non sta in un letto (come suggerito da un crudele spot di repertorio che storpia alacremente la sua immagine) "per lavorare". Bambola smarrita nel cuore della Capitale, pero' si butta da un'uomo all'altro, esalando promesse non mantenute e cercando disperatamente di trovare un'amore vero, una dimensione il più possibile vitale dall'illusione amara di dover crescere troppo in fretta, e incautamente. Sfilano, nel film, oltre a un'inconsueta galleria di personaggi spregevoli, vittime della stessa "tratta", segno irrequivocabile delle mutazioni temporali e di costume: come Baggini, ex guitto da avanspettacolo ridotto a patetica maschera di se stesso, interpretato da un superbo Ugo Tognazzi ("Nastro d'argento" come miglior attore non protagonista del Sindacato Giornalisti Cinematografici). Esemplare, in questo senso, è la festa organizzata dal press-agent Morganelli: i Vitellismi cedono il posto a una classe abbiente, disinvolta e meschina, con cui Franco Fabrizi conferma la capacità di rendere con insolente efficacia personaggi sgradevoli e negativi; il beffardo sarcasmo di Enrico Maria Salerno nei panni di un'attore ("quello lì l'ho lanciato io" suggerisce Tognazzi-Baggini prima della vorticosa, umiliante mise in scene del treno), il pubblicitario imbroglione Cianfanna di Manfredi.

Una galleria di "mostri" della Prima Repubblica, ove il personaggio della Sandrelli sembra alleggiare, un numero tra i tanti, come se le loro squallide vite sfiorassero appena la sua. La capacità di Pietrangeli è dunque filtrata sia un'acuta e modernissima indagine "umana" sul mondo dello spettacolo passato presente e futuro, sia dall'evidenziare quanto l'eterno Mito dei comprimari (la Minoranza, i destinatari del mondo, democraticamente è ancora così purtroppo) sfugga socialmente alle regole dello script. Di conseguenza, solo quando vediamo Adriana combattere contro i suoi sogni e ritornare smarrita, solo allora imponiamo la sua presenza: sembra indifferente alla vita ma non lo è, arriva ad abortire, non vede e non ascolta forse l'unico uomo - che per principio è l'unico che puo' darle la pur modesta felicità che cerca e farla scendere dall'epirea rappresentazione di una Farsa Celebrativa, cioè il meccanico Franco Nero. Si ritrova dunque in quel ben poco vistoso ma straziante angolo di solitudine quando le lacrime le riportano la consapevolezza dei tradimenti, degli inganni, o di quanto potere e fragilità vadano di pari passo (dai flirt con uomini senza futuro, alle relazioni ehm sociali con chi promette il futuro che non c'è). Il tutto attraverso l'omologazione popolare che è anche il mondo della canzonetta, vettore spensierato di un'epopea - i tardivi anni sessanta - finalmente omessa dalla sua logorante agiografia nostalgica (stemperata di recente in un recupero patinato e snobistico da autori come Ozon). Un'opera fortemente teoremica ancor oggi, che ha avuto al cinema infiniti tributi. L'ultimo, il più commosso, quello di Marco Tullio Giordana, nella conclusiva mediazione esistenziale del tormentato Matteo. Come Adriana, spinto dal cuore a cercare il vuoto. Chi per troppo amore (Adriana) chi per un'incombente perdurante aridità (v. La meglio gioventu'). Ma pochi hanno avuto modo di notarlo:non avranno "conosciuto bene" questo film o rimosso volutamente - chissà - le colpe per cui Pietrangeli ha così creato e distrutto per noi questo bellissima chimera femminile.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 06/05/2005

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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