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Dieci anni dopo lo straordinario "Il buio nella mente", Claude Chabrol torna ad adattare un romanzo della scrittrice inglese Ruth Rendell ("The Bridesmaid", in italiano "Il pugnale di vetro"), ma era dai tempi di "Inferno" (1994) che non girava un noir così sensuale e così sottilmente "malato" com'è questo straordinario "La damigella d'onore".
Con questo film il cineasta francese, padre nobile della nouvelle- vague (ricordiamo il film capostipite "Le beau Serge" del 1954), continua la sua ricerca tesa a scandagliare ed analizzare le morbosità, i vizi e le perversioni della piccola borghesia della provincia francese, abilmente celati dietro l'apparente normalità di una ipocrita rispettabilità di facciata.
Anche in quest'opera, presentata fuori concorso al Festival di Venezia 2004, Chabrol conferma il suo stile rigoroso e impeccabile nel raccontare una storia d'amour-fou e nel materializzare l'angoscia misteriosa che deriva dalla perdita della ragione.
Non è facile riuscire a percepire i segnali che Chabrol lancia quando rivolge il suo sguardo verso gli accadimenti terreni, perchè avviluppa i suoi personaggi in un alone di suspense e di mistero ai limiti del surreale, e perchè, in un percorso di esplorazione degli istinti del cuore e della mente, suscita disordine nelle vite degli uomini, scoprendo il malessere, la follia, la vertigine infinita che albergano nel loro animo e che montano insorabilmente fino al punto patologico di deflagrazione per poi, alla fine, ricomporsi fino quasi a trovare una impossibile armonia.
Non è facile catalogare Chabrol, così come non è facile catalogare i suoi film: c'è certamente molto Hitchcock (cui peraltro ha dedicato un libro quando lavorava ai Cahiers du cinéma) nelle sue opere, e lo si capisce da come presenta i suoi personaggi (svelandone segreti, identità, problematiche, esternazioni), dalla fascinazione costante della colpa, dalla capacità di pescare nel torbido per sublimarlo, in un transfert psicologico, dal colpevole a colui che sembra l'innocente, dalla leggerezza del tocco, dalla sottile ironia, dalla capacità di giungere al culmine della suspense per poi spiazzare lo spettatore con un finale che, spesso, sembra sciogliere (in realtà solo apparentemente) l'enigma della vicenda.
Con "La damigella d'onore" Chabrol, come sempre, va al di là del film del genere e gira un noir di forte tensione emotiva, che non si evidenzia subito ma (con un abile dosaggio tra dramma e melodramma) lungo tutto il percorso di osservazione del perturbante erotico- psicologico (un misto tra fatalità e pulsioni sessuali legati vicendevolmente in un rapporto ossessivo), che motiva le scelte dei due protagonisti e che finirà per consumarli.
Comunque il regista, come sempre, non giudica, non fa la morale, non eccede, non lancia messaggi; c'è solamente la rappresentazione del male che abita ovunque, che si materializza nel più insospettabile dei luoghi o nel più inimmaginabile delle persone, che consuma vite ed esistenze intere.
La damigella del titolo è Stéphane Bellange, "Senta", come ama farsi chiamare, la ragazza che Philippe Tardieu incontra per la prima volta al matrimonio della sorella maggiore, cugina di Jack, lo sposo, nonchè damigella d'onore al matrimonio stesso.
Philippe è il classico esemplare di bravo ragazzo con la testa sulle spalle, single di bella presenza, razionale ma piuttosto comune; abita con la madre e due sorelle alla periferia di Nantes ed è il responsabile commerciale in una impresa edile.
Ha un rapporto molto intenso e sottilmente equivoco con la fatua e fragile madre vedova, che si intuisce essere stata una gran bellezza e mangiatrice di uomini. Delle due sorelle, Sophie, la maggiore, è in procinto di sposarsi, la più piccola, Patricia, vive un momento difficile fatto di intemperanze e di ribellione.
La vita di Philippe scorre tranquilla e noiosa in una quotidianità ordinata e ordinaria, diviso tra la carriera lavorativa e la matriarcale famiglia che risente della mancanza della figura paterna; fino a quando al matrimonio della sorella maggiore non conosce Senta, la donna dei suoi sogni, l'immagine dell'amore ideale, così tanto rassomigliante alla testa femminile di una statuetta che la madre tiene nel giardino e che un giorno regala ad un signore divorziato, con cui sta stringendo una affettuosa amicizia.
A Philippe quel signore proprio non piace, ed in un impeto di ribellione si impossessa della scultura e, durante il giorno, la custodisce gelosamente nel suo armadio e se la porta a letto durante la notte, come un totem feticistico, che evidenzia la sua inadeguadezza sessual-sentimentale.
Senta è una ragazza sui generis: disinibita, misteriosa, psicotica, mitomane, ma al tempo stesso infantile e delicata; esercita una travolgente passione erotica sull'ingenuo Philippe, che ne diviene l'amate e si lascia avviluppare nella fitta ragnatela di una attrazione sessuale, ossessiva e consumante, che non fa che aumentare l'intensità dei suoi sentimenti e che gli farà recidere i molteplici cordoni ombellicali delle sue certezze e della sua razionalità, sconvolgendo il suo stile di vita e la ordinarietà delle sue abitudini di bravo ragazzo.
Potrebbe sembrare una normale relazione d'amore, magari condita da un po' di sesso, tra un ragazzo perbene e una ragazza un po' disinibita, ma passionale ed innamorata, e invece così non è.
Fin dai primi indizi (che per la verità non arrivano tanto presto) si capisce che la situazione è più complessa: Senta simbolicamente vive nello scantinato, buio, sporco e quasi fatiscente, di una decadente villa padronale abitata dalla matrigna, alla quale ha lasciato le stanze migliori; è misteriosa (sparisce all'improvviso per giorni interi), e racconta di sè e del suo lavoro di modella tante cose strane, oltre che di aver avuto le più disparate esperienze (dice di essere un'aspirante "attore", di aver lavorato con John Malkovich ma che la scena girata è stata tagliata "perchè non andava", "ma non per colpa mia, ma per colpa di Malkovich"), ma sopratutto non ama come tutte le altre.
Philippe, che nasconde un animo timido e sognatore dietro una facciata di razionalità perbenista, si fa irretire dalla passione possessiva e divorante della ragazza e pian piano si lascia risucchiare nel suo universo parallelo, sospeso com'è tra sentimento amoroso e appagamento dei sensi; fino a quando Senta, come in un delirio d'onnipotenza, non gli chiede la prova del suo amore estremo e assoluto.
"Piantare un albero, scrivere alcune poesie, avere un rapporto con una persona dello stesso sesso, uccidere un uomo".
Sono queste le prove che Senta vuole avere da Philippe, come per sancire un legame d'amore con un patto di sangue, e ossessivamente gli ripete: "tu sei quello che aspettavo, tutto qui, sei il mio destino e io sono il tuo, tutto qui".
I primi due dettami non stupiscono il giovane che li considera frutto del romanticismo amoroso della sua ragazza; sono gli altri due, e soprattutto l'ultimo, a porre seri problemi di coscienza a Philippe, che da subito dimostra di non avere nessuna intenzione di compierli.
Invece Senta fa sul serio, e la soluzione è nascosta dietro le ante del suo armadio.
Quest'opera, racchiusa tra passione e sentimento, ma anche tra erotismo e morbosità, è pervasa da un senso d'angoscia claustrobica, che avviluppa il pubblico con la forza delle immagini, mettendogli addosso come un senso di spaesamento che si acuisce progressivamente, fino quasi a renderlo prigioniero e vittima dell'inganno delle immagini.
Chabrol gioca con tutto questo, e ne scaturisce un noir freddo, teso, avvincente, elegante e sensuale, tipicamente francese eppure tipicamente chabroliano; capace di creare atmosfere "malate", intrecci psicologici, intrighi inquietanti, ma anche sottile ironia che smorza la tensione, per poi, subito dopo, riaccenderla fino a deflagare nello sconvolgente colpo di scena finale che (non)risolve il mistero ma che contribuisce a mantenere alta la tensione e che costituisce il fulcro basilare del suo cinema.
Perfetto, quasi maniacale nella tecnica narrativa, con la quale riesce a creare atmosfere e suspense, e a descrivere, nell'apparente pacatezza, la banalità della sonnolente provincia francese, Chabrol non calca mai la mano nel rimescolare le carte del vivere quotidiano delle persone, i cui problemi paiono ingigantirsi a dismisura, nelle ambiguità e nelle ipocrisie che avviluppano le loro vite.
Più che sulla storia il regista punta a descrivere il "male oscuro" che alberga nell'animo umano, e tratteggia caratteri e psicologie, allargando la sua indagine a situazioni e personaggi, apparentemente secondari, in un crescendo narrativo surreale e tragico, che colpisce lo spettatore, incredulo e stordito di fronte alla parabola delle immagini, in un'opera intellettualmente impeccabile.
E' appunto qui che risiede il pregio maggiore dell'opera chabroliana: nella meticolosa capacità di saper creare i meccanismi della suspense; nella precisione e nell'accuratezza dell'ambientazione; nella classe e nel gusto dei dialoghi; nel permeare la storia di pieghe oscure e morbose; in quel retrogusto un po' démodé che permette di percepire reminiscenze volutamente hitchcockiane, laddove è la presenza femminile a vestire i determinanti panni della follia o in cui prevale l'assioma che il delitto non paga mai.
Certo il tema dell'omicidio gratuito, dell'uccisione a caso di un uomo qualsiasi, riconduce il film nella casistica dei grandi classici della letteratura ottocentesca, da Dostoevskij, a Gide, a Nietzsche, o ai classici cinematografici del genere giallo, da Hitchcock a Rivette, ma in questo caso lo scambio di omicidi proposto e voluto dalla ragazza appare più come un gesto discutibile di affermazione onnipotente, di sovversione dell'ordine morale, di sensualità perversa capace di riscattarne la banalità, che alla mediocrità di un'azione maniacale dovuta alla mancanza di senso morale o di un atto di apologia dell'individualismo.
L'interesse con cui si segue lo srotolarsi del filo narrativo è reso ancora più intenso dall'arguzia descrittiva del cineasta francese, dall'accuratezza dei dettagli, dalla precisione con cui racconta l'evolversi di un sentimento totalizzante, dalla sapienza con cui dissemina d'indizi la storia, dalla capacità di saper costruire le attese e di caricare di angoscia ogni singolo dettaglio visivo, dalla sicurezza con cui dirige i pur bravi protagonisti, a cominciare dalla credibilissima Laura Smet (splendita figlia d'arte, erede di Johnny Hallyday e Nathalie Baye), che rende al meglio il ruolo della donna enigmatica dal disturbante candore, nel solco della migliore tradizione delle più famose dark lady dello schermo.
Ottima poi la prova di Benoît Magimel, (Coppa Volpi a Venezia per "La pianista"), alla seconda prova consecutiva con Chabrol dopo "Il fiore del male", che si conferma attore finissimo e capace di sottigliezze psicologiche e sfumature recitative notevoli nel rappresentare il tormento e la perdizione del giovane Philippe.
Un cenno particolare alla compianta Suzanne Flon, alla sua ultima prova d'attrice nel piccolo ruolo di un'anziana e petulante signora, e ad Aurore Clementi, assolutamente perfetta nel ruolo della fatua madre.
Un noir asciutto e crudele, intriso di sensuale magnetismo, degno della consolidata tradizione del cinema transalpino, eppure innovativo, che avvince e non lascia del tutto indifferenti.
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Recensione a cura di Mimmot - aggiornata al 08/04/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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