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Fin troppo facile, al limite del banale, la metafora che dà titolo al prezioso film di Marino, dove la fiamma sarebbe la travolgente passione della protagonista mentalmente disturbata, per il giovane e bel professore, profondamente autistico, "affettivamente " irraggiungibile, e quindi ghiaccio). Ma la passiamo volentieri come culpa levis" per due motivi: in primo luogo perché nelle didascalie finali abbiamo letto un titolo analogo nella colonna sonora, e può quindi risultare una citazione voluta.
In effetti non c'è niente di male a seguire suggestioni dall'esterno, soprattutto ove queste vengano dalla musica, che scava a livello subliminale; come infatti succede piacevolmente nel film, con tante canzoni spagnole, e soprattutto con la trepida e inquietante voce di Umberto Bindi, poco noto forse ai più giovani, ma per noi madre di tutte le battaglie da cantautore di Italia: raro ed ineguagliato poeta, scomparso di recente, in silenzio, nella distrazione generale (qui cantava Il mio mondo).
Citavo la qualità della colonna sonora non a caso, perché non mi sembra semplice complemento del film, ma parte integrante a sé, come altri componenti. Intendo dire che il lavoro di Marino, più che un unicum complessivo, sembra costituito dalla sovrapposizione di elementi diversi, per quanto tutti validi, come nei lavori teatrali (in cui soggetto e interpreti sembrano vivere di vita propria, diversificandosi dal contorno di scenografie ed ambienti, per l'intrinseca difficoltà di dovere simulare un unico mondo esterno su un semplice palco).
Mentre il cinema ha ben altri strumenti per avvicinare la finzione al reale, miscelando coerentemente le diverse componenti del racconto, in barba alle unità di tempo e di spazio: cambiando luoghi di continuo e interpreti in scena, senza limiti di movimento e di effetti (qui le fasi del racconto erano sovente distanziati da dissolvenze a tendina).
Nel caso del film di Marino, sembra che la scansione dei vari elementi risenta della estrazione di autore teatrale del regista, per una certa frammentazione, come sopra detto, imponendoci di esaminare uno ad uno i vari elementi.
La storia, indubbiamente di forte impatto, ha però qualche semplicismo nella sceneggiatura (l'incontro tra i due, i vari bigliettini... mielosi, etc.).
Anche se, al di là di questo, ha requisiti per commuovere ed emozionare a fondo il pubblico in sala, e non solo per quanto vorrebbe la pubblicità della produzione, cioè l'elemento sentimentale (... al rogo... chi ha creato l'head-line del manifesto: "La storia di tutte le storie d'amore"!!).
Ma, semmai, per la forte compassione che anima ogni individuo sensibile nei confronti di chi vive sulla propria pelle un disagio, fisico come psichico. Né è da credere che dietro alla malattia dei protagonisti si nasconda la metafora universale dell'amore secondo Schopenhauer: inganno della natura che rende ciechi e folli!
Vero questo, occorre applaudire senza riserve la bravura degli interpreti, che hanno saputo rendere in modo molto espressivo il disagio profondo dei protagonisti del racconto (lei era Donatella Finocchiaro); in particolare Raoul Bova, su cui nessuno aveva il coraggio di scommettere, che assume qui un ruolo insolito, per un "bello"come lui (degradandosi sotto ogni aspetto, fisico e psichico). Con questa prova dimostra di avere capito la mission vera dell'attore: trasfigurarsi totalmente, alienarsi dal proprio io personale, assumendo per mimesi, quasi per transfert, la dimensione individuale del personaggio rappresentato. Complimenti a Bova, e al regista Marino, che già ai suoi esordi credeva in lui...
Discorso a parte potremmo fare per la fotografia, anch'essa molto speciale e di due generi: reale e surreale. Reale ed accuratissima, quella degli ambienti in cui si muovono i due "amorosi", il milieu borghese della Crocetta di Torino, la strada e gli ospedali dove sfanga la sua povera vita la giovane Caterina; e, infine, il paesaggio collinare del paese originario Fabrizio con la processione religiosa, tutti molto suggestivi e in sintonia coi toni del racconto. Surreale, invece, quella delle scene onirico-psichedeliche, dove Marino prova con molto coraggio a rappresentare le immagini emergenti dal profondo di un Io malato.
Diciamo con coraggio, perché assai difficili da realizzare, col rischio di smentite della scienza ufficiale o di artificiose esemplificazioni. In compenso, con l'aiuto di stratagemmi tecnici e fantasiose sequenze cromatiche desunte, direi, dal mondo dei video clips (o dal cinema di animazione in cui Marino ha lavorato a lungo), l'operazione sembra abbastanza riuscita e convincente; forse la più azzardata, ma anche la più memorabile, del film. Sensazionale, se vogliamo, come furono storicamente tentativi analoghi di cinema psicanalitico, con riferimento particolare al film di Hitchcock "Io ti salverò" degli anni '50 (b/n con Gregory Peck e Ingrid Bergman).
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Recensione a cura di GiorgioVillosio - aggiornata al 30/03/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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