Recensione la pelle che abito regia di Pedro Almodovar SPAGNA 2011
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Recensione la pelle che abito (2011)

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locandina del film LA PELLE CHE ABITO

Immagine tratta dal film LA PELLE CHE ABITO

Immagine tratta dal film LA PELLE CHE ABITO

Immagine tratta dal film LA PELLE CHE ABITO

Immagine tratta dal film LA PELLE CHE ABITO

Immagine tratta dal film LA PELLE CHE ABITO
 

"Noi interveniamo su quanto ci circonda!
La carne, gli abiti, i vegetali, la frutta... su tutto!
"

Robert Ledgard (Antonio Banderas) è un rinomato chirurgo plastico che da alcuni anni, a causa delle tragedie familiari che si sono abbattute su di lui e che continuano a tormentarlo, ha abbandonato la sala operatoria per dedicarsi al campo della ricerca scientifica. Il suo scopo principale sembra essere quello di creare una pelle transgenica capace di resistere agli attacchi provenienti dal mondo esterno in maniera migliore e più efficiente rispetto alla pelle umana. In particolare Ledgard, che dopo una conferenza racconta come sua moglie sia morta carbonizzata in seguito a un incidente stradale, desidera creare una pelle capace di resistere alle alte temperature in modo da restituire un tessuto cutaneo agli ustionati e prevenire il ripetersi del danno.
Fin da subito risulta evidente che i metodi adottati dal chirurgo vanno ben al di là dei limiti imposti dalla bioetica.

Se questa è apparentemente la sinossi del nuovo film scritto e diretto da Pedro Almodóvar, non è su Ledgard e sulle sue vicissitudini che il regista concentra la propria attenzione bensì, come le prime immagini del film dichiarano apertamente, sull'enigmatico personaggio di Vera (Elena Anaya) la giovane donna che vive segregata all'interno della villa del chirurgo e su cui questi sperimenta il risultato delle proprie ricerche.
Adesso, poiché chiunque mastichi un minimo il linguaggio cinematografico e le tecniche di scrittura cinematografica sa benissimo che la storia di un film è il percorso emotivo compiuto dal protagonista durante il corso della narrazione e poiché il protagonista non è Ledgard bensì Vera, risulta evidente come la sinossi riportata in questa recensione e la sinossi riportata sostanzialmente in qualsiasi altro articolo possiate leggere su Internet o sulla carta stampata si limitino a descrivere la cornice del film e non a riassumerne la storia.

Ma allora, direte voi, perché tutti si sono concentrati sulla cornice e non sulla storia del film? La risposta è evidente, ma non è semplice. Almodóvar stesso sembra operare una certa confusione all'interno della propria pellicola fra la storia e la cornice della storia.
In più occasioni l'autore iberico prende una direzione per poi abbandonarla e imboccarne un'altra apparentemente del tutto svincolata dalla precedente. Questo stile però non può sorprendere chiunque conosca la filmografia di Almodóvar. Inoltre, è il caso di chiarirlo fin da subito, le inversioni di rotta compiute dal regista non si limitano soltanto alla storia narrata, ma coinvolgono il film in tutta la sua interezza.
Almodóvar affronta tematiche che poi non sviluppa, introduce personaggi che poi abbandona, imbocca la strada di un genere cinematografico, ma poi compie un'inversione di marcia e ne prende un'altra che a sua volta conduce a un binario morto. Si è data tanto da fare la critica europea a decantare le lodi di un regista sessantenne che, forte di una solidissima carriera alle spalle, decide di accettare nuove sfide cimentandosi con un genere cinematografico nuovo alla sua produzione. In particolare in tanti, forse in troppi, hanno affermato che questa volta Almodóvar ha deciso di girare un thriller.
Chi scrive ignora quello che possa aver pensato nel proprio intimo Almodóvar quando si è determinato a realizzare "La Pelle che Abito", ma quello che è certo è che non si tratta di un thriller. In realtà non si tratta neppure di un film sperimentale o di rottura rispetto alla precedente produzione di questo grande autore, ma si tratta piuttosto di un compendio, parola non appropriata ma che rende l'idea, della sua cinematografia passata. Il tutto è perfettamente in linea con la sua precedente produzione artistica e non vi aggiunge niente di nuovo né negli schemi narrativi né sotto il profilo contenutistico.
Questa affermazione è in totale antitesi con tutta quella parte della critica che si è precipitata in difesa di Almodóvar (difenderlo poi da che cosa?)dichiarandosi "dalla parte di Pedro" e prodigandosi a condividere le sue scelte artistiche e il suo (presunto) desiderio di "cambiare pelle" alla propria arte cinematografica. Per questa ragione ci si trova nella necessità di argomentare questa posizione analizzando nel dettaglio il film.

Tenuto conto di quanto precede e di quel che segue si invita il lettore che ancora non avesse visionato il film ad astenersi dalla lettura dei seguenti paragrafi, poiché essi affronteranno tutte le tematiche presenti nella pellicola, rivelandone di conseguenza tutti i principali colpi di scena incluso il suo finale.

"La Piel que Habito" è la trasposizione cinematografica del libro "Mygale" (in italiano "Tarantola") dello scrittore francese Thierry Jonquet scritto nel 1984. L'opera letteraria si basa su un'idea di fondo potente, originale e dall'impatto emotivo dirompente introno alla quale si sviluppa la storia narrata. Il taglio narrativo è netto e preciso così come sono nette e precise le scelte dell'autore.
In "Mygale" non ci sono ambiguità. Si tratta di un libro che racconta la vendetta operata dal suo protagonista, analizzandone il percorso emotivo che trasforma la sua sete d'odio in un bisogno d'amore.
Benché questa tematica sia presente nella trasposizione cinematografica, essa assume un connotato più prossimo alla cornice poiché, come abbiamo affermato sopra, il protagonista del film non è il chirurgo plastico, che invece è il protagonista del libro, ma è la donna che egli tiene prigioniera che si chiama Vera nel film, mentre nel libro più intelligentemente e più ironicamente si chiama Eve.

Nella stesura della sceneggiatura Almodóvar non si è limitato a modificare i nomi dei personaggi e i luoghi, non si è limitato ad adattare le tematiche del romanzo al contesto scientifico e sociale odierno e a stravolgerne il finale. Pedro Almodóvar ha anche spostato l'asse narrativo e ha demolito le caratterizzazioni dei personaggi. Questo naturalmente rientra nella libertà artistica di ogni autore quando decide di ispirarsi all'opera di un altro autore, maggiormente quando si passa da un campo artistico a un altro e quindi ci si trova costretti ad adottare un linguaggio differente.
La grammatica cinematografica non è quella letteraria, tuttavia restano delle regole comuni ai due linguaggi e queste regole riguardano in primis il modo in cui devono essere costruiti i personaggi, attribuendo una maggiore responsabilità a carico dello sceneggiatore rispetto all'autore dell'opera letteraria. Lo sceneggiatore, infatti, per ragioni di economia narrativa si trova costretto a suggerire allo spettatore il carattere dei personaggi attraverso i dettagli, poche battute e minimi gesti che riescano a delinearlo nella sua interezza.
"Mygale" inoltre è una delle prime opere (la terza per l'esattezza) scritte da Jonquet e non è esente da difetti. Si tratta di uno di quei libri che essenzialmente si fanno portatori di un'idea originale e spiazzante senza però sfruttarla in tutta la sua pienezza; una di quelle opere letterarie che lascerebbe sperare che la sua trasposizione cinematografica possa essere lungamente superiore, specie se realizzata da uno dei migliori autori al mondo. Quindi non dovrebbe scandalizzare il fatto che Almodóvar si sia preso delle libertà artistiche.
Tuttavia, si deve fare attenzione quando non si è autori dell'idea originale e, malgrado ciò, si decide di modificare l'opera di un altro autore. Il pericolo è quello di creare dei disequilibri e delle disarmonie assolutamente nocivi per l'opera cinematografica.
E questo è quello che è accaduto con la sceneggiatura di "La Pelle che Abito".

Il libro di Jonquet era essenziale, veloce e ben calibrato. Il taglio era forse troppo netto, ma l'approfondimento psicologico del protagonista era tracciato con perfezione. Tutto ciò viene a mancare nel film.
Innanzitutto, Almodóvar contamina la storia narrata in "Mygale" con quella narrata nel film "Occhi senza Volto" ("Les Yeux sans Visage", 1960) del regista francese Georges Franju, e sceneggiato fra gli altri dalla celebre coppia di scrittori francesi Boileau e Nercejac, autori di romanzi da cui sono stati tratti film celeberrimi come "Vertigo" di Hitchcock o "Les Diaboliques" di Clouzot. E non si tratta di semplice citazionismo cinematografico, ma di una vera e propria contaminazione che alla fine resta ingiustificata.
Questo ci porta a parlare dunque dei personaggi e delle scelte compiute da Almodóvar in sede di sceneggiatura.

È noto a chiunque conosca la filmografia di questo autore, che una delle tematiche spesso affrontate nelle sue opere è la famiglia insana imperniata sua una madre legata ai figli da un rapporto morboso e conflittuale. Questa tematica, naturalmente del tutto assente nel libro di Jonquet, è stata introdotta a forza da Almodóvar che viola così la regola dell'essenzialità propria della grammatica cinematografica.
Per quale ragione il personaggio di Marilia (Marisa Paredes) doveva per forza essere la madre di Ledgard e, ancor peggio, del suo fratellastro Zeca (Roberto Alamo)? Questa scelta è inutile in rapporto alla storia narrata e si tratta di un orpello oltremodo ridondante, pesante e sgradevole. Lo stesso personaggio di Zeca avrebbe potuto essere soppresso non solo senza danneggiare l'impianto narrativo del film, ma addirittura nobilitandolo.
E non si venga a contestare che esso è fondamentale per il mutamento emotivo di Ledgard nei confronti di Vera, perché non solo è falso, ma è anche un atto maldestro. Infatti, dato l'impianto narrativo voluto da Almodóvar, lo stupro di Vera da parte di Zeca rievoca l'adulterio commesso dalla moglie di Ledgard e non la violenza subita da una creatura che si è allevato e che si desidera proteggere. Anche in questo caso, Almodóvar avrebbe fatto meglio ad attenersi al libro di Jonquet.

Allo stesso modo non ha senso il personaggio della moglie adultera di Ledgard, salvata dal marito in extremis dopo l'incidente d'auto e poi morta suicida dopo aver visto il proprio volto ustionato riflesso nei vetri di una finestra (questo dettaglio è il frutto più evidente della contaminazione operata dal film "Les Yeux sans Visage").
Si potrebbe contestare che il suicidio della moglie adultera è il fatto che provoca il disturbo psicologico in Norma (Blanca Suarez) la figlia del chirurgo, ma anche questo è ridondante e inutile. La parziale infermità mentale di Norma serve come escamotage assolutorio nei confronti di Vincente (Jan Cornet) che nel film non si macchia di stupro, malgrado invece Ledgard ne sia convinto al punto di scatenare la propria implacabile vendetta nei confronti del ragazzo.
Questa scelta buonista optata da Almodóvar in sede di sceneggiatura costituisce una delle pecche più gravi di tutto l'impianto narrativo del film. A volte la semplicità non è da disprezzare. A volte la semplicità, scomposta e ricostruita con sapienza narrativa, consente ad una storia ordinaria di trasmettere un'idea forte, trasformando l'opera narrativa in qualcosa di assolutamente straordinario.
Questo era il caso di "Mygale" la cui storia era elementare, ma scomposta e ricomposta in modo tale da sedurre il lettore. Nell'opera di Jonquet il tutto era assai semplice. Una coppia di ragazzi stupra la figlia sedicenne di un brillante chirurgo plastico rimasto vedovo. La figlia non supera il trauma ed è ricovera in un ospedale psichiatrico. Il chirurgo scopre soltanto uno dei due stupratori e contro di lui scatena la propria vendetta.
Persino la vendetta, che nel libro è feroce, nel film di Almodóvar risulta essere incomprensibilmente edulcorata. Eh già, ma nel film come abbiamo anticipato, il protagonista non è Ledgard, ma è Vera e quindi Vincente, cui non si risparmia neppure la pessima battuta "Mi chiamo Vera, Vera Cruz".

Quindi non si è voluto rendere il protagonista un mostro stupratore che in qualche modo poteva meritare la feroce vendetta di un padre che ha perduto la sola cosa cara che gli era rimasta nella vita. No, si doveva renderlo una vittima e trasformare il suo gesto in una leggerezza che ricorda abbastanza da vicino uno dei veri capolavori della filmografia di Almodóvar "Parla con Lei".
Almodóvar ha anche demolito il finale decisamente interessante oltre che bello e intelligente del libro di Jonquet per appiccicare un epilogo melodrammatico, insulso e sciatto, che però ricorda assai da vicino altri suoi film.
Tutte queste modifiche, anziché nobilitare l'opera cinematografica rispetto a quella letteraria, hanno demolito la struttura narrativa del libro impoverendo il profilo psicologico dei personaggi col solo risultato di rendere spesso incomprensibili e inverosimili le loro scelte. Almodóvar ha voluto aprire troppe porte senza poi essere capace di richiuderle. Ha lasciato un'ecatombe di binari morti, di spunti non sviluppati. E questo fatto è inaccettabile visto il calibro dell'autore che lo ha commesso.
Anche la scelta di invertire i tempi dell'operazione chirurgica che trasforma Vincente in Vera non ha senso. Nel libro il prigioniero è sottoposto a cure ormonali che lentamente gli modificano il corpo. La vaginoplastica è l'ultima fase della trasformazione, non la prima.
A questo si aggiunge la pigrizia narrativa dimostrata da Almodóvar in sede di sceneggiatura. Il flashback lunghissimo che racconta quello che è avvenuto sei anni prima è pesante e pregno di un ingiustificato autocompiacimento. Sarebbe stata buona regola se la sceneggiatura avesse mutuato dal libro anche i tempi narrativi, inframmezzando la trama principale con una serie di flashback più rapidi e veloci, che lasciassero intuire senza spiegare, anziché spezzare letteralmente il film in due tronconi mettendoci in mezzo praticamente un altro film.

A questo si aggiunge che una serie di argomenti affascinanti quale la tematica della transgenesi, la bioetica, la creazione di un'epidermide capace di resistere alle alte temperature così come alle punture di insetto, si rivelano tutti delle false tracce, poiché alla fine gli argomenti di cui tratta il film sono la vendetta che si trasforma ossessione; l'ossessione che si trasforma in amore; l'artista che si innamora della propria opera; la famiglia quale coacervo di tutti i mali; la vittima che si rivolta contro il carnefice o meglio il carnefice che è vittima inconsapevole.
Addirittura la tematica della perdita di identità si dimostra una falsa traccia che viene introdotta dalla prima battuta recitata da Banderas e poi abbandonata. Si confonde in tal senso la pelle, che è l'ultimo livello di difesa dell'individuo, con il volto, che rappresenta l'identità dell'individuo (altra evidente pecca causata dall'insensata contaminazione compiuta da Almodóvar col film di Franju).
Ma è della pelle che il film parla come enuncia il titolo stesso. La pelle che è il baluardo di difesa dell'individuo, il confine che lo separa dal mondo esterno e che lo protegge dalle sue invasioni, è evidentemente il simbolo dell'individualità, non dell'identità, dell'essere umano, ma al tempo stesso prigione della sua vera essenza.

L'interpretazione che Almodóvar, probabilmente inconsapevolmente, enuncia attraverso la descrizione complessiva del personaggio di Vera sembra mutuata dalle Lettere di San Paolo Apostolo ed è antitetica all'interpretazione assolutamente assai più nichilista che traspare dal romanzo di Jonquet. Vera addirittura pratica lo yoga per rifugiarsi dentro di sé, ossia per evadere da quella che è la sua vera prigione: il corpo che Ledgard le ha imposto.
In sintesi Almodóvar ha accuratamente evitato di trattare tutte quelle tematiche su cui questa storia affascinante e morbosa si affacciava, per propinare al pubblico tutte quelle altre tematiche che egli stesso ha già affrontato più volte e in modo assolutamente migliore nelle proprie opere precedenti.
Senza dilungarci ulteriormente, in questa sede si reputa che sotto il profilo narrativo "La Piel que Habito" sia uno sfacelo. I personaggi sono irrimediabilmente piatti, superficiali, ridondanti e al contempo paradossalmente poveri e inconsistenti. Il ritmo narrativo è lento, involuto, spesso contraddittorio e pieno di promesse non mantenute.

Tuttavia, un film non è composto soltanto dalla sceneggiatura.
Passiamo dunque a esaminare la regia di Almodóvar. Il regista dimostra tutta la propria passione per il ricorso al dettaglio, anche non funzionale alla narrazione, allo studio sapiente delle inquadrature, all'eleganza dei movimenti di macchina, alla proporzione a all'armonia di ogni singola inquadratura, allo studio dell'impatto cromatico, questo sì finalizzato ad una funzionalità narrativa.
Bene, sotto questo profilo si può affermare in tutta serenità che ci troviamo di fronte ad un'opera sontuosa che tende alla perfezione. In particolare si noti l'eleganza dei decori è il potentissimo ricorso ai contrasti cromatici in cui domina la dicotomia fra il rosso scarlatto e il nero. Magistrale in tal senso la scena della conferenza di Ledgard, ma anche quella che dà avvio al flashback mostrando le due differenti versione di quel che è accaduto durante la festa.
Sono semplicemente magnifiche le scene in cui Ledgard ammira Vera sul maxischermo che proietta l'immagine catturata dalla telecamera di sorveglianza. Fra queste indubbiamente la più bella è la terza: quella che regala allo spettatore un lungo, intenso e seducente primo piano di Elena Anaya.

Almodóvar, nella veste di regista, si dimostra ancora una volta eccellente nel dirigere gli attori di cui paradossalmente quelli che convincono meno sono proprio i due che vantano il più lungo sodalizio col regista, Antonio Banderas e Marisa Paredes, che comunque si dimostrano due abili professionisti. Sono eccellenti, invece, le interpretazioni di Elena Anaya e di Jan Cornet.
La regia poi è coadiuvata dall'eccellente fotografia dell'ormai inseparabile José Luis Alcaine.
Ottime anche le musiche di Alberto Iglesias.

In barba a quanto affermato da gran parte della critica, Almodóvar non si è dato né al thriller né all'horror, non ha raccontato in chiave moderna il Frankenstein di Mary Shelley, ma ha realizzato la trasposizione cinematografica un romanzo francese di genere noir, che non si limita ad essere una semplice fonte d'ispirazione e che assurge a soggetto del film, denaturandolo però dei suoi contenuti nichilisti, destrutturandone la solidità dell'impianto narrativo e annullandone l'approfondimento psicologico e sociologico dei personaggi.
"La Pelle che Abito" è un melodramma perfettamente in sintonia con quella che è stata tutta la produzione passata di Pedro Almodóvar e si instaura quindi sul binario della continuità stilistica, artistica e contenutista piuttosto che sulla rottura tanto erroneamente decantata da parte della critica. Chissà se quella stessa critica avrebbe difeso allo stesso modo questo film se, anziché essere realizzato da Pedro Almodóvar, fosse stato realizzato da un autore emergente del cinema hollywoodiano?

Almodóvar, come il suo protagonista, si è dato alla chirurgia estetica, non per cambiare genere, ma per fare un lifting della propria carriera. Il risultato è paragonabile a quello di un intervento di chirurgia plastica: un prodotto perfetto nella sua dimensione estetica, ma assolutamente povero nei contenuti.
Non è corretto neppure affermare che si tratta dell'ennesima dichiarazione d'amore che Pedro Almodóvar rende alla Settima Arte, poiché il solo cinema che egli cita davvero è il proprio. Troviamo gli stessi contenuti e gli stessi schemi narrativi di film come "Tacchi a Spillo", "Kika, un corpo in prestito", "Légami!", "Matador", "Volver", "Parla con Lei" e di tanti altri, senza mutuarne la grandezza stilistica né la forza narrativa.
Inoltre, il finale contraddittorio, forzato e inutilmente sciatto risulta essere appiccicato ad una storia che avrebbe lasciato presagire un ben altro epilogo. Magari proprio quello pensato e scritto da Thierry Jonquet.

Complessivamente si tratta di un film pregno di autocompiacimento e sostanzialmente perdibilissimo poiché non aggiunge niente alla carriera di Almodóvar.
L'opera è tuttavia parzialmente riscattata dalla propria dimensione estetica, coadiuvata dall'eccellente prova interpretativa degli attori. Solo questo ha permesso ad Almodóvar di conservare la propria identità autoriale e di non perdere la faccia, dando seguito e credito a quanto afferma Ledgard all'inizio del film:

"Il volto è la nostra identità!"

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 11/10/2011 17.27.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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