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La landa di nessuno che propone il titolo è quella piatta della recente ondata filmica che ha travolto le sale internazionali. Una mareggiata di pellicole senza idee che hanno condotto la crisi cinematografica ad assumere un respiro globale e dove, dispiace doverlo sottolineare, bisogna annoverare un'opera di presunto alto calibro: "La terra dei morti viventi" di George Andrew Romero.
Dal film del leggendario regista degli zombi avremmo preteso non di più, ma proprio tutt'altro lungometraggio. La pellicola dal titolo originale "Land of the dead" era preannunciata in lavorazione da almeno otto anni e avrebbe dovuto essere il grandioso ritorno del cineasta divenuto cult negli anni '70 grazie a "La notte dei morti viventi, Zombi" e "Il giorno degli Zombi". L'attesa era cresciuta, le voci che circolavano parlavano di un film maestoso e angosciante, la lotta umana per la sopravvivenza in un mondo dominato dai morti che camminano. Invece si è rivelato un film insulso, quasi un offesa in ricordo alla precedente trilogia capolavoro.
Una trama banale che potrebbe esser stata scritta da qualunque regista horror sulla piazza, con dialoghi al limite del farsesco e action-splatter a dosi massicce, che alla fine suscitano più noia che brividi nel pubblico in sala. La storia narra la vita di una nuova società umana, guidata come nel medioevo da un despota-tiranno (Dennis Hopper), che crede di avere la responsabilità di proteggere la "sua" gente, ghettizzandola. Al di fuori delle barriere protettive, orde di zombi, stanchi di essere divenuti bersagli semi-mobili, sviluppano una capacità comunicativa e una raziocinante lucidità famelica, che li spingerà ad entrare nella città fortificata e mal difesa, dove riusciranno a lottare e a salvarsi solo un variegato manipolo di personaggi (tra cui non spicca l'italiana Asia Argento, figlia di Dario che insieme alle musiche dei Goblin aveva collaborato con Romero per il secondo capitolo della saga), i quali, guidati da un abile ex soldato (Simon Baker), daranno ancora speranza all'umanità devastata.
Il film è un continuo rimando alla trilogia che l'ha preceduto, pieno di cliché autoironici che trovano il momento più emozionante nel cameo del sessantenne mago del make-up Tom Savini.
I morti viventi, cardine attorno a cui dovrebbe girare la narrazione, assumono l'identità di una nuova "razza", come un'etnia del male che cerca la propria terra promessa, un posto dove andare come afferma nell'epilogo il protagonista Riley, perché ora che il mondo è da loro quasi interamente dominato, non sono più solo gli uomini a dover lottare per sopravvivere.
La retorica che pervade l'intera pellicola è quella della polemica anti-americana di bassa lega, fiacca e piena di stereotipi classici del cinema dell'orrore, che, funzionano perfettamente in quel tipo d'ingranaggio, ma se accostati al cinema di Romero, specie in prospettiva di un'eventuale seconda trilogia, hanno l'effetto di far rivoltare anche i non-morti nelle loro tombe.
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Recensione a cura di Simone Bracci - aggiornata al 01/08/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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