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Kusturica è un animale da festival. Un paio di palme d'oro per miglior film, una per la miglior regia, un orso e un leone d'argento.
La vita è un miracolo, presentato anche questo all'ultimo festival di Cannes, non ha convinto e, strano a dirsi, è tornato a casa a mani vuote.
L'eclettismo e la vitalità di Kusturica ben si fondono con i suoi personaggi, gente lunatica dei balcani, piena di gioia, di fervore, ma anche pronta a buttarsi giù alla prima difficoltà.
Kusturica sulla sua terra, sulla sua gente, ha fondato un cinema quasi di maniera, prendendo idealtipi e modificandoli di volta in volta, a seconda delle loro tendenze.
La vita è un miracolo rispetta in pieno i canoni del regista serbo.
I primi venti minuti di film sono un susseguirsi di piani ambientazione e di veloci presentazioni di personaggi.
Ci mettiamo una buona mezz'ora per focalizzare su chi, e perché, il regista vuole incentrare la storia, di chi ci vuol parlare.
Luka è l'addetto ad un piccolo snodo ferroviario, al confine tra Bosnia e Serbia.
La moglie Jadranka, imbranata e nevrotica cantante lirica, fuggirà di lì a poco con un sedicente e strampalato artista ungherese. Il figlio, Milos, partito militare, verrà fatto prigioniero. Luka riscoprirà l'amore con Sabaha, giovane infermiera musulmana, che però sarà anche il cardine della liberazione del figlio.
Kusturica mette in scena i suoi personaggi come se fossero in un palcoscenico. I plastici che costruisce Luka ci danno l'idea delle dimensioni di questo grande palco. E le puntate al di fuori, i personaggi estranei, sono veramente ridotti all'osso.
Il microcosmo in cui la macchina da presa si muove viene descritto in maniera nervosa, segmentata, fin quando non ci porta al nocciolo della questione, al protagonista del racconto.
Ma il disorientamento (voluto) dei primi passi del film, perdura (suo malgrado) per il resto del film.
Personaggi descritti macchiettisticamente, evoluzione dello script approssimativa e forzata, un finale forzosamente comico e melenso, rovinano le buone impressioni dell'inizio.
Kusturica vorrebbe porre l'accento sulla casualità della guerra, sulla bontà (diffusa) di chi spesso vi rimane invischiato suo malgrado, sull'affetto vero e quello ostentato.
Ma purtroppo si rifugia in maniera involuta in un grande carosello, una grande scatola chiusa dove le storie e i personaggi vengono a loro volta rinchiusi in stereotipi e caratterizzazioni.
Viene a mancare insomma, la veridicità, l'amarezza e il cinismo che da sempre erano costanti del cinema di Kusturica.
E che l'hanno portato, quest'anno, dall'altra parte della barricata festivaliera, nel ruolo, per lui insolito, di presidente di giuria a Cannes.
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Recensione a cura di Pietro Salvatori - aggiornata al 17/02/2005
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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