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Film del 1963, vincitore al festival di Venezia, "Le mani della città", diretto dal bravo Francesco Rosi, all'epoca particolarmente fecondo, appartiene alla cosiddetta cinematografia di denuncia, genere che può essere considerato gemmazione del neorealismo. Infatti con il neorealismo il cinema esce dai salotti per andare per strada e seguire la gente, quella semplice che vive nei bassifondi e che tribola per guadagnarsi il diritto all'esistenza. Dopo l'osservazione della vita di tutti i giorni viene di pari passo la denuncia delle brutture, degli imbrogli, della "mala vita" intesa letteralmente come vita condotta in maniera cattiva.
Rosi è appunto uno dei registi che maggiormente sceglie questa impostazione e per farlo dal punto di vista tecnico, almeno per quanto riguarda questa pellicola, sceglie un taglio a metà strada tra il cronachistico e il documentaristico, abolendo deliberatamente ogni commento musicale (quasi a precorrere i dettami del DOGMA seguito al giorno d'oggi da Lars von Trier) e tentando di mettersi come dice Flaubert in riferimento allo scrittore e alle sue opere "al balcone a rimirare con distacco la sua creatura" in quanto, all'apparenza, gli attori sono lasciati liberi e la telecamera si limita ad osservare le loro azioni con distacco come un reportage di un telegiornale. A parte Rod Steiger, attore statiunitense e quindi doppiato con perizia da Aldo Giuffrè e Salvo Randone, grande attore di teatro spesso prestato al cinema, gli altri interpreti sono poco noti mentre la folla (con attori deliberatamente non professionisti presi dalla strada) ha un ruolo importante come un coro greco che giudica, osserva, condanna, distrugge.
Le scene sono poche e si alternano tra interni ed esterni, grande spazio è riservato alle sedute del consiglio comunale dove si sceglie di inquadrare volta per volta la persona che parla per permettere allo spettatore di inquadrare il suo pensiero ma anche come retaggio teatrale però (essendo la pellicola quasi un documentario filmato), si da' grande importanza alla parola ma se ne da' altrettanta all'immagine).
La storia è dura, aspra, anche se l'epoca del film è quella del boom economico e anche edilizio con tutte le sue conseguenze attualmente pagate dai contemporanei, per certi aspetti lo squallido inghippo descritto potrebbe viversi anche ai nostri giorni (basta sfogliare i giornali per vedere quanto marciume ci ammorba l'aria).
Le quattro figure chiave che si muovono sullo schermo simboleggiano quattro tipologie: il faccendiere senza scrupoli, pronto a tutto pur di riuscire a galleggiare e a ottenere; il politico machiavellico per il quale il fine giustifica ampiamente i mezzi, capace di grande dialettica e di altrettanto cinismo, l'ingenuo, fiducioso e convinto dell'intrinseca bontà o buona fede altrui e il cavaliere senza macchia e senza paura quasi un don Chisciotte pronto a combattere senza tema ma quasi altrettanto destinato a sconfitta o ad oblìo.
L'amaro finale è chiaro ed evidente. Il regista è attento a non fare nomi o a citare partiti per timore di quella censura sempre in agguato soprattutto all'epoca ma il suo messaggio è evidente anche a chi non conosce la situazione contemporanea alla pellicola.
Rimasto in auge per due decenni il film di denuncia è poi caduto nel dimenticatoio negli anni Ottanta ed è attualmente poco sfruttato, purtroppo però le cose da denunciare non mancano di certo.
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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 30/06/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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