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"Io ho scoperto che sono le piccole cose buone delle persone comuni che tengono a bada l'oscurità. Piccoli atti di bontà e amore".
Bilbo Baggins è uno hobbit e come tale non ama le avventure perché "fanno far tardi a cena".
Suo malgrado viene coinvolto dallo stregone Gandalf in una spedizione di tredici nani capeggiati dal fiero Thorin Scudodiquercia, per riconquistare il regno nanico di Erebor usurpato dal temibile e spietato drago Smaug. Durante la sua avventura Bilbo si imbatte in una orrenda e viscida creatura, Gollum, al quale sottrae un anello dagli inaspettati poteri, ignaro dei risvolti che questo incontro avrà sulle sorti della Terra di Mezzo.
Dopo anni di speculazioni, falsi rumors, rinvii, sospensioni, fallimenti di società, abbandoni, ritorni e quant'altro di folle si possa immaginare, giunge finalmente nelle sale "Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato", primo capitolo di quella che è stata concepita come una nuova trilogia sul mondo creato da Tolkien. Delle varie vicissitudini che hanno caratterizzato l'iter produttivo si sa più o meno tutto, con Guillermo Del Toro prima opzionato e poi confermato alla regia di una trasposizione suddivisa inizialmente in due capitoli, i ritardi dovuti alla crisi finanziaria della MGM (gli stessi che hanno rallentato l'ultimo James Bond), l'abbandono dello stesso Del Toro e il ritorno di Peter Jackson alla guida della sua creatura più nota, passando per un paventato, ma poi scongiurato, abbandono della Nuova Zelanda come location della Terra di Mezzo, fino al più recente annuncio di un ulteriore capitolo che andrà a comporre una nuova trilogia che ci accompagnerà fino al 2014.
Tutte le belle storie meritano un'infiorettatura, Peter Jackson si serve di Gandalf per sostenere una verità in cui il regista di "Pukerua Bay" crede molto. Del resto trasporre un'opera come "Lo Hobbit", che conta poco più di 300 pagine, in tre film della durata di tre ore ciascuno è un'impresa che necessita gioco forza di qualche espediente che dilati in qualche modo l'arco narrativo. Era capitato nella trilogia de "Il Signore degli Anelli", che in quanto a mole di materiale non è secondo a nessuno, non fa eccezione questo primo capitolo de "Lo Hobbit". Ecco dunque che assistiamo ad una prima parte leggermente prolissa, sicuramente meno fluida della seconda, con un incipit legato al personaggio di Thorin Scudodiquercia il quale ricorda, per carisma e lealtà, l'Aragorn di Viggo Mortensen, entrambi re senza trono e senza regno costretti a lottare per il proprio destino. Allo stesso modo il suo orgoglio, il suo rancore ed il suo tormento non possono che riportare alla mente lo splendido Boromir di Sean Bean. Sotto questo aspetto è notevole il lavoro fatto da Richard Armitage, ampiamente convincente ed in parte.
Il suo Thorin ci viene perciò presentato con mirati flashback che permettono allo spettatore di capire e conoscere il suo carattere spigoloso, ma anche le motivazioni che si celano dietro il viaggio intrapreso dalla compagnia dei nani.
Non era però certo lui il protagonista più atteso. Per ovvi motivi l'attenzione di tutti era rivolta verso colui che avrebbe interpretato lo hobbit del titolo, Bilbo Baggins. A riguardo Peter Jackson è sempre stato abbastanza chiaro, nella sua testa c'è sempre stato spazio per un solo nome che fosse realmente all'altezza di questo fardello: Martin Freeman. Nemmeno l'impossibilità di averlo (causa impegni in precedenza sottoscritti con la BBC per la serie televisiva "Sherlock", e dunque vincolanti) ha fatto desistere Jackson dalle sue convinzioni e così, riprogrammando l'agenda, ha fatto si che Freeman potesse prendere parte ad entrambi i progetti, senza venir meno agli accordi con l'emittente britannica.
È chiaro che se uno come Peter Jackson vuole una cosa a tal punto da dividere in due le riprese, un motivo ci deve essere ed infatti è così. Martin Freeman è perfetto per interpretare Bilbo, è intelligente, divertente, ironico e coraggioso allo stesso tempo. Non è molto famoso (qualcuno potrebbe ricordarlo in "Love Actually" o "Guida galattica per autostoppisti"), ma in fondo nemmeno Viggo Mortensen lo era ai tempi de "La compagnia dell'anello" e tutti sappiamo poi come sono andate le cose.
Lo sgomento che Bilbo prova nel trovarsi a Gran Burrone in mezzo agli elfi è lo stesso che prova Martin Freeman nel trovarsi catapultato in una produzione "mainstream", per giunta in un genere a lui estraneo come il Fantasy. Proprio come Bilbo si trova lontano da casa, spaesato e fuori posto. Tutto questo non fa che aiutare la sua interpretazione, rendendola vera e sincera. Il pubblico percepisce il suo stupore, gli crede e riconosce in lui il personaggio di Tolkien e, nondimeno, si rivede nei suoi problemi. Si perché le sue paure altro non sono se non lo specchio delle nostre, le sue esitazioni, il suo disagio, il suo sentirsi inadeguato e giudicato fanno di Bilbo uno di noi. Lui non è Frodo, Bilbo ha compiuto una scelta, mentre Frodo una scelta non l'ha mai avuta. Bilbo indirizza il suo destino, Frodo lo subisce. Ecco perché sentiamo più nostra la storia di Bilbo, perché è la storia di un uomo comune che fa una scelta, che rischia e ne porta sulle spalle le conseguenze. A livello empatico questo aiuta non poco.
Detto dell'ottima prova di Martin Freeman e Richard Armitage, occorre citare due grandi ed attesi ritorni, quelli di Ian McKellen e Andy Serkis. Il primo si conferma uno strepitoso Gandalf, mettendone in risalto nuovi aspetti come le sue debolezze e i suoi dubbi, mentre il secondo è ormai indissolubilmente legato al personaggio iconico di Gollum (il più stratificato della saga), protagonista insieme a Bilbo della sequenza madre di questa prima parte, ovvero la sfida degli indovinelli, probabilmente uno dei momenti più emozionanti della pellicola insieme alla sequenza in cui Bilbo ha l'occasione di uccidere Gollum e non lo fa, memore delle parole di Gandalf:
"Il vero coraggio si basa sul sapere non quando prendere una vita, ma quando risparmiarla".
La forza di quella scena assume valore soprattutto in rapporto allo scambio tra Gandalf e Frodo nelle miniere di Moria ne "La compagnia dell'anello", quando lo hobbit si rammarica per il gesto dello zio e lo stregone lo ammonisce:
"Molti di quelli che vivono meritano la morte e molti di quelli che muoiono meritano la vita, tu sei in grado di valutare, Frodo?".
Se un regista è capace di emozionare il pubblico a tal punto allora merita tutti gli elogi possibili e Peter Jackson si è guadagnato a pieni voti questo merito.
Una curiosità riguardante il cast: il partner di Freeman in "Sherlock", Benedict Cumberbatch, è anche lui presente ne "Lo Hobbit": sarà il Negromante e darà voce al drago Smaug nei prossimi due film.
Alla luce di quanto detto, azzardare un confronto con la trilogia de "Il Signore degli anelli" è quanto di più naturale e legittimo si possa fare, ma occorre tener conto del fatto che il materiale alla base delle due opere non è paragonabile sia per forma che per contenuti. "Lo Hobbit" è molto meno epico de "Il Signore degli anelli", l'atmosfera che si respira è decisamente meno opprimente e l'aria non è pervasa da un senso di fine del mondo imminente. Quindi? Quindi stiamo parlando di Peter Jackson, uno che ha scritto una pagina importante e rivoluzionaria nella storia del cinema fantasy, uno che appunto crede nelle belle storie, ma ancor di più crede nell'abbellimento delle belle storie, perciò cosa fa? Si serve dell'enorme mole di materiale lasciato da Tolkien nelle sue appendici per ampliare le vicende di Bilbo e i nani e al tempo stesso darci un quadro d'insieme di quanto sta accadendo nella Terra di Mezzo. In tal senso risultano essere funzionali e non forzati i ritorni di Saruman e Galadriel (riuniti nel Bianco Consiglio insieme a Gandalf ed Elrond), ma anche l'introduzione dello stregone Radagast il Brumo e la figura oscura del Negromante. In questo modo Jackson conferisce maggior spessore ad un'avventura semplice e fiabesca, arricchendola di sfumature e rendendola maggiormente appetibile per il pubblico, confermandosi così un grande adattatore.
Breve accenno alla colonna sonora composta anche stavolta dal premio Oscar Howard Shore, il quale però ha rischiato davvero poco, riproponendo in chiave rielaborata i temi principali della "Trilogia". A voler trovare a tutti i costi un difetto all'opera, forse andrebbe imputato proprio alla colonna sonora anonima, eccezion fatta per "La Canzone della Montagna Solitaria", una ballata composta dall'artista neozelandese Neil Finn che ci accompagna durante i titoli di coda, ma le cui rielaborazioni si possono ascoltare anche durante le varie scene d'azione.
Per chiudere occorre ribadire che i ritorni non sono mai semplici, nella vita come nel cinema. C'è sempre quella sensazione che per quanto uno si possa sforzare, il passato non tornerà mai con i suoi fasti e i suoi bei ricordi; subentra così un senso di frustrazione, superata la quale scatta quella molla che ci spinge a passare al livello successivo, ad evolverci. Peter Jackson lo sa bene e così ha fatto, ha saputo emozionarci ancora una volta regalandoci un meraviglioso ritorno e facendoci desiderare di tornare quanto prima nella Terra di Mezzo a goderci il seguito di questa bella storia infiorettata.
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Recensione a cura di Luke07 - aggiornata al 27/12/2012 11.03.00
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