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Molti hanno scritto o dichiarato che in questo terzo capitolo della serie vi sarebbe più storia e meno azione. Mi si conceda di dissentire in modo assoluto.
Il film, molto più simile al primo episodio per l'impianto narrativo della sceneggiatura che fa largo uso di alta tecnologia come supporto nelle azioni del protagonista, è un architrama classico con una trama principale e una sottotrama (la storia di Hunt con Julia). La trama principale è suddivisa in quattro atti, mentre la sottotrama è in pratica solo in due atti. Dalla fine del secondo atto in poi la sottotrama confluisce nella trama principale dato che Julia è rapita dal cattivo e per sconfiggerlo ora deve anche salvare la sua amata.
Come spesso accade, anche in questo caso purtroppo assistiamo inermi a roba già vista. Sfido chiunque a restare sorpreso sull'identità della talpa o sul finale. Infatti, i colpi di scena ricalcano quelli dei due episodi precedenti rendendo così prevedibile lo sviluppo della trama.
Per il resto, la sceneggiatura risponde bene ai canoni del classico action movie e la storia progredisce attraverso il conflitto fisico tra l'eroe ed il super cattivo (o i suoi tirapiedi, l'esercito rivale e le spie interne all'organizzazione come ormai avviene spesso da "I tre giorni del condor") ed un continuo mutamento dei set (il film inizia in America, poi si sposta a Berlino e Roma per finire a Shangai).
Il problema principale è che gli sceneggiatori, Alex Kurtzman, Roberto Orci (già autori in coppia del copione di "The legend of Zorro" e "The Island") e lo stesso regista J.J. Abrams (autore delle serie televisive "Alias" e "Lost"), si sono sforzati di aggiungere nella storia oltre al conflitto extra-personale anche uno interiore. Questo però non è possibile in un film con questo ritmo e con un montaggio così veloce, da qui l'abbondante esposizione con retorici flashback o roba simile. L'idea di inserire un flusso di coscienza al personaggio di Hunt dovuto all'amore per una ragazza che non conosce il suo vero lavoro, non contribuisce al dovuto approfondimento in quanto appare frettoloso e appena accennato. Nei film di James Bond o nello specifico nella trilogia di MI il protagonista ha già fatto la sua scelta accettando l'incarico e perciò non si trova mai di fronte ad un vero dilemma e quindi in genere questi film si risolvono in una progressione elaborata di un'unica azione: la caccia al cattivo; infatti, Hunt non prende mai alcun altra decisione sostanziale, ma effettua solo scelte per portare avanti l'inseguimento. La sottotrama amorosa che aveva tale funzione di "insight", non decolla mai ed è di utilità soltanto nella prima parte del film nella quale contribuisce a dare un po' di pepe ad un inizio insolitamente di basso profilo, perciò un esperimento non riuscito.
Il regista aveva dichiarato: «La chiave giusta per rinnovare il film d'azione è quella di narrare una storia dal punto di vista emotivo. I personaggi devono essere al centro della storia con le loro emozioni e i loro conflitti interiori.». Ma davvero credono che basti inserire l'idea di un matrimonio per creare un conflitto interiore e aprire così un divario all'interno del personaggio? D'altronde quale scelta fa Hunt che non farebbe se non ci fosse stato il matrimonio di mezzo? La risposta è: nessuna. La smettessero perciò di dichiarare boiate.
Non c'è dunque più "storia", ma solo un tentativo, esile quanto risibile, di imbastire qualcosa che vada oltre la trama principale. Il secondo episodio a mio avviso era strutturato molto meglio; la sceneggiatura di R. Towne era più che valida e, pur con tutti i limiti imposti dal genere, confezionava un action movie solido che non aveva alcuna falsa pretesa di raccontare ciò che non era in grado di fare.
Interessante da analizzare è anche l'incipit. Veniamo di botto proiettati in quella che ovviamente sarà la scena obbligatoria del film o per meglio dire la crisi finale, quando l'eroe si trova davanti il cattivo. L'evento dinamico (il cosiddetto "grande gancio") era, dopo due episodi, particolarmente fiacco e quindi è stato spezzato in due in quanto la vera missione arriverà soltanto dopo la fine del primo atto (ossia dopo aver salvato la collega rapita dal nemico, inizierà la vera sfida tra il protagonista ed il suo antagonista). Per far sì che il pubblico non si assopisse aspettando il vero inizio, i montatori (o forse gli sceneggiatori stessi) hanno deciso di collocare parte della crisi all'inizio così da mantenere vivo l'interesse. Trovata non originale, ma sicuramente azzeccata. Il montaggio di Mary Jo Markey e Maryann Brandon d'altronde è davvero portentoso.
Il regista J.J. Abrams si concede due stili di ripresa: statico e dolce con movimenti di camera lenti e fluidi nella sottotrama amorosa, mentre nelle scene d'azione la camera in spalla diventa furibonda muovendosi più di quanto non si possa fare soltanto con il movimento naturale del corpo. Il tentativo di concitare queste scene per far sembrare lo spettatore presente è palese e l'intento riesce alla perfezione, ma forse alla fine si eccede in questa tecnica che alla lunga infastidisce. Sfoggi di tecnica registica si rilevano in tutto il film. Uno particolarmente bello si può apprezzare nella corsa finale di Hunt verso il palazzo dove è nascosta Julia. La camera segue Cruise alla stessa velocità aprendo sempre di più il diaframma facendo in modo che Cruise resti a fuoco mentre il paesaggio e le persone circostanti si frammentano in macchie di luce. Bellissimo.
In negativo invece si devono annoverare almeno la scena del party al Vaticano, rappresentato come un lussuoso bar milanese all'ora dell'aperitivo, e il finale tutto alla moviola della serie "volemose bene" (di una retorica che supera anche quella di Spielberg).
Regia e montaggio, in ogni caso, donano un ritmo incredibilmente avvincente e salvano una sceneggiatura non azzeccata. Il problema è però che dopo un po' questo stile inizia a divenire ridondante e stanca anche perché la prevedibilità della scena non riesce a rendere un coinvolgimento pieno e sembra che regia e montaggio vogliano spingere lo spettatore lì dove non ci riesce la storia (cosa che in principio funziona, ma che perde di forza lungo il film).
Mi riservo un complimento particolare per il direttore della fotografia Daniel Mindel ("The Skeleton key", 2005; "Spy game", 2001) poiché l'uso delle luci è impeccabile: calde nella prima parte (per farci avvicinare empaticamente al personaggio), fredde nella seconda (per evidenziarne la sofferenza) e rossa nel finale (per creare atmosfera).
Per quanto concerne invece gli attori, su tutti si eleva P. S. Hoffmann in forma smagliante che interpreta con classe il miglior cattivo della serie. Al solito Cruise e gli altri, mentre è un pò sciatta Michelle Monaghan nel ruolo della "Hunt girl".
Si può perciò concludere affermando che, se da un lato la ricchezza della scenografia, la potenza del montaggio ed in generale una tecnica eccelsa rende possibile, almeno in parte (finché non ci si rende conto del "trucco"), un coinvolgimento emotivo, dall'altra l'assenza e la fragilità di una sceneggiatura finiscono per rendere ovvio e banale ciò che invece dovrebbe sorprendere e travolgere.
Direi quindi che il film è al livello dei precedenti, anche se non portando sostanziali novità rischia di essere ridondante, e assolve il suo compito di intrattenimento: le due ore passano in fretta e sicuramente non ci si annoia, ma non aspettatevi niente di più. La delusione, in tal caso, potrebbe essere cocente.
Una curiosità: nella scena girata nel traffico romano Cruise parla davvero in italiano; un motivo in più per ascoltare il film in lingua originale.
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Recensione a cura di fidelio.78 - aggiornata al 15/05/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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