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Dev'essere andata più o meno così: Moore, Williamson e Kang sono a casa di quest ultimo, e non sanno bene cosa fare. A un certo punto, dopo lo sbadiglio decisivo, qualcuno si mette a scaricare la filmografia di Gregory Peck. Con loro sommo stupore apprendono sul momento che un tale, Donner, ha girato un film nel '76 sull'anticristo. "Omen", appunto, col pargolo Damien che ne faceva di tutti i colori.
Uao, un film dell'orrore di tutto rispetto; perché non rovinarlo? I tre si trovano immediatamente d'accordo sul punto. Decidono di produrlo tutti insieme, e per stabilire chi debba esserne il responsabile, cioè il regista, utilizzano il vecchio ma sempre efficace trucco della pagliuzza più corta. La sorte decide che sarà Moore a girarlo, avendo del resto già partorito qualcosina.
Ma controlliamo la sua 'fedina penale': operatore per i telegiornali, qualche spot (tra cui quello della SEGA, chi vuole intendere intenda). Poi le cose grosse: nel 2001 gira "Behind enemy lines". Ah. Nel 2004 "Il volo della fenice". Uhm. Con due capolavori del genere, gli altri devono aver pensato che Moore fosse senza fallo la persona giusta per guidare le sorti dell'ennesimo remake tirato su in fretta e furia. Anche perché bisogna far presto: il calendario fa parte del marketing, e c'è quindi sfruttare l'occasione davvero ghiotta per lanciare il film al momento giusto. Purtroppo i tre han pensato di lanciarlo nel posto sbagliato, cioè nel cinema.
Ma per una curiosa coincidenza astrale questo è l'anno 2006; come resistere alla tentazione di far uscire il film proprio nel 6/6/06? Certe occasioni non vanno mica sprecate, anche perchè poi se si perde questa cosa meravigliosa bisogna aspettare 1000 anni, nel 3006.
Poi il pubblico si stanca e magari va a vedere il remake de "L'esorcista" (scommettiamo?), per tacere dei costi di produzione che andrebbero alle stelle.
Quindi i 3 decidono di commettere l'infamia del remake, con data di lancio bislacca e alquanto ridicola. In fin dei conti l'originale è un cult, e poi vuoi mettere la figata del 6/6/6. Su tale operazione si sospetta il dolo. Spetterà alla corte di cassazione sentenziare, non appena milioni di spettatori inferociti si costituiranno parte civile denunciando l'empia triade.
Ora, per carità, non si vorrebbe mai che qualcuno si pronunciasse in favore di un certo accanimento che l'estensore di tale articolo proverebbe nei confronti dei remake e dei registi furbetti che si beano dei successi altrui per farsi la piscina.
Si tratta semplicemente di tenere gli occhi aperti e cercare di capire cosa sta succedendo. Si parte dall'assunto che se si decide di girare un remake, solitamente lo si fa con due categorie di film: i cult poco conosciuti o comunque lontani dalla cinematografia occidentale e i più grandi successi di ogni tempo. Passi per la prima categoria, in fin dei conti molti spettatori hanno conosciuto e apprezzato il cinema orientale grazie al remake di "Ring".
Ottima cosa l'onda del successo di un film-traino che fa emergere un sottobosco di perle e capolavori tutti da conoscere e scoprire.
E' la seconda categoria ad essere inspiegabile, a non aver giustificazioni.
Quale sarebbe il senso di rigirare un film che ha già goduto di un ampissimo successo, che è già stato fruito e metabolizzato dal grande pubblico?
Anche qui alcuni distinguo: è parzialmente giustificabile un regista che, folgorato da ciò che ritiene un assoluto capolavoro, decide di farne un'originale versione, riscrivendolo da zero. Questione di personalità, si presume.
Ma ricopiare in carta carbone un film di successo, riciclando la sceneggiatura e cambiando solo i protagonisti? Clamoroso esempio lo "Psycho" di Van Sant, assolutamente identico all'originale. Non si capisce quale dovrebbe essere l'intento artistico di riproporre senza un minimo di differenza un'opera che già si è guadagnata uno spazio nel cinema d'autore... se non quello di far correre il proprio nome nei già rodati binari che qualcun altro di certo più competente ha edificato in precedenza. Nessun altro scopo se non carpire a man bassa un altrui successo, ponendo la propria firma sul sudore di chi ha partorito in precedenza la fonte di tale consenso.
"Omen" di Moore ne è il classico esempio; una fotocopia senza nulla di personale, se si escludono alcune sequenze inedite. Tenetele a mente, ci ritorneremo.
Lo stile registico è monoblocco, inespressivo, avaro di sequenze che colpiscono o rimangono in mente, anche se più che avaro si potrebbe dire totalmente esente. Quando qualcosa rimane, di solito lo fa per il suo essere ridicolo.
Nell'illustrare tali ridicole sequenze andrebbe forse detto che Moore si guarda "Final destination" almeno 8 volte al giorno, da circa 4 anni.
Dev'essere un film che ha parecchio influito sul suo modo di intendere gli incidenti, perché quando qualcuno in "Omen" ci rimette la pelle, Moore fa immancabilmente in modo che si rida fragorosamente. Ed ecco che la sindrome di "Final destination" implacabilmente colpisce, con tutta una nutrita serie di oggetti che si anima per colpo ferire.
Scene esemplari: le prime immagini di Roma, dove Moore fa conoscere la caput mundi per ciò che è: una città tenuta in ostaggio dal traffico, dove ciascuno bestemmia un po' come può. Ed ecco che la prima vittima perde la vita in seguito a una serie di azioni che vi faranno vomitare dalle risate tutti i pop corn sull'incolpevole vicino di poltrona. O ancora meglio, la morte del povero fotografo, colpito da una panchina volante o qualcosa del genere (l'attrezzista di scena quel giorno era in sciopero per protestare per l'alto tasso di cavolate presenti nel film, pare il 98%), decapitato come quando la testa di plastica di Big Jim volava a terra perché lo facevamo combattere col gatto. E qui, onore al merito, va detto che erano anni che non si vedeva più un manichino rotolare dai gradini in siffatta maniera. Nella celeberrima scena finale de "Il bacio dell'assassino" c'erano manichini più vivi.
Un qualunque regista di una qualunque nazione avrebbe immediatamente rigirato la scena, ma bisogna anche capire Moore: ogni mattina si svegliava e scopriva di essere ancora il regista, nonostante tutto.
Meglio non perdere troppo tempo nel rigirare le scene, qualcuno potrebbe iniziare a porsi questioni imbarazzanti.
A proposito di domande, se vi è capitato di parlare con esseri viventi tanto sfortunati dall'essersi imbattuti nel remake di "Omen", potreste aver appreso dalle vittime che ci sono ben due scene che fanno paura.
Le cosiddette scene "del bagno" - per distinguerle da quelle "da cesso" che costituiscono il resto del film.
Già, perché ci sono queste brevissime sequenze che in fin dei conti sono anche carine. Ma dureranno in totale nemmeno un minuto. Essendocene centodieci a comporre il film, sarebbe opportuno affermare che, invece di esserci due scene che son belle, ci sono ben centonove minuti in cui il film fa schifo. Questione di punti di vista.
Ed eccoci alle cosiddette scene bianche, in cui Moore svolge da studentello modello il suo bel compitino. Sarà perché ogni tanto leggeva sul copione che stava girando un film dell'orrore, mentre tutte le proiezioni diurne non facevano che piegare in due gli astanti, che tentavano bislaccamente di celare al regista il fatto che stessero ridendo come porci nel fango.
Quindi, con un po'di contegno, dopo aver saccheggiato da "Final destination", Moore saccheggia un pochetto anche da Kubrick.
Sono sequenze che contrastano fortemente col resto del film, essendo quest'ultimo virato totalmente su toni plumbei e oscuri. Queste brevi ma significative sequenze hanno invece il candore del latte.
Non c'è nulla da fare; il bianco spaventa molto più del nero, sarà bene che qualcuno prima o poi ne prenda atto. Lo sapeva bene Kubrick, che ha inquietato intere generazioni con la stanza bianca di "2001", o con i toni caldi di "Shining". Nel vedere queste sequenze torna alla memoria la scena della vasca dell'Overlook hotel misto alla stanza di "2001". Un momento, non vorremmo essere fraintesi; tornano alla memoria giusto per avere un riscontro negativo. Se uno deve far le cose male lo deve fare per bene. Non è che si può macchiare di aver lasciato alcune sequenze meritevoli. Perché si afferma ciò? Per il motivo che il supposto orrore che le suddette dovrebbero muovere in noi non è dato in realtà da ciò che vediamo, ma da ciò che sentiamo.
Non inquietano le immagini in se; semplicemente chi è saltato per aria lo ha fatto perché qualcuno ha inventato il dolby. La classica molla sotto la poltrona scatta infatti per l'improvviso rumore che sostituisce un eloquente silenzio, che ovviamente prelude all'assalto dei decibel. Troppo facile così. Gira e rigira è il solito Bubusettete.
Si provi a rivedere le sequenze nel bagno a volume assente, quando uscirà il dvd.
A parte queste scene, ce n'è una subito all'inizio in cui la madre perde di vista per un secondo Damien, nascosto per farle uno scherzo. Si suppone che migliaia di madri abbiano prima o poi subìto tale innocente giocherello, ma si spera che nessuna abbia reagito come la Stiles, che deve aver scambiato se sessa con la Ristori. Una performance drammatica degna della miglior "Medea", non c'è dubbio. E'un peccato che non esistano scene altrettanto drammatiche, come quando Damien non vuole mettere la maglia di lana e la Stiles decide di rendere il tutto più veritiero svenendo un po'.
Perchè in questo film la gente reagisce così; gli attori strabuzzano un po'gli occhi, si agitano un momento e poi tornano normali, come se niente fosse.
I dialoghi non li aiutano, nel senso che non ci sono. Quando ci sono non si va oltre i tre secondi di parlato per ciascuno. Eclatante è il dialogo del padre con il prete; quest'ultimo lo convince ad uccidere il figlio in due secondi, e l'altro non è che si faccia troppe domande. Qualcosa del genere: "Tuo figlio è l'anticristo". "Ah". "Già; devi ucciderlo". "Ok, lo farò nei ritagli di tempo".
Ma c'è da dire che gli attori sono degni dei dialoghi che esalano: Liev Schreiber ce la mette tutta per non somigliare a Sam Neill con la mascella posticcia, e Mia Farrow ce la mette tutta per non somigliare a Sissy Spacek. Tra l'altro la Farrow si rende colpevole, con la sua presenza, di citare continuamente "Rosemary's Baby". La cosa tende al fastidioso, perché ha il sapore di un incolore valore aggiunto al film che vorrebbe così nobilitare, mentre non fa altro che ricordarci quanto fosse bello il capolavoro di Polanski nobilitando quello, se mai ne avesse bisogno (cioè no).
Purtroppo la Farrow recita, restando seria, alcune delle battute più atroci del film stesso con la faccia spiritata al punto giusto, cioè all'eccesso. Per non parlare del cane nero che forse è l'unico attore che si salva. Peccato che però si esprima come il fantasma del remake di "The grudge": a rutti.
Non c'è niente da fare; anche quando il film tenderebbe per sua natura a spaventare arriva l'immancabile colpo di genio di Moore a ricordarci che, laddove "Scary movie" aveva fallito, "Omen" avrà successo.
Ma poi c'è Julia Stiles. Vuoi non parlarne? Essendone costretti, per dovere di cronaca, lo faremo. Ma taceremmo volentieri, non essendo adusi al lancio delle granate sulle ambulanze con le tre ruote a terra su quattro.
Se le altre due star ce la mettono tutta per non somigliare a due persone serie, la Stiles ce la mette davvero tutta per non somigliare a Reese Whiterspoon. Ebbene sì, colei famosa al mondo per aver recitato in quel film in cui si tenta di convincere milioni di scettici spettatori che non è scema solo per essere bionda. E la Stiles pare sottolineare il concetto: "una non è scema solo per essere bionda". Assioma del tutto condivisibile, se non esistesse "Omen" a smentirla.
La ragazza è davvero incapace, e fa di tutto per cercare di farci notare la cosa. Usa qualunque mezzo a sua disposizione, dal suo modo di affrontare gli eventi (dicendo "ti amo" al marito in loop), alle sue sopracciglia: in giù quando è depressa, in su quando stupita. La ragazza fa un baffo alla Duse, elargendo a manica larga autentiche comparsate da tragediata con famiglia a lutto. Per qualsiasi evento; che le sia finito il latte o scopra di avere come figlio l'anticristo per lei è lo stesso. In suo soccorso: le guanciotte autoarrossenti e la lacrima retrattile.
E'una fortuna che Moore si sia accorto del vero talento da commedia dell'arte della Stiles; così, per non farla sfigurare le affida addirittura la sequenza più ammazzarisate del film, cioè quando vola dalle scale.
Cosa succede? Semplice. A Moore hanno detto che già che c'era, oltre alla scena della vasca alla "Shining" avrebbe dovuto dotare il suo piccolo anticristo (tra l'altro il vero assente del film) di apposito triciclo. Vuoi non mettere un bambino che va in triciclo per la casa, che tanto c'è la governante del demonio che pulisce le tracce delle sgommate? Ecco, mentre Damien corre serafico per la casa urta la mamma accidentalmente appoggiata alla balaustra. Per una nota legge della fisica, la balaustra, non appena sfiorata dal corpo della Stiles, esplode in mille pezzi, lasciando la madre ciondolare per un certo lasso di tempo attaccata ai rimasugli del muro detonato, con ampio vuoto sottostante. La Stiles mormora qualcosa di incomprensibile (le risate tendono a coprire l'ottima Julia che si esprime con le sopracciglia automaticamente virate verso l'alto), mentre Damien la osserva perplesso.
Poi, il colpo di genio.
Moore decide di utilizzare effetti stupefacenti (insieme ad altri stupefacenti che ha utilizzato altrove) e, già che c'è, di citare "Il Dottor Stranamore". Avrà pensato che certe occasioni accadono una volta ogni morto di papa.
La Stiles si stacca dal suo appiglio e, mentre resta ferma, il pavimento le viene incontro.
E' un po'complicato da spiegare a parole, ma se avete visto la stracult sequenza della bomba cavalcata di "Stranamore" avete capito.
Passiamo dal volontario comico all'involontario ridicolo.
E poi si pretende di sostenere che "Omen" sia un film dell'orrore.
Il film scivola verso l'inesorabile fine di questo passo, restando nel genere del remake di tipo farsesco. E se il film è molto fedele all'originale, non lo è nella conclusione. Una delle cose migliori del film di Donner era appunto il finale, crudo e disperato, improvviso e solenne.
Moore no, deve fare di più, avendo avuto sin'ora l'impressione di non aver fatto abbastanza. Dopo aver convinto se stesso che il suo vero nome non sia John ma Micheal, ecco che il sopraffino regista ci mostra il piccolo Damien accanto al presidente degli Stati Uniti, mentre si celebra il funerale dei "genitori". Meraviglioso.
Non contento della pacchianata, Moore termina il film come non si dovrebbe mai fare, con un espediente che andrebbe punito con l'ergastolo.
La telecamera indugia sull'anonima capigliatura di Damien, ripreso di spalle mentre è tenuto per la mano dal presidente. Poi, infido, si volta verso di noi.
Ci fissa e abbozza un sorriso. Roba da anni ottanta, che non si fa più da una vita per ritrovato senso del pudore. Tra l'altro l'ultima sequenza ci minaccia anche del sequel, ovvero dell'altro remake dell'originale seguito di Damien.
Perché in realtà è molto più semplice vedere un film e farne un remake, piuttosto che prendere idee da moltissimi libri geniali che aspettano solo di essere trasposti. Centinaia di storie ancora inedite sepolte dalla noia dei produttori, giacenti nel limbo delle idee inespresse.
Potrebbe sorgere spontanea una domanda: come mai un fallimento del genere, se il film è fedelissimo all'originale che è un cult? Si potrebbe rispondere che alla fine un successo cinematografico è tale quando sussiste nella stessa pellicola un buon equilibrio dei seguenti fattori: buona regia, buona sceneggiatura, buoni attori. Mantenendo la medesima storia ma variando queste fondamentali caratteristiche, si decide della sorte di un film.
È istruttivo realizzare che la maggior parte dei remake (quasi tutti) non solo non siano all'altezza degli originali, ma siano invece dei flop clamorosi.
Purtroppo, prima che si prenda atto di ciò passeranno decenni, fin quando qualcuno senza più un minimo di pudore girerà dei remake di "Quarto potere", "Casablanca" e "2001".
Ultimo appunto: Richard Donner, regista dell'"Omen" originale, ha scelto il suo piccolo attore nei panni di Damien per l'irruenza del bambino stesso, che subito gli piazzò un calcio nei cosiddetti. Donner, colpito (è il caso di dirlo) da quell'esperienza, decise che il bambino andava scritturato immediatamente, seduta stante.
Qualche giornalista capzioso ha chiesto a Moore se avesse scelto il suo piccolo Damien per la violenza caratteriale del pargolo. "No, Seamus non mi ha mai colpito nei cosiddetti".
Bene, per il remake perfetto urge che la piccola dimenticanza sia colmata.
Si attendono numerosi i volontari per dare un calcio nei cosiddetti a John Moore, evidentemente in debito con gli spettatori di tutto il mondo.
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Recensione a cura di cash - aggiornata al 13/06/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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