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Stoccolma, capitale della Svezia, è una città molto particolare: dall'entrata - non del tutto indolore - nell'Unione Europea ha visto l'allentamento delle restrizioni riguardo le concessioni di licenze per bar e ristoranti (notizia particolarmente interessante solo se si fa riferimento a uno dei tre episodi del suddetto film) e, contemporaneamente, un numero notevole di residenti stranieri e di comunità etniche. In effetti se pensiamo alla Svezia, pensiamo a Bergman collocando il cinema dei paesi nordici tutt'al più alla metafisica del finlandese Kaurismaki, che già di suo aveva raccontato una società alla deriva fin dagli esordi, ben diversa dagli stereotipi di luoghi perfetti di cui è intessuta la tradizione nordica (ma in particolare la stessa Svezia).
"Racconti da Stoccolma" sembra quasi una risposta alle kitchen stories del cinema indipendente Usa (non a caso "Kitchen stories" è uno dei titoli più originali e suggestivi del recente cinema nordico), con un'occhio particolare a Inarritu e al suo cinema "a incastro" - soprattutto "Babel" - di cui Nillson riproduce una certa enfatizzazione tecnica votata in questo caso più alla metafora e alla didascalia che alla funzione reattiva e a tratti retriva della spettacolarizzazione formale del "messaggio". A dire il vero, anche "Babel" di Inarritu finisce per mascherare dietro le enormi potenzialità del messaggio un certo qualunquismo che finisce per diventare puro manierismo. Probabilmente il cinema più pericoloso e dannoso è quello di titoli come "Ai confini del paradiso", "Sotto le bombe", e via dicendo, tutte opere formalmente perfette ma che per ragioni misteriose "devono passare sempre per l'esaltazione dei media e vincere qualche premio": film di cui è tassativamente proibito parlar male (è antitetico alla massa ed è poco cool), che ti obbligano a parteggiare per una serie di motivazioni (sociali?) non certo pertinenti ad assolvere le intenzioni dei cineasti.
"Racconti da Stoccolma", con il suo aspetto multimediale, ha ben poco a che vedere con le ossessioni di Bergman (nonostante il gustoso cameo di Bibi Andersson, nei panni della madre di Carina) e il clima sinistro e plumbeo del cinema nordico (ma forse non conosciamo abbastanza il cinema nordico per non capire che è ottima fucina di commedie).
Lo spettatore può tirare un respiro di sollievo senza farsi soffocare nell'attesa di un finale che non arriva mai - per paradosso, succede proprio questo - senza addormentarsi nella poltrona dei cineplex o tenere gli occhi faticosamente aperti quasi come l'Alex di "Arancia Meccanica" durante il "trattamento Ludovico". Non c'è bisogno di simili espedienti per vederlo, eppure il film funziona solo a tratti.
E' il racconto di tre diverse storie, due vicende femminili, Leyla e Carina, ed una maschile, che se inizialmente possono catturare per la loro apparente veridicità alla lunga mostrano la corda, annientate da una superficialità di fondo che mal si adegua all'impegno profuso nelle tematiche trattate. Il fatto che si sia aggiudicato il premio Amnesty International al 57esimo festival di Berlino corrisponde alle stesse riserve espresse dal sottoscritto poco fa verso un certo "tipo di cinema". Un cinema, beninteso, che ad occhi chiuso è un caleidoscopio di cose già viste, di realtà già affrontate nel cinema, a cominciare dal faticoso e ambiguo racconto di Leyla, come a dire la risposta al femminile di "Un bacio appassionato" di Loach. Ma c'è di più: lo spettatore viene continuamente convinto che si parli di Islam, mentre la vicenda tratta di una famiglia filoasiatica di Cristiani. Alla stessa ambiguità ideologica corrisponde il personaggio di Leyla (un prototipo, quasi come la madre, dell'azzerata solidarietà femminile?), la quale non solo evita di comprendere l'inferno familiare che la coinvolge, ma è indirettamente responsabile della brutale fine della sorella (il branco - la stirpe - il padre - la madre - i fratelli sono universi a sè stante o devono privare la ragione della sua univoca esistenza?).
La reminescenza religiosa del primo episodio del film riesce a rendere lo spettatore tristemente pregiudiziale, almeno quanto gli esorcismi letterari di Houllenbecq, ma senza il suo uso passionale di paradossale scorrettezza. E l'unico momento plausibile della vicenda di Leyla è quello che riguarda l'apparato genealogico trascritto in una lavagna dall'assistente sociale/poliziotta. E' un retaggio paratelevisivo, ma funziona egregiamente.
Nel secondo episodio, il più "americano" dei tre (non è difficile credere di trovarsi davanti ad un inedito di "Desperate housewives" o "Sex in the city") Carina è una working woman che esercita la sua impotenza davanti alla folle gelosia, professionale e affettiva, del violento marito. Alla fine, convinta dalla sorella, decide di denunciarlo e di testimoniare, come candidata parlamentare alle elezioni europee, la sua personale esperienza attraverso i media, provocando scalpore ma al tempo stesso incentivando la corsa verso il proprio successo elettorale. Anche questo secondo personaggio femminile non riesce a cammuffare una certa falsità: è possibile che Carina possa sopportare a lungo le violenze dell'uomo giustificando ogni suo raptus senza reagire? E come si spiega la sua improvvisa battaglia per difendersi, come è giusto che sia, una volta per tutte da un consorte tanto efferato e mentalmente instabile? E se fosse una meschina manovra (mettere al servizio pubblico il proprio privato per manifestare null'altro che se stessa) per incentivare il suo alter ego professionale? Purtroppo, se Leyla è giustificata dalla sua sconcertante ingenuità, non si può certo dire che Carina, nonostante la terribile vicenda coniugale che vive, riesca a empatizzare con gli spettatori: tutt'altro.
Il terzo episodio, quello di Aram, proprietario di un ristorante in città di buon successo a conduzione familiare (ci lavorano anche il fratello e la sorella) che finisce per attirare il perverso interesse di un gruppo di teppisti della zona, e a provocare rivendicazioni e violenze a non finire. E' sicuramente l'episodio più persuasivo del film, ma resta appiattito da una certa incapacità di coinvolgere fino in fondo. Il rapporto vagamente omosessuale tra Aram e un forzuto uomo della security non viene privilegiato da nessun confronto erotico (i maliziosi e i voyeuristi possono restare a casa) e la vicenda ricorda vagamente quella del ben più efficace "My beautiful Laundrette" di Frears (1985).
"Racconti da Stoccolma", al di là del fuorviante titolo letterario (il titolo originale in inglese si può tradurre con "When darkness falls"), finisce per perdere la dipendenza dai soggetti del passato (al di là dell'aria vagamente lugubre delle rispettive vicende) ma rischia di catturare lo spettatore solo in virtù della globalizzazione tecnica del prodotto d'esportazione che si prefigge di essere. Non è abbastanza prefigurare una città (che fra l'altro è testimone involontaria di vicende che potrebbero appartenere a qualunque altra città europea) come simbolo/sintomo di un disagio inequivocabilmente universale. E almeno in un caso, il confronto tra la donna orientale e la "sposa occidentale" come espressione di un'uguaglianza di disagio e sopruso rischia di confondere ancora di più lo spettatore: in tutti e tre i casi, comunque, è inevitabile il confronto con un cinema che è efficace a rileggere la quotidianità ma è del tutto impreparato a coglierla direttamente. Diventa così un esercizio di stile di cui forse qualcuno terrà conto (qualcuno, forse). E davanti a un finale che cita spudoratamente Kieslowsky anche nel suo impeccabile format(o) metaforico, la sensazione di un'ottima occasione sprecata permane. Con un regista conciliante (e per questo discretamente rassegnato) verso le colpe di un mondo che, in fondo, è davvero uno solo.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 16/05/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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