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Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
"Reality" è un film invischiato con la realtà, un film terreno: ma inizia e finisce in aria. Si apre con un piano-sequenza aereo, e termina con un dolly smisurato, che da plongée sul protagonista Luciano nel cortile della Casa del Grande Fratello sale nel buio della notte, allontanandosi fino ad altezza vertiginosa, e isolando la sagoma della Casa illuminata a giorno fra le luci deboli e sempre più distanti della realtà.
L'ultima inquadratura di "Reality" cita, coniugandole fra loro, le inquadrature finali di due grandi film: "Solaris" di Tarkovskij (1971) e "C'era una volta in America", capolavoro di Sergio Leone (1984). La Casa del grande fratello come la dacia in cui il protagonista di "Solaris" ritrova il padre, isolata nell'immensità del magma pensante del pianeta Solaris?... Oppure, la fumeria d'oppio in cui, in "C'era una volta in America", si rifugia Noodles-De Niro, per sognarvi, forse, l'intera vicenda del film - e sorridere beato, nell'oblio catartico in cui sembra essergli concessa una felicità?
Con Robert De Niro, tra l'altro, è stata da qualcuno ravvisata una somiglianza dell'attore Aniello Arena, strepitoso protagonista di "Reality", che nella vita è detenuto nel carcere di Volterra, e con il quale Garrone prosegue nell'adesione alla lezione di Rossellini e Visconti di un cinema in cui anche gli attori principali possono venire "dalla strada". Il cinema di Garrone si è sempre collocato consapevolmente nel solco del neorealismo. Qui, Aniello Arena è affiancato da una serie di attori, tutti molto bravi, presi dal teatro napoletano.
Così come Noodles, dunque, alla fine di "C'era una volta in America", si sdraia e sorride dentro l'inganno di un sogno, anche Luciano, al termine di "Reality", sembra imprigionato felice entro un sogno dal quale non vorrebbe più uscire. Un sogno di luce artificiale, intorno al quale è buio fitto.
Il piano-sequenza iniziale, invece, rappresenta una discesa vorremmo dire negli inferi, se non fosse nient'altro che la nostra realtà. E' un piano sequenza strepitoso, che parte con una ripresa aerea della conurbazione alle pendici del Vesuvio, per spostarsi progressivamente verso il basso, verso un brulicante panorama umano fatto di palazzine proliferate fuori da ogni razionale piano edilizio, sino a isolare lentamente un elemento incongruo in quel contesto: una carrozza dai cavalli bianchi. Garrone la segue, nello stesso piano-sequenza, mentre percorre una strada asfaltata sino all'ingresso sontuoso di una villa.
Tanto incongrua è quella carrozza rispetto alla realtà che la circonda, quanto incongrua la successiva festa di nozze, in cui come in un girone dantesco una variegata umanità sguazza letteralmente entro una dimensione vistosamente artificiosa. Tutto appare irreale e al contempo iper-reale: clamorosamente sovresposto così come sovresposti sono i colori sgargianti e i suoni martellanti di una scenografia degna d'un postmoderno Satyricon. Saremmo indotti a rifiutare statuto di realtà a quanto rappresentato, se non sapessimo che è veramente una realtà dei nostri giorni.
Poi, uno stacco, oltre il quale tutto è povertà. Il contrasto è spiazzante.
Garrone descrive, con lente inquadrature avvolgenti (panoramiche a 360° che scivolano una dentro l'altra nonostante gli stacchi tra diverse inquadrature) volti e corpi cadenti, obesi, segnati dall'età: ciò che si è realmente, e che non si vorrebbe essere. Il silenzio è assordante, la fotografia immersa nell'oscurità. Interni bui, desolanti, miserrimi. La vertigine non potrebbe essere maggiore, e più accorante, dopo quella sorta di dipinto di Hieronymus Bosch qual'era la fantasmagorica festa di nozze. Che si è dissolta nel nulla da quel nulla che era; e ha lasciato, s'intuisce, negli animi un'eco intrisa di nostalgia. Sete di tornare a immergersi, il prima possibile, se fosse possibile, in quella realtà... Quale realtà?
Qual è la realtà?
E' ancora la vera realtà, o è divenuta realtà la finzione televisiva, la realtà dei reality?
La sequenza della festa di nozze compone insieme alla successiva una prima sezione di "Reality" che entra di filato nella storia del cinema: un segmento del film di grande pregevolezza stilistica e alta densità di senso.
A partire da un contesto così superbamente introdotto, si snoda il percorso del protagonista Luciano, su cui si concentrerà la lineare trama del film.
Un percorso che diventa, col progredire della vicenda, sempre meno uno spaccato sociale, e sempre di più uno specifico dramma umano, cui Garrone ci fa partecipare senza alcun entomologico distacco, e senza quasi alcuna ellissi se non verso il finale, quando sembra abbandonare anzitempo il suo personaggio, quasi avendo constatato ormai l'irreversibilità della sua condizione.
Sino ad allora Garrone ha descritto con pietas il progressivo scivolare di Luciano dalla paranoia ad un disturbo delirante quasi schizofrenico. Un delirio persecutorio in cui, per paradosso, non si sente vittima di un complotto, ma brama di esserne al centro. Che sia una nuova forma di disturbo realmente esistente? Che non sia solamente la fantasia di un'artista, ma suffragato da esperienze cliniche?
E' in ogni caso l'ennesimo personaggio di Garrone che prova piacere nell'essere sedotto, manipolato e soggiogato da altri o da un contesto: il che contribuisce a circoscrivere un aspetto importante della poetica dell'autore. L'atteggiamento mentale di Luciano verso il Grande Fratello, il modo in cui si fa da esso guastare la vita, è il medesimo del protagonista de "L'imbalsamatore" (2002) verso il tassidermista Peppino Profeta, o della anoressica protagonista di "Primo amore" (2004) verso l'inquietante orafo che ne plasma il corpo; o ancora dell'intero universo umano di "Gomorra" (2008), intrappolato nelle reti della camorra pur essendo in teoria possibile una scelta contraria: suggerita dal finale del film, e dalla stessa figura tutelare di Saviano.
Rispetto ai precedenti film, "Reality" si inquadra, contro le apparenze, come il più pessimista fra i film di Garrone, che sia ne "L'imbalsamatore", sia in "Primo amore" - come anche, più fiocamente, in "Gomorra" - una via di fuga e di salvezza l'aveva concessa. Cosa che in "Reality non accade.
Alla verace realtà dei quartieri popolari fa da controcampo la realtà finta, fittizia, artefatta, dei centri commerciali, degli outlet, degli acquapark: non-luoghi del presente con cui sono più accesi i contrasti con la veracità napoletana privilegiata dal regista romano. In questi non-luoghi la realtà è come plastificata: però brillante come una commedia. Una realtà vuota di significati autentici, di sapori genuini: però una realtà a colori, mentre quella di tutti i giorni può apparire grigia come una pellicola in bianco e nero.
Così la televisione ha deturpato il nostro senso di realtà. Perché tutto parte di lì: dalla televisione. Come ci ha ricordato al cinema qualche anno fa il notevole "Videocracy" (2009) di Erik Gandini, la proprietà forse più peculiare della televisione è distorcere la percezione del reale, inducendoci a percepire come veramente reale solo ciò che finisce nell'inquadratura di uno schermo televisivo. Discorso questo non nuovo, come sostiene chi non è entusiasta di "Reality": discorso che già sarebbe stato esaurientemente approfondito. Certo, ma non per questo il valore della pellicola di Garrone ci sembra sminuito. In realtà, ancora oggi affrontare questo discorso risulta indispensabile. Intanto perché non abbiamo mai sviluppato gli anticorpi adeguati. Tutt'altro. La realtà televisiva si impone sempre come iper-reale, al punto da attrarci verso di essa quasi magneticamente, sino a che qualcuno desidera inserirsi in essa per apparire e sentirsi più autentico, riconoscibile, oltre che più ricco.
Appare più reale ciò che aderisce ai miti e ai modelli forniti dallo schermo.
Ciò produce un tale stravolgimento dell'ordine naturale, che attende ancora di essere denunciato in tutta la sua portata. Garrone ci ha provato, con una parabola.
I reality show non sono a immagine e somiglianza della realtà: è da quando esiste la televisione che piuttosto è la realtà a cercare di assomigliare sempre più ai dettami proposti dai mass media. Da dove fuoriescono, del resto, se non da un metabolismo iperbolico ed escrementizio di segni privi ormai di significato, i palinsesti su cui si regge quella festa di nozze celebrata a colori sgargianti, trionfo del kitsch più pacchiano ed estremo, del più orrido cattivo gusto?
Lo stile di Garrone si regge su elementi quali sequenze composte di poche inquadrature sempre tendenti al piano-sequenza, macchina da presa in movimento che bracca fisicamente i personaggi, frequente uso del grandangolo. Una cifra stilistica affine ai registri del cinema contemporaneo (dai Dardenne a Greengrass, dal "dogma" di Von Trier a Audiard e ad Iñarritu), da cui risulta una vivida immersione nella realtà. Quasi a portare lo spettatore sulla scena, e far tendere ogni inquadratura ad una soggettiva.
Ma peculiarità dello sguardo di Garrone è di mantenere anche una prospettiva distanziante: prossima, ma aliena. Un po' come se non fosse mai uscito dalla memorabile soggettiva dell'avvoltoio allo zoo, ne "L'imbalsamatore". In questo senso, spesso Garrone si avvale di un uso espressivo della messa a fuoco. Senza arrivare all'estremo della scena di "Primo amore" in cui vedevamo i protagonisti dialogare a bordo di una barca con i volti completamente fuori fuoco, in "Reality" talvolta è a fuoco il primo piano, di profilo o di quinta del protagonista, mentre i volti di altri personaggi restano fortemente sfocati sullo sfondo dell'inquadratura. Il che sottolinea la deriva mentale di Luciano, per il quale si fa via via più esile il contatto con la realtà, mentre si avviluppa nelle spire della sua realtà virtuale.
Osservato con prossimità esasperata, ciò che è normale può apparire sgradevole. E spesso Garrone ha fatto ricorso, nei suoi film, a figure umane idonee a caricare la sensazione di sgradevolezza del reale. In "Reality" tuttavia si attenua, in parte, il gusto che Garrone condivide con Sorrentino per le deformazioni fisiche: si pensi ad un personaggio, affetto da un male alle corde vocali, usato già in "Gomorra", dove lascia maggiormente il segno.
Rispetto a "Gomorra", come in generale rispetto alle precedenti opere di Garrone, qui c'è una maggiore partecipazione emotiva che fa apparire meno rivoltante la realtà in cui siamo immersi. Appare, in "Reality", una tendenza dello stile di Garrone a farsi meno estremo, portarsi su un registro che aspira alla classicità. Ciò dipende probabilmente da una maggiore consapevolezza della propria espressività: Garrone sente di avere meno bisogno di ricorrere ad effetti per lasciare il segno. In un contesto innestato sulla commedia, ciò comporta però anche il sacrificio della potenza, della forza d'impatto con cui un film come "Gomorra" arrivava a sconvolgere. In questo senso "Reality" è più debole. Più classico, meno à la page.
Il regista, già premiato a Cannes 2008 con lo stesso Grand Prix della Giuria che ha ricevuto per "Reality", aveva in quell'occasione dichiarato di essere uscito dall'esperienza di "Gomorra" con la voglia di fare una commedia. "Reality" si richiama, pur senza frizzi e lazzi, alla più autentica matrice della commedia all'italiana, incentrata sulla caricatura grottesca che svela l'anima mostruosa dell'Italia moderna. Quella stessa mostruosità che Pasolini denunciava parlando di mutazione antropologica degli italiani, a causa di una globalizzazione ante litteram (da lui intravista profeticamente), che lo disgustava. Una mutazione che è degenerazione: e della quale il sogno di Luciano non è che il segno ultimo e orribile: raggiungere un nirvana, cioè scomparire come individuo, sotto i riflettori della televisione, entro uno stereotipo privo di autenticità. Nel finale, l'allontanarsi di Luciano dalla via crucis al Colosseo sembra metafora di un disconoscimento delle tradizioni, svuotate di senso, corrotte anch'esse dai riflettori della televisione: come da un reality all'altro, quella di Luciano è una fuga, dalla forza del passato verso il paese dei balocchi (c'è una citazione di Pinocchio, forse eccessiva: è quando Luciano crede che un grillo gli parli dal soffitto). Lo sguardo del regista, sino a quel punto partecipe, non può che allontanarsi, intimamente disgustato come quello di Pasolini (che, non trovando più autenticità alcuna nell'Italia, preferì cercare segnali di vita e di autenticità nei Paesi di quello che allora si definiva terzo mondo - prima del plumbeo apologo di "Salò").
"Se scruti a lungo nell'abisso, l'abisso scruterà dentro di te", recita un famoso aforisma di Nietzsche. Che Garrone, per non finire stritolato da Sodoma e Gomorra, abbia voluto prenderne le distanze, sin dal registro adottato per il suo nuovo film? Se è così, non ha voluto comunque privarsi dell'impronta più tipica del suo sguardo, l'aderenza quasi impudica alla superficie del reale. Ma ha rimarcato la scelta etico-estetica di prenderne le distanze: scivolando all'inizio dall'alto entro la realtà brulicante, per uscirne infine allontanandosene con quel vertiginoso dolly in odore di "Solaris".
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Recensione a cura di Stefano Santoli - aggiornata al 18/10/2012 12.41.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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