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"In me non albergava alcun sentimento chiaro e definito. Provavo solo, a fasi alterne, una smodata avidità e un totale disgusto. Avevo tutte le caratteristiche di un essere umano -carne, ossa, sangue, pelle, capelli- ma la mia spersonalizzazione era tanto intensa, era penetrata così in profondo, che non esisteva più in me la normale capacità di provare compassione. Questa era stata sradicata, cancellata del tutto. Io stavo semplicemente imitando la realtà; avevo una vaga somiglianza con un essere umano; solo un'area limitata del mio cervello funzionava ancora. Qualcosa di orribile stava accadendo, ma non riuscivo a capirne il motivo; non riuscivo neppure a capire di che cosa effettivamente si trattasse. L'unica cosa che avesse il potere di calmarmi era il tintinnio dei cubetti di ghiaccio dentro un bicchiere di whisky".
Bret Easton Ellis, da "American Psycho"
Citazione pertinente, quella del romanzo epocale di Ellis, che prima di rincoglionirsi con sparate sensazionalistiche e misogine fu realmente capace di descrivere il fenomeno degli yuppie con quella meraviglia di romanzo sconvolgente che è "American Psycho": violentissimo, allucinante, dettagliato fino all'estremo e provocatorio, Ellis colse in anticipo il senso profondo che albergava nel mondo dell'alta finanza e negli uomini con completi eleganti e attici lussuosi, e senza filtro alcuno lo sbatté in faccia ai lettori con una storia difficilmente comprensibile, con un protagonista forse serial killer, forse no, che vertiginosamente descrive i suoi vestiti, i nomi dei ristoranti alla moda, il modo in cui fa sesso con delle donne, il modo in cui le uccide o tortura. Tutto come se fosse stato normale, una vita come tante lontana dalle leggi degli uomini.
Oggi è arrivato Martin Scorsese a ricordarci che quegli uomini lontani dalle leggi non erano solo i Patrick Bateman ricalcati su facce esistenti, ma esistono davvero. Questo è "The Wolf of Wall Street".
Viene da chiedersi chi sia il lupo: Jordan Belfort, senza dubbio, è naturale; il protagonista giovane, bello, rampante, vincente e totalmente squilibrato, a suo agio nel mondo dell'alta finanza. Il lupo di Wall Street, nome che gli viene affibbiato per screditarlo da una giornalista, ma che questi sfrutta come l'ennesimo passo in avanti nel mondo del successo, un mondo di potere economico, il SUO mondo. Ma qui di lupi ce ne sono due, c'è poco da fare. Il vecchio Martin Scorsese, alla veneranda età di 71 anni, dopo aver giochicchiato in maniera riuscita con un thriller infarcito di citazioni hitchcockiane ("Shutter Island") e una fiaba visivamente entusiasmante ("Hugo Cabret", uno dei migliori usi mai visti al cinema del 3D), ritorna nel "suo" elemento naturale: la biografia criminale. Perché Jordan Belfort non è solo una persona moralmente discutibile, per usare un eufemismo, ma un vero e proprio squalo e approfittatore, totalmente disinteressato al prossimo e sprezzante nei confronti della gente comune (considerati poveri o poveracci) oltre che, com'è ovvio, delle leggi statunitensi. Il vecchio lupo Scorsese ritorna a collaborare per la quinta volta con Leonardo Di Caprio e questi lo ricambia sfoderando una prestazione attoriale straordinaria, la sua migliore ad oggi con ogni probabilità.
Scorsese torna nel suo mondo, si diceva, quello della biografia criminale come i classici "Quei bravi ragazzi" o "Casinò". Non sono titoli citati a caso ma legati in modo strettissimo alla sua ultima fatica, difatti entrambi quei film erano simili nella struttura, nelle situazioni, a volte purtroppo sfiorando un senso di già visto - parlo di "Casinò", bellissimo film che purtroppo è uscito subito dopo "Quei bravi ragazzi" con cui condivide molte situazioni simili e due attori principali. Ma che ritmo, che potenza, che regia! E con "The Wolf of Wall Street" Scorsese conferma di essere rimasto l'unico regista americano della vecchia New Hollywood a mantenersi su una costante linea qualitativa e capace di tirare fuori dal cilindro film epocali: De Palma ha abdicato da tempo ("Redacted" escluso), Friedkin è un cane sciolto con risultati alterni molto discutibili, Spielberg si è confezionato la sua nicchia di fiabe melense e agiografie retoriche per accalappiare quanti più Academy Awards, Coppola gira quando ne ha voglia pellicole personali e molto complesse da recepire per la critica (il pubblico poi non ne parliamo), Carpenter ha fatto il suo tempo. Scorsese non solo resiste ma con una certa prepotenza ci fa ricordare la sua esistenza girando con velocità e costanza, guadagnandosi plausi di critica e pubblico, realizzando grandi fallimenti sempre di successo ("The aviator", il suo film più ambizioso e meno riuscito) o grandi successi ("The departed", ma anche "Gangs of New York" o lo stesso "Shutter Island"), girando documentari, producendo serie televisive. E proprio da "Boardwalk Empire", serie tv sul mondo dei gangster ambientata durante l'epoca del proibizionismo e prodotta da Scorsese, proviene lo sceneggiatore di "Wolf of Wall Street",Terence Winter, precedentemente conosciuto come uno degli sceneggiatori di punta dei Sopranos. Winter ha dalla sua la forza di dialoghi serratissimi, pieni di esagerazioni verbali e scurrilità che pur sfiorando l'assurdo restano saldamente ancorate alla realtà di Jordan Belfort. Scorsese quindi dà il tocco finale: con il montaggio frenetico e abituale della fidatissima Thelma Schoonmaker (con cui lavora da quasi 40 anni), scene costruite con una bravura magistrale e un ritmo potente, le tre ore di durata sembrano volare e il film si piazza senza ombra di dubbio tra i più notevoli e coraggiosi nella carriera dell'autore italoamericano.
Coraggioso, ma perché? Obiezione giusta se elenchiamo i motivi fin'ora messi in campo: biografia di un criminale o personaggio sopra le righe realmente esistito; ritmo serrato e storia che racconta l'ascesa e la caduta del protagonista. Tutto questo lo abbiamo già visto in "Toro Scatenato", "Quei Bravi ragazzi" e "Casinò". Aggiungiamoci la voce fuori campo di Di Caprio, la rottura della quarta parete con Jordan che ci parla con confidenza, l'amicizia virile tra il protagonista (che potrebbe essere un De Niro l'avesse girato venti anni fa) e il grassottello Donnie/Jonah Hill (che sarebbe stato Joe Pesci viste le continue manie, gli isterismi sotterranei, il sadismo a volte nevrotico e una certa omosessualità latente, e Hill è bravissimo) o la moglie Naomi/Margot Robbie (Sharon Stone/Lorraine Bracco?)... inoltre alcuni comportamenti, tra cui le "feste" per chi si è fatto la prigione senza spifferare nulla, ricordano con forza un tipico modo di fare dei gangster che Scorsese ha mostrato con dovizia di particolari. Non c'è nulla di nuovo in tutto ciò, basta spulciare qualche titolo scorsesiano famoso per rendersene conto. Eppure "The Wolf of Wall Street" è coraggioso, sì. E' una orgia di esagerazioni lunga tre ore, 180 minuti di spreco, sesso, volgarità e scorrettezza fino al delirio, letteralmente. Scorsese ci mostra nuovamente il colore dei soldi, anzi il loro rumore: ed è un rumore di cazzi, fiche e chi più ne ha più ne metta, come fa notare Jordan agli inizi del film tra grettezza e materialismo sfrenato. Il suo svezzamento da parte di un breve ma intenso McConaughey è di quelli che si ricordano: sulla carta sembrerebbe improponibile che un broker dell'alta finanza si comporti in modo cosi esagerato, ai limiti dello psicotico, ma è cosi che accade. E quando Jordan, incredulo ma già eccitato, si ritrova entusiasta a far parte del mondo economico in cui l'importante è solo fare soldi, non del mondo "normale" che disprezza con astio viscerale, ci rendiamo conto che tutto ciò che vediamo è implacabilmente logico via via che si fa più allucinante e fuori dagli schemi. Che la storia sia vera sembra un dettaglio secondario in mezzo a carrellate su orge, pompini o dialoghi deliranti, eppure è proprio questo che sconvolge a fine visione. Per comprendere meglio fino a che punto si siano spinti Winter e Scorsese basti accennare alla parola "fuck", che tra le svariate e creative indecenze risulta la parola principe con il record di presenza di ben 567 sue enunciazioni o variazioni. In poche parole una epopea oscena, una cavalcata lunga 180 minuti di follia e una certa oscurità.
Qualche critico ha tirato fuori l'annosa questione che si ripropone ormai con frequenza imbarazzante con Scorsese, in verità un po' fuori luogo: non si capisce mai bene se i suoi ritratti di criminali siano di condanna o una sorta di esaltazione verso il loro stile di vita e di condotta. Ora, non per fare l'avvocato del diavolo ma Scorsese sa benissimo cosa fa, come quando fa dialogare uomini in vestiti firmati e cravatte eleganti ad un tavolo di un ufficio finanziario sul modo in cui poter lanciare dei nani su un bersaglio, e questi vengono trattati come qualcosa di subumano o animale. O le frequenti scene con uno sbalorditivo Di Caprio che arroventa il suo pubblico di fedeli al microfono, come un leader religioso delle tv americane: carismatico, convincente, sa toccare i loro tasti giusti (avidità, arrivismo, sesso, sempre sesso) e li porta sul suo piano, pronti a cannibalizzare qualunque cosa pur di guadagnare e sprecare il proprio denaro in attività a volte di poco o nessun conto. Perché questo accade spesso e volentieri durante il film: Jordan sembra a tratti non sapere proprio cosa farsene di tutti quei soldi, ma ovviamente a regalarli non ci pensa neanche. Per mostrare la propria ricchezza ad un agente del FBI comincia a buttarne via da un rotolo trovato per caso in tasca, e li fa volare nel vento con una noncuranza imbarazzante. I giochi in ufficio con nani, puttane o suonatori mezzi nudi sono un altro esempio. Lo sfarzo per lo sfarzo, il denaro per il denaro. Jeremy/Di Caprio non ha scrupoli, eppure intravediamo la patina d'umanità che lo circonda e che fa capolino anche dai suoi tormenti; perché in questo è bravo Scorsese: nel non demonizzare i personaggi che sa essere uomini, raccontandone atti anche disumani a volte quasi calandosi nei loro panni, e allora il film assume caratteri di commedia, si ride di gusto eppure si rabbrividisce pensando a cosa sono questi uomini che osserviamo. L'assurdità del mondo che dipinge è totalmente squilibrata, i personaggi non hanno bisogno di redenzioni o di un redentore che dall'alto li condanni (o dietro la cabina di regia) per far comprendere al pubblico che in realtà stanno osservando il comportamento, ritratto in modo semidocumentaristico, di persone che hanno decretato anche la nostra rovina e che tirano le fila economiche mondiali. Nessun moralismo facile, nessuna morale apparente, Scorsese illumina il buio che non abbiamo saputo o voluto immaginare e tanto basta.
Essendo un regista da sempre interessato alla violenza e altresì spesso molto violento, non sorprenderà allora sapere che in "The Wolf of Wall Street" sangue e pestaggi non manchino pure se in misura di gran lunga minore. Sorprende un altro fattore, fondamentale per comprendere come questo film si discosti con una certa importanza dagli altri già elencati del regista, ed è la sua volgarità scurrile oltre che visiva: nudi integrali, scene di sesso esplicite, masturbazioni, cinismo alle stelle. Ogni donna nuda ("con la fica depilata") assomiglia alle altre, fino alle carrellate sulle miriadi di corpi che si affannano nella calca orgiastica per trovare lui, Jeremy, il lupo e messia di uno stile di vita che attrae irresistibilmente - magari anche il pubblico in sala, chissà - e che si circonda dei suoi discepoli affamati di denaro. Pur non abbandonando mai i toni da commedia nera, a volte la pellicola sembra indugiare sulla disperazione di uomini profondamente dipendenti, che di umano hanno sempre meno.
Sembra strana la mancanza di qualsivoglia messaggio cristiano da parte di Scorsese, che da sempre ci tiene ad inserirli in molti suoi lavori: temi quali la redenzione e la colpa sono all'ordine del giorno, ma in "Wolf of Wall Street" sembrano non trovare spazio, non tra i bagordi infiniti e fatui dei personaggi, a parte una scena durante la tempesta quando, terrorizzato, Donnie comincia a farfugliare di aver paura di morire perché potrebbe andare all'inferno per ciò che ha fatto. Eppure sotterraneamente ci sono dei rimandi, cristologici forse, se osserviamo il modo in cui Jeremy si circonda dei suoi discepoli insegnandogli a diffondere il suo messaggio - messaggio vuoto e fatto di retorica e menzogne, l'importante è la ricevuta di ritorno con denaro ovviamente. Egli stesso quando prende la parola per motivare i suoi assume qualcosa di simile al carisma messianico dai toni convincenti e magnetici, mentre chi lo ascolta reagisce come in preda ad una trance mistica, ipnotizzati da tante belle parole, e Jeremy ricorda puntualmente come erano prima e come sono diventati poi grazie alle loro stesse forze (una narcisistica umiltà che in realtà li lega con ancora più forza a lui, ricorda un po' la performance di Tom Cruise in "Magnolia").
Non manca la droga, anzi la dipendenza è il vero filo conduttore della vicenda: dipendenza verso le droghe, il sesso, ma prima di tutto il denaro. Scorsese, ex drogato e cocainomane negli anni '70, ritrae gli effetti allucinatori delle sostanze in modo particolarmente realistico. Anche in questo caso, le scene già cult sono sin troppe: basti citare quella in cui Jeremy e Donnie prendono delle pasticche scadute e credendo non facciano effetto ne inghiottiscono entrambi un paio, per ritrovarsi drogati e sbavanti intrecciati ai fili del telefono mentre cercano di parlare mugolando e strisciando, dopo che la droga ha avuto un effetto ritardante. Ma si farebbe realmente torto a Scorsese citando le tantissime scene magistrali con cui questo eccezionale autore, già impegnato nei prossimi progetti da girare, continua la sua lunga storia d'amore col cinema, sposalizio senza tradimenti e che sembra ora più che mai solido e florido. Una sola cosa provoca rimpianto: che di Scorsese ce ne sia uno solo. Ma forse è meglio cosi. Copie ne esistono sin troppe e nessuno è riuscito ad eguagliarlo. E come i grandi maestri Scorsese riesce ad essere un passo avanti senza imitare nessuno, se non se stesso.
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Recensione a cura di elio91 - aggiornata al 28/01/2014 16.18.00
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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