Recensione una pura formalita' regia di Giuseppe Tornatore Italia, Francia 1994
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Recensione una pura formalita' (1994)

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locandina del film UNA PURA FORMALITA'

Immagine tratta dal film UNA PURA FORMALITA'

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Immagine tratta dal film UNA PURA FORMALITA'
 

Un colpo di pistola e una frenetica corsa notturna fra boschi e strade di campagna sotto la pioggia battente. Un uomo (Gérard Depardieu), privo di documenti e in stato confusionale, viene fermato dalla polizia e condotto in uno sperduto e scalcinato commissariato, sito da qualche parte fra le montagne in una zona di confine (fra Italia e Francia?).
Attendendo l'arrivo del commissario, l'uomo in stato di fermo, reputando che i suoi diritti civili siano stati violati, dà segni di nervosismo e di un temperamento aggressivo che sfocia in una lotta con le guardie.
All'arrivo del commissario (Roman Polanski), l'uomo pretende il rispetto dei propri diritti consistenti nella concessione di fare una telefonata e nella dichiarazione delle ragioni che giustifichino lo stato di fermo. Ma ad aggravare la sua posizione contribuisce il fatto che egli, a giudizio del commissario, abbia dichiarato false generalità. L'uomo infatti si presenta come Onoff, un celebre scrittore, che sfortunatamente è anche l'autore preferito dal commissario, al punto che quest'ultimo conosce a memoria molti passi dei suoi romanzi.
Seguirà un lungo ed estenuante interrogatorio che finirà col chiarire tutta la vicenda così come le luci del giorno dipaneranno le ultime ombre di quella notte apparentemente interminabile.

"Una Pura Formalità" è la quarta pellicola realizzata da Giuseppe Tornatore (se si esclude "Il Cane Blu", un episodio del film "La Domenica Specialmente"). Il film fu presentato al Festival di Cannes, ma fu accolto con freddezza tanto dalla critica quanto dal pubblico.
"Giallo senza moventi, dramma senza pathos, thriller senza suspense, il film nel suo finale ultraterreno finisce per essere la classica montagna che produce il prevedibile topolino, storia di un giudizio talmente definitivo da lasciare indifferenti". Così viene definito in un noto Dizionario del Cinema. Ma tale affermazione non è universalmente condivisibile e a parere di chi scrive "Una Pura Formalità" può essere annoverato fra i capolavori.
Una storia solida, diretta con mano sicura ed esperta; dialoghi lunghi, complessi, intelligenti e finemente letterari; interpreti impareggiabili e perfettamente credibili; un'ambientazione curata fino ai minimi dettagli grazie all'ottimo lavoro di Andrea Crisanti (scenografo) e di Vincenzo De Camillis (arredatore) e valorizzata dalla fotografia di Blasco Giurato. È un film senza nessuna sbavatura, assolutamente perfetto.
Inutile dilungarsi troppo sulla storia. Anche se essa è ormai largamente conosciuta, si suggerisce a quanti siano interessati di vedere prima il film, e quindi leggere quanto segue, in quanto è inevitabile rendere noti alcuni dei suoi principali colpi di scena.

Giuseppe Tornatore oltre che regista è autore del soggetto e della sceneggiatura e coautore dei dialoghi insieme con lo scrittore francese Pascal Quignard.
La regia è energica ed asciutta, perfetta per un dramma che ha la struttura e le cadenze di una pièce teatrale. Tornatore gioca molto con le ombre come simbolo del mistero da dipanare e con le luci come simbolo di chiarezza e verità. Molto efficace, quindi, la simbologia del blackout durante il quale Depardieu tenta una fuga, che fallisce miseramente perché, mentre si nasconde fra i rami di un albero, la sua ombra viene proiettata al suolo dalla luce naturale di un fulmine.
Nella medesima sequenza sono affascinanti anche le luci delle torce elettriche degli agenti, che stanno seguendo le impronte del fuggitivo lasciate in quel mare di fango prodotto da quel diluvio incessante che accompagna l'intero film. Esse emergono dietro la linea dell'orizzonte. I loro fasci luminosi s'incrociano e si muovono freneticamente sul terreno, quasi come se s'inseguissero a vicenda, attraversano la pioggia battente e lasciano stagliare dietro di loro le sagome nere degli agenti di custodia, protetti da mantelle impermeabili con cappuccio.
Una regia che è anche onesta nei confronti dello spettatore. L'immagine iniziale della canna della pistola che ruota di circa centottanta gradi, facendo sì che la cinepresa guardi direttamente nella bocca da fuoco, presenta lo svolgimento dei fatti in modo chiaro ed elegante. Essa è inoltre un eccellente riferimento al film "Io Ti Salverò" del grande maestro Hitchcock, in cui si assiste ad una sequenza girata nello stesso identico modo.
Tornatore ci offre anche varie riprese geniali, benché da molta critica siano state bollate come azzardate e pretenziose. Le due più significative sono il volto di Sergio Rubini, inquadrato attraverso i tasti della macchina da scrivere con cui sta redigendo un verbale d'interrogatorio, che nessuno leggerà mai, e quella che mostra Depardieu nell'atto di mangiare un lembo di stoffa "incriminante", ripreso attraverso l'acqua della tazza del cesso. Quest'ultima inquadratura, fatta evidentemente dal basso, è la diretta antagonista delle precedenti, che ci mostrano l'attore all'interno del gabinetto mentre si affanna nel tentativo di sbarazzarsi del sopraccitato pezzo di stoffa della propria camicia.
Inevitabile citare anche il non breve piano sequenza in cui la macchina da presa, dopo avere inquadrato a turno il volto di Depardieu, di Rubini e di Cimarosa, riprende i tre uomini seduti intorno al fuoco mentre Onoff comincia ad intonare quel motivo, che sembra ossessionarlo e che ci accompagna fin dall'inizio del film. La macchina da presa inquadra i tre uomini, si alza, come se stesse seguendo il motivo cantato da Onoff, e si sposta all'interno della stanza verso gli schedari disordinati, scavalca un muro, che chiude solo parzialmente un arco, e inquadra dall'alto, scendendo lentamente, il commissario che, udendo la melodia, prima alza la testa e poi ritorna ad esaminare le prove raccolte fra cui l'arma del delitto.
Dunque una regia di classe, quella di Tornatore, che ci dà anche una lunga soggettiva iniziale ed una serie di primi piani dei protagonisti esaltando la loro capacità espressiva e permettendoci di cogliere anche i più minimi mutamenti d'espressione, così importanti, frequenti e significativi.

Passando all'analisi dei dialoghi, bisogna ricordare che il film è stato scritto e recitato in lingua francese. Da qui la necessità della partecipazione di Pascal Quignard, che tuttavia non si esaurisce nell'aiutare Tornatore nel più corretto uso di una lingua straniera. La partecipazione di Quignard è importantissima proprio perché nella sua qualità di scrittore mette a disposizione la propria esperienza per rendere perfettamente credibili i lunghi estratti letterari dei romanzi di Onoff, tutti inventati di sana pianta per il film, citati tanto dal commissario, quanto dal protagonista.
Un film anche letterario, che offre inizialmente atmosfere degne di Kafka e poi manifesta risvolti psicologici e metafisici di matrice pirandelliana. Contrariamente a quanto affermato dal Mereghetti nel sopraccitato giudizio, ci troviamo di fronte ad un dramma ricco di pathos, intrigante, introspettivo ed incalzante. I suoi contenuti sono metaforici oltre che letterari.
Rainer Rilke ha scritto che è importante ricordare, ma è ancor più importante dimenticare. Questa frase avrebbe potuto essere una citazione iniziale di "Una Pura Formalità". La canzone che ossessiona Onoff, da lui stesso scritta (e scritta per il film da Tornatore e musicata da Ennio Morricone), ha il titolo Ricordare. Il suo testo integrale ci viene fatto ascoltare unicamente alla fine del film, ma alcune sue frasi vengono cantate da Onoff durante il sopraccitato piano sequenza.
Il ricordo è una delle tematiche centrali di tutta la pellicola, ma, contrariamente a quanto accade generalmente, non ha una valenza positiva. Esso è foriero di dolore e di sofferenza perché, proprio come spiega il commissario, citando un libro di Onoff, per non morire di angoscia o di vergogna gli uomini sono eternamente condannati a dimenticare le cose sgradevoli della loro vita, e più sono sgradevoli, prima s'apprestano a dimenticarle.

"Una Pura Formalità" è girato quasi interamente all'interno del fatiscente commissariato di polizia. Fra telefoni senza linea lasciati per terra, penne che non scrivono e candele che sostituiscono le lampade fuori uso a causa del blackout, spicca un arredamento scarno e disordinato, con acqua che cola attraverso il soffitto e che viene raccolta in recipienti disseminati un po' dappertutto. Un armadio, che sembra essere il vaso di Pandora, in alcuni momenti si apre da solo mostrandoci il proprio contenuto: una trappola per topi, delle bottiglie di vino e i fogli utilizzati per il verbale d'interrogatorio. Uno ad uno, Sergio Rubini li prende, li utilizza e li ripone nuovamente con precisione certosina, richiudendo le ante dell'armadio. Un ambiente claustrofobico e sinistro, perfetto come teatro per questo dramma umano.
Veniamo ora all'acqua. La pioggia comincia subito dopo lo sparo iniziale e termina soltanto quando Onoff lascerà finalmente la stazione di transito la mattina seguente. Essa trasforma la terra in fango, inzuppa i vestiti, filtra attraverso il tetto e gocciola qua e là per tutto il commissariato, ma nel solo momento in cui lo scrittore ha bisogno d'acqua, questa viene a mancare. Egli cerca di sbarazzarsi di quel famoso lembo della sua camicia, gettandolo nel cesso, ma quando va a tirare la catena, lo sciacquone non funziona. Immediatamente dopo lo scrittore cerca di lavarsi le mani, ma dai rubinetti esce un fiotto sottilissimo che si estingue rapidamente. L'uomo dovrà mettere le mani fuori da una finestrella e sarà la pioggia, che scivolando impietosa fra le sue dita, laverà via il sapone. Essa (come ho scritto anche nella recensione a Fantasma d'Amore) è spesso metafora della transizione fra il mondo dei vivi e quello dei morti. Ed essa invade letteralmente questa stazione di polizia che si trova appunto sul confine fra i due mondi, una sorta di area di transito, una meta burocratica così come lascia intendere con ironia il titolo del film.

Molti altri sono i simbolismi introdotti dal regista, a partire dal nome del grande scrittore Onoff (on-off?), al fantomatico appuntamento che egli sostiene d'avere la mattina seguente con il Ministro della Cultura, a quella trappola per topi, che scatta senza catturare nessun ratto.
Sono importantissime poi le fotografie scattate da Onoff durante tutto il corso della sua vita e da lui cercate affannosamente frugando ogni angolo del Casale del Corona, che egli abita e che è teatro del presunto delitto che è scaturigine di tutta l'indagine. Il commissario, facendo perquisire il casale ne recupera un sacco pieno che svuoterà sulla propria scrivania davanti ad uno sbigottito Depardieu. Queste fotografie sono i ricordi perduti, nascosti nei recessi della memoria e poi ritrovati. Immagini nitide e quasi tutte in bianco e nero, esse sono la chiave della storia di un uomo. Come i tasselli di un puzzle, vengono a raccontarci la personalità del protagonista con quella dolce amarezza tipica del ricordo. Frammenti di tutte quelle vite che si sono intersecate con quella di Onoff, lasciando in lui la traccia del loro passaggio. Metafora del ricordo, dunque, ma anche un'altra metafora della transizione fra il modo dei vivi e quello dei morti, in ossequio a quel principio secondo cui si dice che al momento della morte un uomo vede trascorrere davanti ai propri occhi tutta la sua vita.
Quelle fotografie, poi, sono anche l'introduzione nel film di un elemento autobiografico dell'autore Giuseppe Tornatore. Egli infatti disse che da ragazzo aveva la passione di fotografare, anche a loro insaputa, persone sconosciute o conosciute appena superficialmente.
Fra tutte le fotografie di quei volti, di quegli ammiccamenti e di quei sorrisi, spicca un intenso primo piano di un barbone. L'uomo che è stato maestro e mentore del grande scrittore. L'uomo che ha inventato per lui lo pseudonimo di Onoff. L'uomo che gli ha regalato, come un puzzle da ricostruire secondo le regole della scomposizione matematica, uno dei suoi più grandi romanzi: Il Palazzo delle Nove Frontiere. Quest'opera gettò nella disperazione lo scrittore, che l'aveva fatta pubblicare sotto la propria firma, macchiandosi di un plagio di cui lui solo era a conoscenza. Anche questo senso di colpa è una metafora di quel tributo che qualsiasi artista deve aver l'umiltà di pagare ammettendo che tutto ciò che egli riesce a creare, in realtà è soltanto la sua personale rielaborazione di qualcosa che esiste già.
La scrittura è rielaborazione della realtà, ma è anche fuga dalla realtà. "Sono condannato a scrivere", dice Onoff, "perché quando scrivo è come se bevessi!".

"Una Pura Formalità" è un viaggio alla riscoperta di se stessi, di quello che è stata la propria vita. Onoff in principio non viene riconosciuto dal commissario perché si è tagliato tanto i capelli quanto la barba: il tentativo di vedere nuovamente il proprio viso per riscoprire la propria identità senza indossare più nessuna maschera, sia essa fisica o sociale, sia essa uno pseudonimo o una biografia (come quella dichiarata da Onoff) completamente falsa. È come mettersi nudi davanti ad uno specchio, senza fronzoli né orpelli, senza più difese. Guardarsi, a volte scoprirsi, per quello che siamo.
Dispiace che un film così puro e che presenta così tanti livelli di lettura sia stato accolto con freddezza. Oggi, a causa dei frequenti passaggi televisivi si potrebbe pensare ad una sorta di riabilitazione di questa pellicola, ma resta comunque deludente che, almeno in Italia, non si sia gridato al capolavoro fin da subito. Purtroppo, troppo frequentemente, l'Italia si rivela una matrigna ingrata nei confronti dei suoi più grandi artisti, che spesso ritornano in patria e sono ben accolti soltanto dopo aver ottenuto un riconoscimento internazionale.
"Una Pura Formalità" è un film eccellente, uno dei picchi fra tutte le opere di Tornatore, che si è dimostrato un autore capace di andare al di là di tutti quegli schemi rigidi e stereotipati che purtroppo sembrano essere quelli più amati dai nostri critici e anche dal nostro pubblico.
Una particolare menzione deve essere tributata all'eccellente doppiaggio di Corrado Pani e di Leo Gullotta che danno rispettivamente voce a Depardieu e a Polanski.

Per concludere un'ultima considerazione a sintesi di quanto già detto sul ricordo e sulla necessità di dimenticare. Il lavoro dell'artista è fondato sulla combinazione di questi due elementi. In un primo tempo egli deve ricordare le proprie esperienze, ma poi ha la necessità di dimenticarle per poter essere libero di creare la sua opera. Riuscendo a dimenticare, l'artista torna ad essere puro, pronto ad incontrarsi con l'arte (forse il fantomatico incontro con il Ministro per la Cultura?) e a divenire il tramite fra essa e l'opera creata. Tuttavia l'atto di dimenticare comporta una perdita di se stessi, della propria vita, fatta di gioie e di dolori. Esso è un sacrificio, il tributo da pagare all'arte.
Metafora dell'arte creativa; metafora della vita.
Tutto ciò viene espresso chiaramente nella canzone Ricordare che essendo purtroppo sui titoli di coda spesso viene tagliata.

"Ricordare, ricordare è come un po' morire. Tu adesso lo sai, perché tutto ritorna anche se non vuoi! E scordare, e scordare è più difficile. Ora sai che è più difficile, se vuoi ricominciare. Ricordare, ricordare è come un tuffo in fondo al mare. Ricordare, ricordare quel che c'è da cancellare. E scordare, e scordare... è che perdi cose care. E scordare, e scordare... finiranno gioie rare".

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 20/09/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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