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Voto Recensore: | 9,00 / 10 | ||
Le leggi della natura impongono delle regole alle quali l'uomo non si può sottrarre: noi nasciamo, viviamo e moriamo in un ciclo continuo che regola la specie, ma a volte capita che il destino, magari sotto forma di un proiettile vagante, interrompa bruscamente questo naturale andamento delle cose e trasferisce all'uomo, impreparato ed incredulo, il dolore più grande che egli possa sopportare: la morte del proprio figlio. "Un borghese piccolo piccolo" è la cronaca di questo dolore.
Mario Monicelli non si fa sfuggire l'occasione che gli si propone con la lettura dell'omonimo romanzo di Vincenzo Cerami - alla sua opera prima - di descrivere in maniera così crudelmente reale i mali che iniziano ad affliggere l'Italia negli anni '70: i patetici meccanismi della burocrazia statale, la crisi psicologica e sociale della piccola borghesia, il dilagare della violenza e la loggia P2; la spensieratezza che aveva contrassegnato gli anni '50 e '60, portata sul grande schermo soprattutto da Monicelli con la commedia all'italiana, è completamente naufragata, e si aprono scenari decisamente più drammatici.
La stima e la fiducia che Monicelli ha sempre riposto nei confronti di Alberto Sordi probabilmente hanno contribuito a far cadere la scelta per il ruolo del protagonista sul versatile attore romano; un'operazione, questa, che si presentava decisamente rischiosa: anche se Sordi aveva già dimostrato con "La grande guerra" di saper interpretare ruoli a lui inconsueti, la lacerante drammaticità che richiedeva il personaggio di Giovanni Vivaldi era tale da far sorgere non poche perplessità ad un pubblico abituato alle gag dell' Albertone nazionale, perplessità neutralizzate di fronte ad una interpretazione straordinaria, di una sorprendente forza espressiva, un mutamento dal comico al tragico di incredibile efficacia, senza ombra di dubbio l'apice della carriera dell'attore romano.
Alla soglia della pensione Giovanni Vivaldi ha un unico desiderio, far assumere suo figlio Mario, neo diplomato, nel ministero in cui lui, diligentemente, ha prestato servizio per una vita; purtroppo le aspettative del padre sono inversamente proporzionate alle capacità del figlio, in verità molto modeste. Questa disparità costringe il povero Giovanni a ricorrere a quella che, a partire dagli anni '70, accompagnerà in una escalation esponenziale il mondo del lavoro soprattutto nel settore pubblico: la raccomandazione.
Iscrittosi, dopo un'improbabile cerimonia, ad una loggia massonica, a Giovanni sembrano aprirsi le porte della tanto agognata sistemazione per il figlio: la felicità entra in casa Vivaldi.
L'ineluttabilità del destino, purtroppo, non conosce i buoni sentimenti, ed un rapinatore, una mattina, si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato; un colpo di pistola interrompe tragicamente i sogni dell'uomo, il figlio rimane ucciso, il dramma prende atto.
In certe circostanze, può l'uomo conciliare la ragione con l'istinto? Si riesce a controllare la dimensione spirituale con quella corporale? Fino a che punto la saggezza gestisce la razionalità? La sofferenza ed il dolore introducono in una sorta di limbo la moglie di Giovanni che rimarrà paralizzata e senza più l'uso della parola, e l' uomo in un turbine di odio e di violenza che lo indurrà a farsi giustizia da solo.
A questo punto il film abbandona una prima parte che comunque aveva regalato momenti di spensieratezza come la pesca al fiume, quadretti macchiettistici tipici di Sordi sia all'interno dell'ambiente familiare che tra le mura dell'ufficio, per introdurci in una seconda parte in cui la vendetta di un padre fa assumere al film una connotazione di inaudita crudeltà; il cambiamento etico e morale del personaggio rappresenta il cambiamento socio-politico dell'Italia di quegli anni, la simbiosi tra Giovanni Vivaldi e la società è totale.
Al di là della straordinaria 'interpretazione di Alberto Sordi, che da sola varrebbe la visione del film, che cosa ci si deve aspettare da una pellicola come questa? Quali possono essere i motivi che spingono chi scrive a consigliare vivamente la visione di "Un borghese piccolo piccolo" a chi non lo ha ancora fatto?
La possibilità di vivere uno spaccato della profonda crisi che ha imperversato in Italia negli anni di piombo, abbracciando tutto, la politica, le istituzioni, la borghesia, la classe operaia, le scuole, il sindacato, nonchè una totale perdita di valori che ha aperto la strada alla criminalità, alla mafia, al terrorismo; dietro un' apparente normalità l'esistenza di Giovanni Vivaldi nasconde tutte le debolezze, le paure, ma anche il cinismo e l'egoismo del'italiano medio degli anni '70 costretto, da una dimensione del sociale del tutto assente, a ricorrere a varie pratiche eticamente poco edificanti ma estremamente efficaci.
Il film, come d'altra parte lo è stato ancor prima il libro di Cerami, è anche una ferma condanna delle istituzioni e della loro latitanza; il cittadino è lasciato solo e, sentendosi non protetto, al crimine reagisce in modo incontrollato, rispondendo alla violenza con la violenza.
Evidentemente quella di Giovanni Vivaldi non è l'unica risposta possibile, altrimenti avremmo migliaia di giustizieri, ma la predisposizione ad una certa aggressività ci viene suggerita sapientemente all'inizio del film, quando Giovanni si accanisce con una violenza inaudita sul luccio appena pescato con il figlio Mario, massacrandolo a colpi di pietra; lo stesso accanimento verrà riservato all'assassino del figlio.
Riguardo a questo è importante notare come Giovanni rappresenti il prototipo di persona "normale" all'interno della quale si annida il germe del mostro pronto ad esplodere; è emblematica in tal senso la contrapposizione che c'è tra l'uomo che amorevolmente accudisce la moglie malata - e qui assistiamo ai momenti più intensi e commoventi del film - e l'uomo spietato che infierisce sul corpo indifeso del ragazzo: siamo al totale sdoppiamento della personalità.
Il cast si avvale, oltre che di un sorprendente Alberto Sordi, anche di altri, eccellenti interpreti: sicuramente non facile l'interpretazione di Shelley Winters (la moglie Amalia), costretta dalla sua condizione ad un gioco di sguardi straziante ma straordinariamente espressivo; sufficiente la prova di Vincenzo Crocitti (il figlio Mario), un po' sacrificato dal personaggio assegnatogli, mentre è indiscussa la bravura di Romolo Valli nei panni del dottor Spaziani.
Un grande film di un grande regista che dal primo "Totò cerca casa" del 1949 all'ultimo "Le rose del deserto" del 2006 ha firmato, in sessant'anni di carriera, pellicole che hanno fatto la storia del cinema in Italia; un uomo intelligente dotato di un talento straordinario.
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Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 07/02/2008
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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