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9 Ottobre 1963: nel bellunese si staccano 260 milioni di metri cubi di roccia, e muoiono 2000 italiani. La cittadina di Longarone è la più colpita in assoluto.
9 Ottobre 1997: milioni di italiani assistono sgomenti e impietriti a una delle più grandi trasmissioni della storia della televisione italiana di ogni tempo, Marco Paolini celebra in uno special memorabile la nascita e la fine di una delle vicende più oscure e tragiche della nostra storia: il racconto è agghiacciante abbiamo sotto gli occhi immagini che non vediamo, il dolore che non sappiamo, il lutto il rumore del mare, il silenzio della sera squarciato all'improvviso da un'inevitabile e profetizzata tragedia immane, il tempo scorre davanti ai nostri occhi perché noi "vediamo" tutto ed è questo che riesce a fare Paolini: è già cinema, il suo. Ma purtroppo è tutto vero.
Qualche anno dopo, l'inevitabile confronto cinematografico, un autore (Mancinelli) da sempre in prima linea (pure troppo) nel scoperchiare gli altari o essere instant-director, l'uomo giusto al momento giusto (tutto sommato penso che il suo film più credibiile resti "I Pavoni" sul caso Maso).
Ovvero. La cura dopo la ferita, il (brutto) cinema che fa (brutta) televisione quando bastava già una grande televisione (Paolini) che sembra "grande cinema". E in effetti lo era, e non solo.
Tranquilli pensa a tutto Mancinelli: adescato dai reperti democristiani della Rai, esegue correttamente il suo compitino, sapendo che avrà pur sempre un pubblico bolso ed emotivamente coinvolto disposto ad ascoltarlo. C'era bisogno di un film come questo? Probabilmente no.
Il 10 Ottobre 1963, mentre gli abitanti di Longarone e dei paesi limitrofi guardavano la partita di calcio in tv - nello spazio privato e pubblico di una grande tradizione popolare (anch'essa sciaguratamente dominata dalle tragedie, vedi il Torino di oltre un decennio prima) un'enorme frana piomba nel bacino della diga del Vajont provocando l'uscita di una massa enorme di acqua che distrugge e annienta paesi e abitanti provocando due migliaia, circa, di morti.
La diga del Vajont fu costruita tra il 1941 e il 1959 per mano della Sade (concessionaria dell'elettricità nel Veneto) a cui subentrò in un secondo momento l'Enel dopo la nazionalizzazione dell'energia elettrica in Italia. Le responsabilità accertate dopo la strage furono enormi, la stessa commissione per il collaudo - composta dagli stessi che avevano approvato il progetto - aveva taciuto, pare, sui pericoli a cui andavano incontro, mettendo a repentaglio la vita di tante persone in virtù di un'economizzazione selvaggia (diciamolo: in conseguenza al boom economico della Fiat di Torino e alle grandi industrie).
Uno scellerato esempio di prevaricazione di potere che dovrebbe farci riflettere ancora oggi. Purtroppo la storia la si conosce: le responsabilità non furono mai accertate e nel 1969 quasi tutti gli imputati furono assolti. A prima vista la vicenda del Vajont è la classica dell'abuso di potere, ma in realtà fu la prima autentica dimostrazione che l'abuso edilizio avrebbe iniziato il suo corso anziché rivelarsi - come sarebbe stato lecito sperare - il suo epitaffio definitivo: in qualche modo ha inaugurato un escamotage per atti esecrabili che potevano anche solo lontanamente rievocare la famigerata vicenda.
Ci sarebbero tutte le ragioni per essere magnanimi col film di Mancinelli, ma è davvero impossibile. Quest'opera sembra prefiggersi soltanto la spettacolarizzazione emotiva (a dire il vero ben poco originale) di tutto ciò che Paolini mostrava e raccontava col semplice uso delle parole, con il "racconto di uno sguardo". La prevedibile love-story, i dialoghi corrivi e ridicoli, l'uso spietato della retorica che ricorre ad ogni immagine, tutto suggerisce l'idea di un cinema stuprato dalla tv, ma anche plagiato dal peggior Germi e dal populismo di Genina.
Se Mancinelli voleva rappresentare anche un'indagine storica, di costume, lo ha fatto nel modo peggiore possibile: gli abitanti di Longarone sono dipinti come rozzi e creduloni montanari di scarsa cultura, che pendono dalla bocca del solito insulso parroco di paese, la cittadina è fiera di lotterie strapaesane e vinaioli impenitenti, con tanto di irritante lirismo (?) catto-(ecu)co(me)nista(co) - insopportabile la riconciliazione ehm Guareschiana tra la giornalista "rossa" Merlin (Morante) e il prete.
Naturalmente il film è enfatico (fin dalla musica, i toni grevi appartengono al revanscismo anacronistico di Bocelli), inutilmente roboante. Ne esce un'Italia - una "certa" Italia - che stride assai con i valori massmediologici del boom economico di allora: un popolo rozzo, ignorante, semianalfabeta, del tutto inerme davanti ai "luminari" che purtroppo nel modo peggiore si arrogano il diritto di "fare storia a sè".
La cosa peggiore che si possa dire di "Vajont" è che tutto segue i criteri di una falsificazione parziale della realtà. Apparentemente molto fedele ai fatti, ma prudente da non disturbare nessun "cane che dorme", come se la degenerazione del potere potesse confrontarsi - che illusi - soltanto con la predisposizione naturale alla Catastrofe (anche oggi lo pensiamo, vogliamo pensarlo). Qui si specula sulla morte: perché ci si arroga il diritto di "santificare" (o perlomeno assolvere) le (in)coscienze attraverso i dogmi cultural-religiosi, di sottolineare il vuoto di una generazione che Mancinelli dovrebbe rispettare (sono i suoi padri, dopotutto), non - si badi - le dirette responsabilità di coloro che hanno operato e provocato un simile cataclisma. Sarà un caso, ma anche Mancinelli assolve attraverso il film tutti gli imputati, colpevoli (ma sì) di rincorrere un sogno più grande di loro stessi, ma in fondo tardivamente pentiti (Serrault muore d'infarto), addolorati (Gullotta) o tristemente ancorati all'ultimo baluardo di orgoglio in un input di commovente (commovente sì) cinismo (Auteuil).
Dio ma com'è bella e rassicurante la piazzetta di Longarone con i suoi abitanti-presepe, e le luci al neon, e pure qualche anomalia insolitamente moderna in tanto oscuro e atemporale scenario... Nondimeno, il referente inevitabile è il successo internazionale di "Titanic", in un déjà-vu d'immagini che certo non ha la forza delle immagini del film di Cameron, ma che almeno è decorosamente capace di ancorarsi a un livello sufficiente nel confronto con i film catastrofici di genere d'oltreoceano.
Ma è davvero tutto così negativo il film? Purtroppo no, perché mantiene alla fine quel poco che promette, la tensione emotiva sale e qualcuno nella sala impreca e ha gli occhi lucidi. Ci sono, è vero, dettagli persino sorprendenti nella loro minuziosità (la telefonista che indirettamente ascolta la conversazione dell'ingegnere poco prima del dramma) e un cast europeo di notevole livello (benché doppiato in modo pessimo).
Laura Morante è una Merlin lucida ed esauriente, "controparte" ideologica di una giustizia che non ascolta, Serrault è eccellente e trasforma il suo ben poco incisivo personaggio in un'esperienza persino stimolante, Auteuil sembra appartenere a un film non suo, e se la cava dignitosamente. Ma l'effetto è ricercato e anche un buon cast, fornito al momento del bisogno, rende utopistica ed effettistica la realizzazione di un film pieno di stereotipi, tentativo accettabile di ripetere i fasti made in Usa nel genere, e vile film di denuncia avvolto dai caldi manierismi del cinema popolare. La tragedia del Vajont meritava più rispetto, e per questo la televisione (Paolini e la diretta tv) per una volta hanno avuto il merito che manca a questo film.
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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 12/01/2006
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it
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