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Come creare un film senza neanche spendere un centesimo? Ce lo spiega Dustin Mills con un'antologia a costo zero, ma nel vero senso della parola. Non per questo non intrattiene e compie il suo dovere di mettere a disagio lo spettatore.
Il film si divide in quattro parti, tutto girato in bianco e nero con delle scelte che omaggiano, o parodizzano, il cinema muto degli anni 30 con un sottofondo di risate e applausi a dir poco inopportuni. Ogni attore indossa una maschera per compensare qualsiasi lacuna di recitazione, non c'era via di scampo, bastava mettere una mente abbastanza malata dietro la videocamera ed era fatta, così è stato.
Di certo non si può definire una pellicola disturbante, le scene di violenza esplicita sono pochissime e fanno da contorno, il vero punto forte del film è la violenza psicologica e la leggerezza nel trattare certe tematiche, come ad esempio l'umiliazione di un anziano disabile, l'incesto, violenze sessuali e così via. Le risate finte da sitcom anni 70 rafforzano la mia tesi e quasi trasformano il film in una commedia nerissima.
Io lo reputo un lavoro riuscito indubbiamente, anche se ammetto che avrei voluto qualcosa di più, la mia immaginazione volava letteralmente durante la visione e non sono stato del tutto accontentato, però una cosa è certa, sono film come questo che rivoluzionano l'underground cinematografico e spingono verso il cambiamento sempre in meglio del genere.
Le mura domestiche sono tutt'altro che un conforto ed un rifugio. E' un luogo dove la bassezza umana regna incontrastata. Sopraffazione, pulsioni incontrollollabili e frustrazioni varie sono espresse con la fisicità e la mimica degli attori, senza dialoghi e con controcampo da situation comedy che rende ogni episodio bizzarro e grottesco, aldifuori del terzo episodio, più serio e doloroso rispetto agli altri. Come contrasto alla mimica fisica ci sono maschere inespressive che rendono il tutto estremamente inquietante senza mai sconfinare nel gore, anche se le situazioni raccapriccianti non mancano di certo. Niente male come esperimento.
I quattro episodi costituenti "Applecart" sono tutti fatti nei quali, purtroppo, potremmo imbatterci guardando un qualunque notiziario televisivo o leggendo un giornale a caso. Pagine di cronaca nera, consumate in situazioni familiari in cui il disagio, soprattutto mentale, prende il sopravvento. Il regista Dustin Mills opta per una messa in scena molto particolare. Innanzitutto centra l' utilizzo del bianco e nero, palese omaggio al cinema muto cui si allinea con attori chiamati a recitare tramite la gestualità e la mimica del corpo, non quella del viso considerata la scelta di coprire i volti con maschere. Poi sceglie musiche in linea con quelle opere datate, fuse in un bizzarro mix da sit-com anni 80/90 con applausi e reazioni provenienti da un pubblico immaginario. La violenza non è mai disturbante, si punta punta a destabilizzare sfruttando situazioni più morbose e grottesche che visivamente shockanti, non a caso le molte scene di sesso (soprattutto di masturbazione) e di violenza psicologica hanno il sopravvento su quelle più brutali. Inoltre fornisce una versione di malvagità senza scampo: negando, con l'annullamento della voce e dei tratti fisici, personalità ai suoi personaggi -cui ritaglia ruoli molto normali ( il padre, la figlia, la madre, il collega di lavoro, l'anziano incapace da badare a se stesso, l'amica di famiglia, ecc...)- sottolinea come il male sia umano per natura e come possa annidarsi ovunque, potendo attecchire in qualsiasi contesto. Gli episodi migliori sono il primo e il terzo, entrambi imperniati su rapporti estremi tra padre e figlia. Meno convincenti, ma non deludenti, la storia di soprusi del secondo segmento e l'amor fou del quarto.